Autopsia

Gli abiti nuovi di Alain Badiou

Séverine Denieul
 
«Kant ha creato il linguaggio della modernità filosofica. E così come abbiamo iniziato a dire
che Derrida non era che una parentesi — geniale, ma una parentesi — fra Heidegger e Badiou;
così come abbiamo osato affermare che Heidegger non era che una parentesi
— cruciale, ma una parentesi — fra Hegel e Badiou; adesso possiamo arrivare alla temerarietà
di affermare che Hegel non è che una parentesi — grandiosa, ma una parentesi — fra Kant e Badiou».
(Mehdi Belhaj Kacem, L’Esprit du nihilisme: une ontologie de l’Histoire, Fayard, 2009)
 
«Uno dei tratti più caratteristici della nostra cultura è l’onnipresenza della chiacchiera. Ognuno di noi ne è consapevole — e ha la sua parte di responsabilità. Ma tendiamo a considerare naturale questa situazione.
La maggior parte delle persone hanno fiducia nella loro capacità di riconoscere la chiacchiera e di evitare di rimanerne ingannati. Così questo fenomeno solleva assai poche inquietudini e non ha suscitato studi approfonditi». 
(Harry G. Frankfurt, De l’art de dire des conneries, 10/18, 2006)
 
 
Il minimo che si possa dire è che, coi tempi che corrono, è quasi impossibile non inciampare sull’ultima opera in ordine cronologico di Alain Badiou. Autore prolisso quanto mai, si vede affabulato da un numero incalcolabile di titoli o definizioni che alla lunga sembrano essere riusciti a convincere il grande pubblico dell’importanza della sua opera: «maître à penser», «pensatore radicale», quando non «chirurgo del concetto» (Rémy Bac), nessuno rinuncia a concedere al filosofo uno statuto d’eccezione. La sua volontà dichiarata di «rifondare la filosofia» lo porta a coprire tutti i campi del sapere: la politica, l’estetica, le matematiche, la letteratura attraverso il romanzo, la poesia o la scrittura di testi teatrali. Autore di opere su Beckett, ma anche su Platone, Wittgenstein e San Paolo, Badiou incarna nei media il pensatore «geniale» capace di mettere in parallelo nozioni complicate con opere molto differenti tra loro. Erede della filosofia “continentale” più astrusa (Heidegger, Lacan, Althusser), Badiou ha in effetti quella forma di spirito particolare, così caratteristica della nostra epoca, che consiste nell’incrociare nozioni e ambiti distanti le une dagli altri per farne una sintesi «personale» che, lungi dal chiarire i problemi, li rende ancora più oscuri. È il caso, ad esempio, dell’accostamento che opera fra il marxismo, la psicanalisi e la matematica.
Tutto ciò costituisce solo una parte delle sue attività, in quanto si considera anche un pensatore appartenente all’«ultra-gauche» (termine che non rinnega), nell’esatta linea staliniana e maoista dei maître à penser politici degli anni 60. Nel 1985 ha fondato, con Sylvain Lazarus e Natacha Michel, un gruppuscolo politico «postleninista e postmaoista» chiamato «l’Organizzazione Politica».
Ma quali rapporti intrattiene Badiou con la French Theory ed il postmodernismo? Badiou riproduce e prolunga il percorso intellettuale proprio dei «maestri» francesi, e ciò in diversi modi:
- riprendendone anzitutto i temi e i motivi filosofici, sebbene si sia sempre dichiarato ostile alle idee che ruotano attorno alla «morte della filosofia» (Derrida, Lyotard);
- posizionandosi come «intellettuale impegnato» alla maniera di Foucault;
- utilizzando lo stesso stile filosofico che favorisce il falso approfondimento a scapito della chiarezza.
Di recente Badiou ha anche adottato una tattica che consiste nel definirsi come l’ultimo rappresentante vivente della corrente filosofica uscita da Vincennes. Questa affermazione resta tuttavia da sfumare poiché, come vedremo, si distingue su vari punti: in particolare, la sua concezione della politica e della democrazia parlamentare sembra essere una nuova strategia messa in atto per recuperare il passato rivoluzionario della sua generazione allo scopo finale di posizionarsi come il pensatore più «radicale» del XX secolo.
Ci interesseremo quindi meno alla filosofia ontologica o matematica di Badiou — talmente inconsistente da non meritare nemmeno d'essere esaminata — quanto alla sua posizione politica. Benché sia assai difficile separare questi due ambiti dato che, per Badiou, la filosofia in sé è politica (il filosofo, per via del suo stesso statuto, è impegnato).
Ma torniamo brevemente sul suo percorso prima di studiare il suo ruolo all’interno dell’editoria, dei media, dell’istituzione, così come della politica e della filosofia francese contemporanea.
 
Breve sunto del percorso di Alain Badiou ad uso di coloro che hanno la fortuna di non conoscerlo ancora
Come ci ricorda la voce di Wikipedia, forse scritta da uno dei suoi discepoli giacché è al tempo stesso elogiativa e — a tratti — incomprensibile, sappiamo che Alain Badiou, nato nel 1937, è un «vecchio allievo della École Normale Supérieure, primo al concorso di ammissione alla facoltà di filosfia nel 1960. All’inizio insegna al liceo (collaborando puntualmente con l’ENS), poi alla facoltà di Lettere di Reims (collegio letterario universitario), dove fu al centro (sic!) degli “avvenimenti”, impegnandosi nel Partito socialista unificato (PSU) diretto allora da Michel Rocard, ma situandosi con altri militanti intellettuali come Emmanuel Terray all’interno di correnti che si richiamavano al marxismo-leninismo. Aderisce poi all’équipe del Centro universitario sperimentale di Vincennes fin dalla sua creazione (annata 1968-69). Contribuisce allo sviluppo di questa Università (ormai Paris VIII, spostata da Vincennes a Saint Denis) per una trentina d’anni. Diventa professore all’École Normale Supérieure della rue d’Ulm nel 1999, poi professore emerito in questa istituzione. È stato anche direttore del programma al Collegio internazionale di filosofia». Più noto in Francia come oscuro filosofo le cui preoccupazioni hanno sempre seguito le mode, poiché toccano sia la psicanalisi lacaniana che la filosofia heideggeriana o ancora le teorie di Althusser (di cui è stato allievo e discepolo), Badiou non prova tuttavia alcuna vergogna nel presentarsi come un romanziere e un drammaturgo di primissimo piano dal forte impegno politico.
Ricordiamo in effetti che è stato uno dei dirigenti del partito maoista francese in qualità di militante all’UCFML [Unione dei Comunisti di Francia Marxista Leninista], allo stesso titolo del resto del suo «amico» e discepolo François Wahl che egli pubblica oggi presso Fayard. Le sue attuali idee politiche si collocano nella linea dritta del suo maoismo come riporta un accorto osservatore dell’epoca: «Questo Badiou è in realtà un maoista (era ancora di recente il leader del “gruppo per la ricostruzione del partito comunista marxista-leninista di Francia”) scappato dallo zoo intellettuale di Vincennes. [...] E quando nella sua auto-presentazione della Teoria del soggetto si tradisce, lo fa per insegnarci che Stalin, il “quinto grande maoista”, è “all’indice” perché i primi quattro, Mao compreso, sono di un “uso così permanente che la loro enumerazione sarebbe incongrua”!» (Jean-François Martos).
Oggi egli tenta più che mai di occupare il terreno politico e filosofico, avendo acquisito una fama universitaria e mediatica ancora insperata qualche anno fa. Come ha avuto accesso a questo status privilegiato?
 
Il culto dell’Essere supremo
Interessiamoci innanzitutto del suo ruolo più visibile: quello che occupa nei media. È soprattutto a partire dalla pubblicazione del suo libro Sarkozy: di che cosa è il nome? (2007) che Badiou si è fatto conoscere al grande pubblico in quanto «capofila» dell’anti-sarkozismo primario, attirandosi al tempo stesso il favore dei media.
Giudicate voi: nel 2008 Badiou è sttao successivamente l’invitato speciale di “Libération” (27 gennaio 2009), di “France Culture” per una serie di trasmissioni dedicate alla sua vita ed alla sua opera, di “Philosophie Magazine”, in cui beneficia di un’accoglienza assai favorevole, così come di altri organi della stampa dominante, senza dimenticare quella che egli dichiara essere il suo peggior nemico, ossia la televisione. Questa onnipresenza è tuttavia in netta contraddizione con le sue dichiarazioni su ciò che definisce, da buon discepolo di Althusser, gli «apparati ideologici dello Stato» di cui i media fanno parte. Lo dice in maniera molto esplicita nel primo capitolo di Sarkozy: di che cosa è il nome?: «[I media], innanzitutto la televisione ma, più subdolamente, anche la stampa — sono forze d’irragionevolezza e d’ignoranza davvero spettacolari. La loro funzione è, infatti, quella di propagare gli affetti dominanti» [Edizioni Cronopio, Napoli 2008, p.8]. Non sembra turbato oltre misura di trovarsi in palese contraddizione con le idee che difende pubblicamente allorché si tratta di rispondere alle interviste o di scrivere articoli per riviste appartenenti, per riprendere i suoi stessi termini, all’«ideologia ufficiale».
Nemmeno il settore editoriale è a riposo: nel 2008-2009, quattro opere pubblicate, ed ogni volta per case editrici diverse. Possiamo quindi rintracciare per il lettore questo percorso del combattente: Piccolo Pantheon portatile, Secondo Manifesto per la filosofia, L’Anti-philosophie de Wittgenstein, Circonstance 5: L’Hypothèse communiste, lasciando volontariamente da parte articoli, interviste ed altri testi di ogni genere che, immancabilmente, vengono ad aggiungersi a questa produzione già sovrabbondante. Badiou dà così l’impressione di coprire tutti i campi del sapere. Inoltre, intrattiene legami privilegiati con diversi editori, la maggior parte dei quali impegnati «alla sinistra della sinistra», come La Fabrique, Lignes, o Nous, ma è anche direttore della collana “Ouvertures” presso Fayard con Barbara Cassin dove si pubblica da sé. Questa collana di Fayard serve ugualmente a pubblicare, oltre ai suoi libri, quelli dei suoi discepoli.
 
Badiou intrattiene anche numerosi legami con prestigiose istituzioni all’interno delle quali egli ha ogni libertà di parola, poiché tiene corsi alla ENS (École Normale Supérieure, rue d’Ulm) in quanto professore-invitato. Quest’anno, i suoi studenti hanno potuto seguire dei seminari su Platone il cui titolo che si voleva umoristico, «Per oggi: Platone!», non deve comunque ingannarci sugli obiettivi reali della sua pedagogia. Questa consiste non tanto nell’esaminare in maniera minuziosa e metodica dei testi platonici quanto a presentare le sue tesi personali. Questa autopromozione è visibile sui diversi siti internet dedicati alla trasmissione dei suoi corsi ed è interamente rivendicata in Sarkozy: di che cosa è il nome?, giacché numerosi capitoli di quest’opera non sono che la trascrizione pura e semplice, per il volgo, dei lunghi monologhi dei suoi seminari. Ecco, per esempio, il genere di considerazioni pseudofilosofiche che professa Badiou ai suoi allievi sotto il pretesto di un «corso» su Platone:
«La situazione planetaria del pensiero attesta oggi che tutte le forme di relativismo, specialmente il preteso “dialogo delle culture”, sono legate all’impresa del capitalismo globalizzato, delle mostruose ineguaglianze che produce, e delle forme politiche mediocri quanto violente che sono ad esso associate sotto il vago nome di “democrazia”. [...] È perciò rigorosamente impossibile pensare una qualsiasi cesura nelle rappresentazioni dominanti senza attaccare il loro nocciolo, quel che ho chiamato il “materialismo democratico”, la cui unica proprietà consiste nel non possedere nulla di assoluto né di vero, ma solo l’ineguaglianza delle convinzioni personali e la finitudine animale delle identità. Perché la nostra guida, nel guardare questa situazione, è dall’anno scorso Platone? Il fatto è che Platone ha dato l’avvio alla convinzione che governarci nel mondo suppone che qualche accesso all’assoluto ci sia aperto, non perché un Dio verace ci sovrasta (Cartesio), né perché siamo noi stessi gli agenti del divenire-soggetto di questo Assoluto (Hegel come Heidegger), ma perché il sensibile che ci ordisce partecipa, al di là della corporeità individuale e della retorica collettiva, alla costruzione delle verità eterne» (introduzione al seminario trascritta da Daniel Fischer).
Badiou fa dunque dei suoi corsi degli strumenti di propaganda che giovani ingenui considerano tuttavia come brillanti elucubrazioni di un genio universale.
 
Alain Badiou non si considera nemmeno un militante comune sul piano politico: voi forse ancora non lo sapete, ma l’Organizzazione Politica che egli ha fondato costituisce l’azione politica più significativa del XX secolo! Autodefinendosi come un «animatore contemporaneo dell’ipotesi comunista» [«dello spettro del comunismo», nella traduzione italiana], (Sarkozy, p. 44), egli non esita infatti a porre la creazione de «l’OP» sullo stesso piano di ciò che definisce le «altre sequenze dell’Ipotesi Comunista»: «Tra le sequenze politiche, lunghe o brevi, che hanno contribuito, fin dalla metà degli anni 70, a ripristinare l’ipotesi comunista (anche quando il termine era bandito), cioè a trasformare, in controcorrente rispetto alla dominazione del capital-parlamentarismo, il rapporto tra la politica e lo Stato, si possono citare: i primi due anni della rivoluzione portoghese [...] la prima fase dell’insurrezione contro lo Scià di Persia; la creazione in Francia dell’Organisation politique; il movimento zapatista in Messico» [Sarkozy, nota 21 p. 122]. Badiou, questo grande modesto, ha così l’impressione di «reincantare» il mondo politico per il solo fatto di averlo deciso, giocando unicamente sull’uso delle parole come ogni french-teorico che si rispetti. Ripetere in tutte le salse che la creazione de «l’OP» denota uno scandalo permanente contro lo Stato non è soltanto grottesco, ma indecente. La «radicalità» di Badiou non è che un imbroglio per rivoluzionari da salotto, a immagine delle stampe che da qualche tempo si trovano sui marciapiedi di rue d’Ulm e che, sotto l’effige di Karl Marx, proclamano: «arriva!». L’OP evidentemente non fa paura a nessuno, men che meno al potere in carica. Ciò non impedisce a Badiou di proseguire le sue imprese di recupero di ogni genere (come il recente movimento dei sans-papier), contendendosi di passaggio con qualche altro pensatore del calibro di Zizek il minuscolo orto della «radicalità» politica lasciato vuoto dalla sinistra. Le sue ambizioni sono in effetti abissali: «In politica, l’estensione (prevista da Marx) del mercato mondiale modifica il trascendentale (il mondo, la scena attiva) dell’azione emancipatrice, e forse solo oggi sono veramente riunite le condizioni per un’Internazionale comunista che non sia di Stato o burocratica. Già ora, comunque, esperienze politiche continue, portatrici di un bilancio della storia del secolo scorso e radicate nel reale operaio e popolare, mostrano due cose: innanzitutto, che è possibile svolgere una politica che si tenga a distanza dallo Stato [...] e, in secondo luogo, che questa politica propone forme di autorganizzazione assai lontane dal modello del partito che ha dominato durante tutto il XX secolo» [Secondo manifesto per la filosofia, Edizioni Cronopio, Napoli 2010, p. 99]. Nel caso in cui non si sia capito bene, aggiunge in nota: «Sull’esperienza politica francese più importante in questa direzione rimando alle pubblicazioni dell’Organisation politique et du Ressemblement des Collectifs des Ouvriers Sans Papiers des Foyers» [Secondo manifesto..., nota 3, p. 99]. 
 
La collusione fra filosofia e politica
In Metapolitica Badiou nega di appartenere in qualche modo alla «filosofia politica» in modo da promuovere al tempo stesso una nuova teoria che si presuma opporvisi (la «metapolitica») e la sua concezione della filosofia come «azione», avvicinandosi sotto molti aspetti all’impegno sartriano e foucaultiano. Il primo capitolo della sua Metapolitica è del resto dedicato a ciò che egli chiama i «filosofi resistenti», sul modello di Cavaillès, e pone un principio di equivalenza fra la filosofia e il rischio: «Non resistere è non pensare. Non pensare è non rischiare di rischiare» (Metapolitica, Edizioni Cronopio, Napoli 2001, p. 24). Formula tipicamente badiouliana, vicina alla tautologia, e che affettando di svelare un pensiero brillante enuncia solo banalità affliggenti. Questo riferimento a Cavaillès, in realtà, ha una mira molto più pragmatica: serve ad emettere l’idea assai contestabile che essere un filosofo è per forza di cose essere un resistente. Essendo lo stesso Badiou un filosofo, il seguito del sillogismo va da sé...
Il proposito di Badiou è quello di dimostrare che la filosofia si confonde con l’impegno politico, ponendo così questa disciplina al di sopra di ogni sospetto. Ciò permette evidentemente di sottintendere che la filosofia sarebbe una istanza detta «critica» ed onnipotente, capace in sé di rimettere in causa il potere stabilito. Questa sopravalorizzazione della filosofia ci sembra fare parte di una forma d’impostura denunciata da Bouveresse in Le Philosophe chez les autophages: «il pensiero filosofico non è “critico” per definizione e una volta per tutte: anch’esso continua a generare le forme più caratteristiche e più tenaci della mitologia dell’errore che, al tempo stesso, dovrebbe avere come funzione di denunciare e combattere».
 
A sentire Badiou la filosofia, disciplina «critica» per eccellenza, farebbe parte di tutte le lotte, sarebbe al servizio di tutte le cause — soprattutto quando si tratta dei pallini personali de «l’Essere supremo». Questo termine è in realtà una specie di «guazzabuglio» che ricopre cose estremamente diverse: quando si attacca «l’ipotesi comunista» è la filosofia a finire nel mirino, quando certi giornalisti americani gratificano Badiou e Zizek del qualificativo «reckless» (che Badiou traduce con «sprovvisti di ogni prudenza») è ancora una volta la filosofia a venir derisa. Volta per volta brandita contro la doxa, la morale o la democrazia, la filosofia è lo stendardo di cui si serve Badiou per giustificare tutto: la sua posizione politica, il suo status, così come i punti ciechi della sua teoria. Confusa con «l’Idea comunista» quando si tratta di criticare la democrazia con tono grandiloquente e sentenzioso, la filosofia è anche un’arma contro la morale quando si tratta, per giocare al ribelle con poche spese, di insorgere contro i «nuovi filosofi» e «l’ideologia dei diritti dell’uomo». Bisogna dire che è una delle specialità di Badiou quella di denunciare «il dogma» o «l’ideologia» di tale o talaltra cosa fino a svuotare queste parole del loro significato intrinseco, per attribuirgliene uno tipicamente badiouliano. Non siamo affatto lontani dalla «neolingua» inventata da Orwell poiché lo scopo reale di queste manovre lessicali è distogliere il lettore dalle «ideologie» e dai «dogmi» reali.
 
Badiou ha fiancheggiato i filosofi detti di Vincennes (Foucault, Deleuze, Lyotard, Rancière) in quanto giovane confratello e, anche se non era sempre d’accordo con loro (come egli stesso rimpiangerà a proposito di Deleuze), non cessa di rendere loro omaggio. Piccolo Pantheon portatile è, a questo proposito, particolarmente rappresentativo del culto che Badiou cerca di alimentare nei loro confronti: questo libro è una compilazione di articoli scritti alla morte dei «maestri» della French Theory.
Vi si trovano le «orazioni funebri» di Lyotard, Deleuze, Foucault e Derrida in salsa Badiou, vale a dire ricordando insidiosamente il legame personale o intellettuale che lo unisce a queste figure. Così, da semplice «seconda fila» della French Theory, Badiou ne è diventato la figura rappresentativa in quanto solo sopravvissuto di quel periodo. D’altronde non omette di ripeterlo, atteggiandosi ad autentico «guardiano del tempio» di questa corrente filosofica (certo disparata) così come di certi valori che possono essere ad essa associati.
La valorizzazione del «momento» filosofico degli anni sessanta serve quindi da trampolino di lancio alla teoria di Badiou così come a quella dei suoi discepoli. Man mano che Deleuze, Foucault e Lyotard sono recuperati da Badiou, sono inesorabilmente votati ad un «divenire-Badiou». Basta leggere l’opera di volgarizzazione di Badiou su Deleuze, intitolata Deleuze. «Il clamore dell’Essere», per rendersi conto di questo fenomeno. Badiou applica a Deleuze il proprio vocabolario, le proprie teorie filosofiche aggiungendogli le proprie figure tutelari: Heidegger, Badiou (non si è mai serviti meglio di quando ci si serve da sé) — e Dio sa se non valeva la pena d’aggiungere maggior oscurità e confusione all’opera di Deleuze! Tutto viene quindi visto attraverso il filtro del pensiero «Badiou» allo scopo di elevare questa maniera di fare filosofia al rango di metodo «supremo»: «Ho pubblicato il mio primo Manifesto per la filosofia nel 1989. Non erano anni fausti, credetemi! Il seppellimento dei cosiddetti “anni rossi” che seguirono al Maggio 68 ad opera di interminabili “anni-Mitterand”, l’arroganza dei “nouveaux philosophes” [...] Conservare in tali condizioni l’ottimismo del pensiero, sperimentare nuove forme politiche in stretta connessione con i nuovi proletari venuti dall’Africa, reinventare la categoria di verità, impegnarsi nei sentieri dell’Assoluto secondo una dialettica interamente rinnovata fra la necessità delle strutture e la contingenza degli eventi, non cedere... Che storia! È di tutta questa fatica che testimoniava, in maniera succinta e vivace, il primo Manifesto per la filosofia. Libretto che era come una serie di memorie del pensiero scritte dal sottosuolo» (Secondo manifesto..., p. 9 e 10). Dinanzi a cotanto sforzo da titani non ci resta che inchinarci e augurare lunga vita al «grande timoniere» della filosofia, Alain Badiou!
 
La pretesa radicalità di Badiou. L’ipotesi comunista. Il maoismo di Badiou
In una conferenza data nel 2002 e pubblicata col titolo «La révolution culturelle: la dernière révolution?», Badiou si prende il lusso di tornare per l’ennesima volta sulla cronologia della Rivoluzione culturale al fine di sdoganare il suo personaggio storico preferito: Mao. Già non era glorioso essere maoisti negli anni settanta, ma che dire di qualcuno che lo è sempre nel 2002, se non nel 2009, e che per di più è un filosofo mediatizzato come Badiou? Per quest’ultimo il fatto di essere rimasto fedele allo spirito maoista non è affatto riconosciuto come una tara o un segno di idiozia e di infrollimento mentale, al contrario! È una qualità innegabile che testimonia una grande costanza morale e un impegno radicale senza difetto. Così, ad un giornalista che gli domanda di tornare sul suo successo mediatico in quanto «simbolo di una nuova radicalità [che critica] il liberalismo, il riformismo e anche la democrazia» (sic!), Badiou risponde: «Se gli intermediari mediatici hanno di recente scoperto la mia “radicalità” politica e intellettuale, è perché non sono cambiato dagli anni 70, un periodo in cui sotto l’aggettivo “rivoluzionaria” la radicalità politica si portava bene. Durante gli anni 80 molti hanno rinunciato mentre io sono rimasto fedele» (“Libération”, 27/1/2009). Essendo questa posa messa in avanti in numerose interviste per permettere a Badiou di fare la parte del leone nel circo mediatico, non si può fare a meno di pensare che vi sia qui connivenza o, per lo meno, convergenza di interessi. Si supera un livello supplementare di autocompiacimento e soddisfazione di sé con la recente intervista a Badiou realizzata da Frédéric Taddéi alla televisione, nel corso della trasmissione “Ce soir ou jamais” ( France 3, 9/4/2009):
«Frédéric Taddéi: Alain Badiou, buongiorno. Lei è filosofo, poco noto al grande pubblico, fugge alla televisione, la ringraziamo per l’onore che ci fa, a noi come ai telespettatori di “Ce soir ou jamais”, nell’accettare il nostro invito. Lei è quel che si dice un “maître à penser”. Ha insegnato a Paris VIII, al Collegio Internazionale di Filosofia, all’École Normale Supérieure dove anima un seminario di grande successo, come si dice, non solo in Francia perché è il caso anche in America, in Asia, fino in Australia, in tutta Europa ovviamente. I suoi seminari di filosofia sono estremamente frequentati dagli intellettuali, dagli studenti. Molto si deve al suo impegno politico: lei è considerato come l’ultimo pensatore francese radicale, per non dire rivoluzionario, in totale rottura con i valori della nostra società...
Alain Badiou: Non protesterò contro una descrizione così radicale in sé, davvero. Dopo tutto quando si costruisce una filosofia ed un pensiero di rottura con il sistema del mondo così com’è, si devono accettarne le conseguenze fra cui sono comprese le descrizioni che lei dà...».
Perché Badiou è corteggiato fino a tal punto dai giornalisti detti «di sinistra»? Perché volerne fare a tutti i costi il cantore della radicalità rivoluzionaria, simile a Davide che si oppone a Golia (Golia incarnato, lungo le pagine, sia da Sarkozy che dal capitalismo o dalla democrazia)? Tre fattori sembrano giocare un ruolo determinante in questa vicenda:
- la nostalgia, assai presente nell’ambito giornalistico sopra descritto, per la figura dell’«intellettuale impegnato» alla francese, del genere Sartre o Foucault, favorisce questa idolatria in favore di Badiou poiché, per l’appunto, egli si atteggia ad erede di quella corrente, come abbiamo già notato;
- lo stato deplorevole in cui si trovano sia la sinistra che l’estrema sinistra fa di lui un «radicale» poiché, in mezzo al deserto di idee, chi è abbastanza abile da ripetere a chiunque voglia ascoltarlo di incarnare «la sinistra della sinistra», senza mai definirla in maniera precisa e a costo di contorsioni reazionarie e falsificazioni storiche evidenti, diventa una specie di eroe capace di far andare in frantumi l’attuale «consenso». È significativo che Badiou venga sempre presentato, dai media, come un «ultra-gauchiste» senza che gli venga chiesto in precedenza quale sia il contenuto reale ed effettivo che egli associa questo termine. Che rappresenti la versione più dura della sinistra stalinista non sembra irritare nessuno. Dal momento che si trova dal lato buono e critica Sarkozy, inutile andare a cercare più lontano!
- l’assenza di spirito critico e di autentici dibattiti di qualità nell’ambito delle scienze umane e della stampa detta «intellettuale» favorisce l’emergere di figure come quella di Badiou che sviluppano una visione manichea e semplicistica delle cose.
 
Nelle interviste che concede in maniera regolare alla stampa, Badiou non cessa di tornare su ciò che definisce «l’ipotesi comunista». Ecco come descrive questa nozione in una intervista accordata al giornale “L’Humanité” in data 11 febbraio 2008: «maniera di vivere in comune non fondata sulla separazione». In un’edizione precedente dello stesso giornale (6 novembre 2007), Badiou risponde altrettanto vagamente alla domanda che gli viene posta e che riguarda la maniera in cui questa «ipotesi» potrebbe applicarsi concretamente: «vorrei poter dire di più. Per il momento sostengo che bisogna affermare senza paura che siamo nel mantenimento di questa ipotesi. Bisogna dire che l’ipotesi dell’emancipazione, fondamentalmente, resta l’ipotesi comunista. Questo primo punto può trovare forme di elaborazione. Bisogna comprendere in seguito che si tratta là di una idea in senso forte. Propongo di elaborarla in quanto tale. Il che significa che in una situazione concreta, conflittuale, dobbiamo utilizzarla come criterio per distinguere ciò che è omogeneo con questa ipotesi egualitaria e ciò che non lo è». Per meglio capire cosa ci sta dicendo qui Badiou, bisogna mettere questo passaggio accanto ad un altro: «Si tratta insomma di una Idea, per parlare come Kant, la cui funzione è regolatrice, e non di un programma». Queste dichiarazioni mettono in luce una serie di paradossi che bisogna spiegare. Innanzitutto l’espressione «Idea comunista» in sé è contraddittoria perché, se ci si attiene alla definizione kantiana dell’Idea, questa è assolutamente separata dall’esperienza e dalla realtà vissuta: non è quindi compatibile con la dottrina comunista che si basa sull’ambito politico e sociale. In effetti Kant chiama «Idee trascendentali» o «Idee della Ragione» ciò che «nel nostro pensiero non soltanto non deriva dai sensi, ma supera anche i concetti della comprensione, poiché non si può trovare nulla nell’esperienza che ne fornisca una illustrazione».
Così, la pseudo-teoria di Badiou non regge, poiché il comunismo non può essere al tempo stesso una «Idea» ed una «Ipotesi». Un’ipotesi è infatti una affermazione provvisoria in attesa di conferma o di smentita dai fatti, essa deve quindi in un determinato momento entrare in contatto con la realtà. Badiou utilizza in maniera fraudolenta il vocabolario scientifico e filosofico per dare al suo discorso una «vernice» che non resiste all’analisi. Aggrava ancora il suo caso in questo campo affermando: «È assurdo qualificare i principi comunisti (nel senso che voglio dire) come utopici, come spesso si fa. Sono schemi intellettuali, sempre attualizzati in maniera differente, e che servono a produrre linee di demarcazione fra diverse politiche». Anche qui l’uso del vocabolario kantiano imbroglia le piste e serve solo ad impressionare il lettore. Non si capisce bene in cosa lo schema kantiano avrebbe a che vedere con il comunismo. Inoltre, Badiou si contraddice ancora una volta: prima ci dice che il comunismo è una «maniera di vivere in comune non fondata sulla separazione» per poi spiegarci che i principi comunisti — i famosi «schemi» — «servono a produrre linee di demarcazione». Bisognerebbe scegliere fra queste due idee, a meno che Badiou non sia molto pronto nemmeno sulla definizione stessa della parola «separazione»!
Questo gioco concettuale serve essenzialmente a due cose: anzitutto a mascherare il proprio vuoto teorico (non avendo nessuna idea nuova e concreta da proporre per costruire un qualcosa, è costretto a porre «l’ipotesi comunista» come una sorta di paradigma essenzialmente astratto, un assoluto che non si basa su nulla ma che egli agita come uno stendardo per dare l’impressione di una radicalità estrema), e poi ad evitare di parlare delle esperienze concrete del comunismo (che furono tutte senza eccezione dei fallimenti lamentevoli) se non per allusione, il che comporterebbe di tornare su regimi burocratici totalitari, cosa che ripugna a Badiou.
In Sarkozy: di che cosa è il nome? dedica un passaggio intero all’evoluzione dell’ipotesi comunista, sotto forma di ciò che chiama «sequenze» che si succederebbero sempre secondo lo stesso schema come viene spiegato in Metapolitica: «Sylvain Lazarus ha stabilito che tra Marx e Lenin non c’è continuità e sviluppo ma rottura e fondazione. C’è rottura anche tra Stalin e Lenin, poi tra Mao e Stalin» (Metapolitica, p. 73). Badiou arriva quindi a negare l’esistenza di una ideologia marxista («il marxismo non esiste») in nome dello spiegamento del paradigma ideale dell’«ipotesi comunista» che si incarnerebbe in diversi «eroi rivoluzionari» nel corso degli anni. A partire da questa affermazione si sarebbe in diritto di attendersi da parte di un primo arrivato al corso di ammissione il dispiegamento rigoroso di una prospettiva storica che spieghi le origini del comunismo e che ci permetta almeno di percepirne le articolazioni logiche; ma sarebbe conoscere male Badiou, sempre pronto a privilegiare le allusioni alle affermazioni fondate su fatti precisi. L’analisi presente in Sarkozy: di che cosa è il nome? non ha del resto nulla da invidiare ad una cattiva copia da computer quando si vedono le banalità e le approssimazioni che vi si trovano mescolate.
 
L’argomentazione inconsistente di Badiou è uno dei tratti del suo «stile». Egli considera infatti la storia come una specie di «riserva» di fatti in cui pesca gli elementi utili alla sua dimostrazione, quando ciò sostiene la sua tesi, senza mai curarsi della continuità storica né dell’esattezza delle sue affermazioni. D’altronde si tratta di un «metodo» che egli riconosce in pieno e che rivendica in quanto tale.
Un poco oltre nel libro, facendo finta di precisare cosa intende per «comunismo», Badiou avanza idee altrettanto contestabili: «Ma che cosa vuol dire “comunismo”? Come spiega Marx nei Manoscritti del 1844, il comunismo è un’idea sul destino dell’umanità generica. Occorre assolutamente distinguere questo uso della parola dal senso, oggi completamente trito, dell’aggettivo “comunista” in espressioni come “partiti comunisti”, “mondo comunista”, per non parlare di “Stato comunista”, che è un ossimoro al quale si è prudentemente e logicamente preferito l’oscuro sintagma “Stato socialista” Anche se [...] tali usi della parola fanno parte del divenire storico, a tappe, dell’ipotesi» (Sarkozy, p. 108). Tutto questo sviluppo ripetitivo non mira in realtà che a far ammettere una sola idea al lettore: ovvero che le esperienze concrete del comunismo non invalidano in niente «l’ipotesi», e che bisogna quindi proseguirla. Questa idea ritorna ancora una volta a separare l’ideologia dalla sua applicazione concreta, cosa che ci sembra un atteggiamento insostenibile e che è stato mille volte rifiutato, compreso da Marx stesso. Badiou riesce nell’impresa notevole di fare del marxismo contro Marx poiché trasforma la teoria comunista in un puro idealismo che consiste precisamente nel considerare «che il mondo è dominato dalle idee, che le idee e i concetti sono principi determinanti, che idee determinate costituiscono il mistero del mondo materiale accessibile ai filosofi» (Marx).
Questa concezione idealista del comunismo va di pari passo non solo con il rifiuto di prendere in considerazione il suo passato totalitario, ma anche con una valorizzazione appena velata del bilancio stalinista. In Sarkozy: di che cosa è il nome? procede addirittura ad una riabilitazione in buona e dovuta forma del passato stalinista dell’Urss per mezzo di diversi argomenti:
- afferma innanzitutto che Stalin, malgrado tutti i suoi crimini, sarebbe stato un baluardo efficace per frenare l’avanzata del capitalismo: «Va detto, infatti, che all’epoca di Stalin le organizzazioni politiche operaie e popolari erano infinitamente più forti, e il capitalismo meno arrogante. Non c’è neanche da fare il paragone» (Sarkozy, p 29). Questa falsa opposizione fra «capitalismo» e «sistema sovietico» — che ha alimentato tutto il periodo della «guerra fredda» da parte della propaganda comunista — viene ripetuta a sazietà nella stampa da Badiou: «Facendo paura al capitalismo [gli Stati socialisti] permettevano alle organizzazioni operaie dei paesi occidentali di ottenere importanti concessioni. Sarà il mio solo riconoscimento a Stalin: faceva paura al capitalismo» (“Libération”, 27/1/2009). È evidente che i rapporti fra sistema sovietico e sistema capitalista non erano così semplici; dietro l’opposizione spettacolare fra questi due campi fittizi si era installata una specie di connivenza. Come nota Karl Korsch, in Russia fin dall’inizio il marxismo non fu che uno «schermo ideologico» che di comunista aveva solo il nome.
- Badiou cerca poi di minimizzare il «bilancio stalinista» paragonandolo alla nostra situazione attuale: «Il mio amico Slavoj Zizek, filosofo sloveno, ha detto da qualche parte che quel che non abbiamo capito, quando abbiamo messo in scena la contrapposizione tra stalinismo e democrazia parlamentare, è che lo stalinismo è il destino della democrazia parlamentare. Ci stiamo arrivando, lentamente, tortuosamente. [...] Dopotutto, i mezzi tecnici per il controllo delle popolazioni sono ormai tali che Stalin, con i suoi infiniti schedari compilati a mano, le sue fucilazioni di massa, le sue spie in uniforme, i suoi giganteschi campi pidocchiosi e le torture bestiali, fa la figura di un dilettante di un’altra epoca» (Sarkozy, p. 31-32).
- Infine se Badiou mette in atto di tutto per evitare di considerare il passato «totalitario» dell’Urss, è in funzione di un obiettivo preciso: si tratta a qualsiasi costo di separare la teoria dalla sua realtà pratica per preservarne il carattere ideale (questa illusione ha almeno due nomi: «l’ipotesi comunista» e il «comunismo dell’Idea»). Badiou non vuole correre il rischio di usare la nozione di «totalitarismo» e preferisce allineare gli «antitotalitari» nei ranghi degli ideologhi liberali per non doverli affrontare. È sintomatico che Badiou indichi di solito con il vocabolo «antitotalitari» quei buffoni dei «nuovi filosofi», invece di prendersela con gli innumerevoli teorici e romanzieri che hanno messo in luce i difetti del comunismo come George Orwell, Arthur Koestler, Hannah Arendt, Simone Weil, i rappresentanti del «marxismo critico», e questo in nome di una critica del totalitarismo che non può essere ridotta ad una cieca adesione ai dogmi del liberalismo.
 
Nella sua conferenza su «La Révolution culturelle: la dernière révolution?», Badiou fornisce tre ragioni per vederci un modello per l’azione politica nel mondo attuale:
- prima di tutto, la Rivoluzione culturale ha fondato l’esistenza della corrente maoista, «sola autentica creazione degli anni 60 e 70», ed il Libretto Rosso di Mao, che ne è la piattaforma teorica, è stato la «guida» di questa corrente, «niente affatto, come dicono gli imbecilli, a fini di catechizzazione dogmatica, ma al contrario per illuminarci ed inventare vie nuove in ogni genere di situazioni disparate»;
- poi, la Rivoluzione culturale sarebbe «l’esempio tipo di una esperienza politica che satura la forma del partito-Stato», e in ciò avrebbe molto da insegnarci sulla realizzazione di una «nuova sequenza» dell’«Ipotesi comunista»;
- infine, la Rivoluzione culturale è «una grande lezione sulla storia e la politica, sulla storia pensata a partire dalla politica». Questa medesima idea viene ripetuta in maniera più incisiva nella sua “Lettera a Slavoj Zizek”: «Bisogna rendere giustizia a ciò che il terribile fallimento della Rivoluzione culturale contiene di universalità» (in Mao: de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, 2008).
Riprendiamo di seguito questi tre punti in modo di mettere in evidenza le contraddizioni e altre aberrazioni ad essi collegati:
- il maoismo è lungi dall’essere stata la corrente politica dominante degli anni 60 e 70, e ancor meno la loro «sola autentica creazione». Inoltre i rapporti fra il «maoismo francese» e la rivoluzione culturale cinese rivelavano assai più «una visione largamente immaginaria della Cina» che una analisi seria della situazione reale della Cina dell’epoca. Quanto al Libretto Rosso metamorfizzato in una «guida» di saggezza millenaria e di strategia pratica degna dei grandi classici del pensiero cinese, si tratta ancora di una nuova falsificazione. Bastano alcuni aforismi per rendersene conto: «Grande non è sinonimo di temibile. Il grande sarà rovesciato dal piccolo, ed il piccolo diventerà grande». Davanti alla profondità di pensiero che esprime, non è affatto sorprendente che sia stato il libro di «cucina» intellettuale preferito di Badiou!
- usurpazione di massima portata questa volta, Badiou vuole farci credere che la Rivoluzione culturale sarebbe stata una maniera di far esplodere dall’interno il partito-Stato, allorché non è stata che un processo di rafforzamento del potere statale tramite il personaggio di Mao e attraverso l’eliminazione di tutti i suoi rivali! Quello che Badiou cerca di fare in realtà è di dimostrare che la Rivoluzione culturale è stata un fallimento, non in ragione della personalità di Mao, ma in qualche misura nonostante essa. Ecco cosa risponde a Nicolas Truong a questo proposito: «Mao ha constatato [...] che il partito accaparrava lo Stato e organizzava la perpetuazione del suo potere», ed ha voluto rimettere in causa questo stato di fatto per «rettificare il corso del socialismo di Stato» (“Philosophie magazine”, 29/5/2008). Deridendo la verità storica, queste affermazioni lasciano capire chiaramente che Mao si sarebbe battuto contro le istanze del Partito in nome della preoccupazione di «de-burocratizzazione», di eguaglianza e di equità! Ora, Mao ha cercato di destabilizzare il potere burocratico non per rendere un servizio al popolo o per ristabilire «l’Idea» egualitaria comunista, ma per riprenderne la testa, essendo stato per un periodo scartato dal potere (dal 1958 al 1965, circa);
- la Rivoluzione culturale può essere considerata una «grande lezione sulla storia e la politica» solo se si scordano i massacri perpetrati in suo nome e la natura stessa del regime di Mao. Ed è proprio quello che tenta di fare Badiou che ha l’audacia di sottendere che, infine, non siamo andati fino in fondo a questa esperienza: «Ricordiamo a questo proposito che il fallimento sanguinoso di una impresa non è il suo giudizio finale. Anche qui [si rivolge a Zizek], sostieni troppo facilmente il fallimento della Rivoluzione culturale per cancellarne l’importanza e l’attualità (ricordiamo qui che Mao sosteneva che occorrevano ancora dieci o venti rivoluzioni culturali per spingere la società verso il comunismo)» (in Mao: de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, 2008). Dinanzi a simili enormità, conviene ristabilire i fatti: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto di individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa (in seguito, favorita dal caos generato da questa lotta, una corrente di massa, autenticamente rivoluzionaria, si sviluppò spontaneamente alla base, traducendosi in insubordinazioni militari e in vasti scioperi operai: quest’ultimi, che non rientravano nei programmi previsti, vennero schiacciati senza pietà)» (Simon Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, Edizioni Antistato, Milano 1977, p. 18). Badiou vuole ad ogni costo ridare lustro ad un maosimo da molto tempo screditato, e che ritorna in auge grazie alla moda retrò degli anni settanta.
Così, lungi dall’aver imparato gli insegnamenti della storia, da buon althusseriano egli dichiara che «la filosofia autorizza una percezione non storicista della politica». E continua a cantare le virtù del Mao-pensiero spingendo l’indecenza, con la complicità del suo editore ed «amico» Éric Hazan, fino a farne una «vittima» del nostro tempo: «Mao, di cui va di moda parlare più male possibile, resta una grande figura marxista rivoluzionaria». Bisognava pensarci, Badiou e i suoi amici lo hanno fatto: la presentazione negativa della Rivoluzione culturale non è che una tigre di carta fabbricata dal mondo occidentale e mediatico per disinnescare la carica sovversiva del maoismo e trascinare nel fango la figura della guida Suprema della Rivoluzione!
 
Conclusione
L’«opera» di Badiou non è che una illustrazione supplementare di questa «confusione mentale» che ha libero corso nel post-modernismo filosofico: «La confusione filosofica ha questo di diabolico, che attira. La retorica filosofica ha molti mezzi per riuscire. Uno dei principali è di dare la sensazione di appartenere ad un piccolo gruppo di persone illuminate che combattono coraggiosamente le superstizioni delle masse. In mezzo alla peggior confusione, questa sensazione è spesso decuplicata. La confusione intellettuale è generalmente arrogante. La volontà di sorprendere, di essere originali, brillanti, ossia di scioccare, gioca un ruolo determinante in filosofia. Ma talvolta è anche il desiderio di scivolare nel pensiero ambientale, pur presentandosi come sovversivo, che incoraggia ad adottare certe tesi. [...] Il piacere ricavato nel deridere coloro che non sono riusciti a innalzarsi ad un livello di pensiero ritenuto superiore non avviene senza incoraggiare atteggiamenti nei quali il desiderio di verità gioca solo un ruolo minore» (Roger Pouivet). Per finire, è allettante rivoltare una icona badiouliana contro Badiou stesso: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia» (San Paolo, Lettera ai Colossesi, 2,8).
 
 
[tratto da L’autre côté, n. 1 - La French Theory et ses avatars, settembre 2009.
La versione originale del testo, nella sua versione integrale accompagnata da numerose note esplicative, può essere letta qui]