Miraggi

I manichini di cera

Jules Supervielle
 
Forse il modo migliore per presentare Jules Supervielle (1884-1960), autore singolare quanto sconosciuto, lontano dalle mode letterarie del suo tempo, talmente curioso dei misteri dell'universo da prestare attenzione agli esseri del mondo esteriore quanto ai fantasmi di quello interiore, è ricordare le parole che gli dedicò un poeta suo contemporaneo: «Supervielle è il ricercatore e il cantore dei veri avvenimenti; egli ci invita a non dimenticare noi stessi vicino a noi, a scoprire il nostro destino altrove che nei lutti, nelle gioie o nei drammi. Ci ferma su alcuni attimi della nostra vita, apparentemente inconsistenti: sono gli unici che abbiano determinato non la nostra felicità o disgrazia, ma ciò che solo conta, l'atteggiamento che assumiamo di fronte alla felicità o alla disgrazia. L’esperienza che possiede ciascuno di noi, anche il più dotato, è infinitesimale. Supervielle ci riduce alla levità per essere davvero noi stessi, dotati dei nostri istanti d’essere, muniti della nostra infanzia permanente davanti a tutti i falsi avvenimenti della vita».
 
 
Il direttore del teatro era un uomo amabilissimo. Se alla presenza dell'autore strappava un pezzetto del manoscritto formandone una pallottola, lo faceva sempre con tale garbo che si poteva considerare quel gesto come un'attenzione più che altro, una maniera un po' insolita di occuparsi della commedia, ecco tutto! E mentre appallottolava la carta, continuava a considerare l'autore con uno sguardo carico di virile tenerezza. Non ci si poteva sbagliare: quello sguardo sembrava dire «debbo proprio volervi molto bene, eh, per poter strappare così questo foglio, alla vostra presenza, senza che vi passi per il capo di prendervela, dobbiamo proprio aver molta fiducia nell'amicizia che ci lega!». Il giorno della ripetizione generale l'autore ebbe un istante di sofferenza, vedendo tutta quella gente raccolta per ascoltare quel ch'egli aveva scritto nel silenzio della sua stanza da lavoro. «Che necessità c'era di portare quella fantasia sulla scena, invece di lasciarla tranquilla nell'intimità del suo cervello o nella discreta custodia d'un libro! E quella gente che guardava fisso il sipario abbassato come se si fosse trattato della fronte stessa dell'autore e le fosse stato promesso di scoprire ciò che avveniva dietro quella fronte!».
Ciononostante, le facce dei suoi amici più fidati lo riconfortarono molto. Vederli tutti là, sotto uno stesso tetto, l'amico ricco di spirito, quello che preferiva le cose profonde, l'amico d'infanzia, l'amico del servizio militare, gli amici dell'età matura! Sembrava anzi all'autore (era un po' febbricitante quella sera) che ognuno di essi aveva voluto far qualcosa per dimostrare che anche per lui quello era un giorno importante. Uno sembrava un po' più alto di quel che fosse di solito, un altro più largo di spalle, un altro davvero più grosso, un altro infine insolitamente magro. Quel biondo, poi, zoppicava per la prima volta nella sua vita! Erano senza dubbio del parere che non bastava indossare uno smoking; bisognava anche pagare di persona. E sembravano dirsi tra di loro (stavano quasi tutti in gruppo): «Che adesso la commedia vada o non vada, non dipende da noi. Per parte nostra abbiamo fatto tutto quel che potevamo fare».
Importante era la riuscita per l'autore. Non aveva proclamato in venti giornali che una commedia in versi come la sua poteva interessare egualmente il gran pubblico ed i letterati?
Alla fine del primo atto l'autore, dal suo posto di proscenio, notò che certi spettatori, i quali s'erano sempre dichiarati amici suoi, applaudivano a piene mani ma senza fare il minimo rumore. Fu costretto a riconoscere quel che sino allora s'era rifiutato di credere: vendevano al guardaroba, i giorni di ripetizione generale e le prime, certi guanti fatti d'un caucciù speciale, perfettamente simili, in apparenza, a guanti di pelle; gli amici cattivi se li procuravano per applaudire vigorosamente in un silenzio spaventoso che demoralizzava gli autori e ghiacciava la critica. Bastava dire alla donna del guardaroba: «Datemene un paio», e quei guanti vi scivolavano in mano, già bell'e involtati in carta di seta. Taluni li portavano sfrontatamente e rivolgevano la parola all'autore agitandoglieli sotto il naso, spandendo un forte odore di caucciù.
Altri, forse per distrazione, ne lasciavano uscire due dita dalla tasca dell'abito, mentre affermavano che la commedia era perfettamente di loro gusto. Ma non questi soli attestati d'ipocrisia colpirono l'autore, sempre più febbricitante; mentre un tale lo complimentava, nel proscenio, e spiegava perché la commedia gli piaceva, divenne, incredibile, a poco a poco perfettamente metà rosso e metà bianco, in senso longitudinale, mentre la linea di demarcazione passava esattamente per lo spiovente del naso. «Che devo pensare della sincerità di quest'uomo dalle cui labbra, mezze rosse e mezze bianche, escono tanti elogi?» diceva a se stesso il drammaturgo, considerando il suo interlocutore con occhio pieno di sospetto, mentre quello continuava a parlare della commedia in termini che solo un cieco avrebbe potuto prendere per lusinghieri.
Uno dei confratelli dell'autore, noto per la sua grande rettitudine, stava uscendo dalla sala. «Certo che mi ha cercato per dirmi che cosa ne pensa, oppure c'è un po' di timidezza da parte sua, pensò l'autore, forse ritiene che questo non è il momento, e preferisce scrivermi». E gli batté leggermente sulla spalla nell'istante stesso in cui l'altro, che credeva di essere riuscito ad evitarlo, stava per varcare la soglia del teatro. «Beh, che ne pensate?» chiese l'autore con abbandono un po' doloroso. E l'altro si affrettò a rispondere: «Sapete che mi piace di regola quel che scrivete, ma vi confesso che la vostra commedia mi sembra, come dire, meno importante di tutte le altre opere vostre». Ma la confessione costava tanto al suo cuore buono che egli cominciò a rimpicciolirsi davanti all'autore, che faceva di tutto per rassicurarlo affermando che lui per primo riconosceva i difetti del suo lavoro e non aveva intenzione di scrivere più per il teatro. Sventuratamente tali assicurazioni arrivavano ad un essere sempre più piccolo; il buon critico tendeva oramai precipitosamente a diventare minuscolo, mentre continuava a protestare la sua ammirazione per le altre opere dell'autore, e faceva con delle maniere d'infante il gesto di chi annega alla superficie di un'acqua invisibile. A tal punto che ad un tratto disparve alla vista dell'autore, e questo sarebbe rimasto costernato dell'involontario omicidio, se non avesse visto immediatamente riapparire il suo interlocutore in un altro gruppo, con la sua alta statura e con sul suo volto d'uomo ostinato ma cordiale quella lieve espressione, che gli era abituale, «Agir bene e lasciar dire».
Tornato a casa l'autore dovette convenire tra sé e sé che non aveva visto quasi niente della rappresentazione poiché non aveva potuto impedirsi di osservare assai a lungo, dal fondo del suo posto di proscenio, le teste degli spettatori che sarebbero andati a diffondere in città le loro penose impressioni come bolle puzzolenti.
Prima, seconda, terza rappresentazione. nel suo ufficio il direttore parla all'autore della necessità di «raccoglier pubblico» e delle difficoltà che s'incontrano per far pieno un teatro. «È un fatto, pensa l'autore, colto alla sprovvista, che enorme quantità di poltrone ci sono in teatro, tutte in fila ed una fila dietro l'altra, e come se non bastasse, ci sono anche tutti i sedili mobili che si nascondono soltanto per meglio attestare che un teatro è fatto per esser pieno!».
Eppure la moglie dell'autore s'era data molto da fare per piazzare biglietti di favore. Piccola, magra, pallida, poteva andare dappertutto senza attirare l'attenzione, e sapeva approfittarne. Riconosceva la sua fatica, al teatro, quando vedeva la sua giornalaia seduta accanto al suo calzolaio, tra la lattaia e la lavandaia (esattamente secondo l'ordine delle rispettive botteghe). Quanto al camiciaio, quello aveva risposto senza esitare, con una fermezza di cui non lo si sarebbe creduto capace: «Signora, preferisco dirvi che non ci verrò!». Il postino delle raccomandate poi aveva esibito anche delle ragioni: «Oh, Signora, durante la settimana io cammino tutto il giorno!». «E la domenica?». «La domenica assisto mia madre».
Siccome c'era davvero troppo poca gente il giorno della quinta rappresentazione, il direttore prese l'autore da parte: «Andiamo, disse, si dovrà far tirare fuori, da stasera, la fanteria di cera!». E l'autore: «Uhm, sì...» come se facesse delle riserve sull'utilità di tale intervento. In realtà non sapeva affatto di che si trattasse; ed il direttore dovette spiegargli che da qualche tempo, in diversi teatri, quando i posti venduti erano troppo pochi, si tiravano fuori dalle cantine degli spettatori di riserva. Questi signori erano imitati alla perfezione e dotati d'una sagoma umana talmente irreprensibile, che non si contentavano di essere biondi o bruni, grassi o magri. Quello, per esempio, si sarebbe detto che fosse molto meno sciocco di quanto volesse sembrare, quell'altro, nonostante la sua aria di buon figliolo, sembrava capacissimo di frequentare donne di nascosto, quell'altro ancora poi si poteva credere che non si sarebbe trovato imbarazzato a firmare assegni in bianco. Tutti però, cugini di provincia, militari, parigini puro sangue, stranieri naturalizzati, gente d'Europa o d'America, tutti avevano soprattutto un'aria di buon pubblico, che segue sempre la commedia col più manifesto interesse: negli occhi di tutti poi, un'espressione quasi di paura, la paura che lo spettacolo finisse presto. Bisognava confessare che negli intervalli quegli sguardi privi di soggetto davano un po' fastidio a tutti. Ma che farci?
Si situavano i manichini un'ora prima che si alzasse il sipario: quelli sapevano aspettare, e certi sapevano anche battere le mani, quando era necessario. Un filo elettrico abilmente collocato li avvertiva del momento in cui occorreva dare la loro approvazione. E se poi qualche volta uno dei manichini, per il meccanismo logoro, continuava ad applaudire senza discernimento, il pubblico si contentava di sorridere come quando un bambino in un ritrovo di persone grandi si mette tutt'a un tratto a suonare la trombetta. S'avvicinava allora al manichino indiscreto un meccanico in uno smoking di cattivo taglio, premeva un bottone segreto e tutto tornava nell'ordine. I manichini che sapevano battere le mani costavano però molto cari e non ce n'erano mai molti nella sala, all'incirca uno su dieci. Si situavano abilmente qua e là, secondo gli interessi dello spettacolo. Certo che quelle presenze fantomatiche non ingannavano nessuno. Ma il pubblico, pretendeva il direttore, preferiva vedere quei fantocci che facevano il pieno, piuttosto che una sala mezza vuota, ed era grato alla direzione di aver fatto quella spesa. Il nostro autore solo non s'abituava a quegli intrusi: gli sembravano uno spaventoso castigo dai cento volti, un supplizio addirittura immeritato. Un giorno che si sentiva particolarmente mal disposto (la sua salute non andava affatto meglio della sua commedia: il cuore andava sempre più soggetto ad intermittenze, via via che nella sala si scavavano dei vuoti): «Ve ne prego, gridò, stasera non fate salire i manichini! Non ingannano nessuno, credetemi!».
«Molto gentile, disse ironicamente il direttore, ma ciononostante io non imporrò alla mia compagnia di recitare davanti a delle poltrone vuote. I manichini ci sono per servirsene, e dal momento che si usa, non vedo perché dovrei privarmi del loro aiuto. Lasciatemi fare; se la vostra commedia si può salvare, si salverà! Io almeno avrò fatto quel che era in mio potere».
E fu giocoforza che l'autore accettasse ancora una volta di vedere ogni sera dal fondo del suo palco di proscenio tutti quei bravi borghesi di cera, seduti in perfetto ordine ai loro posti. Gli spettatori divenivano sempre più radi, i manichini sembravano ogni giorno più numerosi; l'autore finiva persino per sentire uno spaventoso sapore di cera in bocca e persino nei suoi pensieri, che si appiccicavano gli uni agli altri in penosa confusione.
Tanto che una sera decise di non assistere più alle rappresentazioni. Chiese della frutta di stagione, (oh, sì, la natura continuava a dare frutti semplici e succosi, non erano, no, frutti di teatro!) e si rinchiuse nella sua camera. Potersi mangiare un arancio da solo, tra quattro pareti, dopo aver chiuso a chiavistello la porta, senza il minimo spettatore vivo o non vivo, sputare i semi ad uno ad uno nel mezzo del piatto senza che vi fosse materia per applaudire, inghiottire il succo senza doverne far parte ai palchi, alle balconate, alle maschere...!
L'indomani il nostro autore non ne vuol sapere di alzarsi. Non vuole nemmeno che si trattenga presso di lui sua moglie; che, lo vede bene, entra nella camera con occhi di spettatrice troppo interessata. Egli spranga la sua porta per ventiquattr'ore perché il suo isolamento gli sembra sempre più compromesso e sorvegliato. Il polso però gli resta calmo; aver la febbre è in certo modo manifestarsi, esteriorizzarsi, essere un po' teatrale...
I giorni seguenti egli non vuole neppure toccare i cibi che gli vengono offerti, neppure il semplice bicchiere d'acqua che gli tende sua moglie, spinta da tre medici in consulto nascosti dietro una tenda. Egli non vuole saperne di prender parte a quella specie di complotto del mondo esteriore contro il suo proprio mondo che va diventando sempre più interiore e silenzioso.
Più lo si vede dormire, mangiare, orinare, e più aumenta in lui quell'irresistibile bisogno di cancellarsi, come con una gomma, di tappare il suo io più che può sotto coperte e piumini, di seppellirlo dietro un diaframma profondissimo che egli comincia a raspare colle unghie stesse della morte.
Un giorno il medico curante lo vide senza conoscenza ma con una ruga sulla fronte a dimostrare che ancora tutto non era finito. Ad alcuni intimi disse il dottore con la voce netta d'un ufficiale superiore che giudica una manovra militare: «Il cuore s'è arrestato alle nove e tre quarti, su questo non v'è dubbio alcuno. Io stesso ho constatato il decesso e sono pronto ad affermare, dinanzi a chiunque, che il nostro povero amico non è più tra noi, benché la sua fronte sia ancora calda ed il cervello ancora funzioni, forse per qualche istante. Ciò avviene in alcuni casi, estremamente rari, ne ho fatto io stesso la constatazione presso alcuni artisti eccezionali, in uomini dotati di straordinaria scrupolosità, che continuano a pensare anche quando il cuore ha cessato di battere». Il dottore mentiva; non aveva mai visto nulla di simile, ma non era uomo da lasciarsi sorprendere. Continuò: «Si tratta di fenomeni, o piuttosto di epifenomeni, che non dureranno. La mia parte qui, purtroppo, è finita. Il nostro caro drammaturgo è morto e ben morto; possiamo piangerlo senza timore!». (Queste ultime parole restarono nell'aria da sole, staccate dal resto del discorso. Il pensiero del dottore, che era più emozionato di quanto non apparisse, era rimasto a mezza strada dalla sua vera espressione: diceva ad un tempo più o meno di quel ch'egli stesso avrebbe desiderato).
Intanto nel mezzo della fronte dell'autore quella ruga si riformava sempre appena una mano amica la spianava. Ed era straordinariamente penoso vederlo soffrire così, mentre secondo l'opinione di tutti i vivi, e, si potrebbe dire, anche di tutti i morti, quell'uomo aveva ora diritto al riposo che ottengono, una volta espiato il loro delitto, anche i più grandi criminali.
Nel mezzo della notte, sua moglie, trattenendo il suo alito di donna viva, si accostò alla fronte del marito e lo chiamò più volte a bassa voce.
«Mi sente forse?» pensava. «È ancora in mezzo a noi, oppure è già contro di noi, già è insieme a quei veleni terribili, quelle armi oscure che il povero corpo umano sa preparare su tutta la sua lunghezza?», D'un tratto ella sentì che il marito diceva, e la sua voce era cavernosa, d'una cavernosità non umana, come una fossa nella terra fresca: «Niente più manichini in teatro, niente più mai! Non vedete dunque che cosa sembrano?».
In realtà l'autore teneva egli stesso le gambe ripiegate come uno di quei falsi spettatori della platea, ed i suoi occhi guardavano con attenta fissità un punto dritto dinanzi a sé, una scena invisibile.
La moglie fece di tutto per calmarlo: «Dormi in pace, caro, disse, già da tre giorni i manichini non sono usciti dai sotterranei del teatro!». Era la verità; la commedia non si rappresentava più, e l'autore ebbe giusto quel tanto di forza di capirlo prima di morire. La febbre disparve immediatamente dalla sua fronte pacificata e le sue gambe si decisero infine a distendersi senza timore, adagiandosi nel loro funebre riposo.
Nella stanza vicina, dove gli amici attendevano, la moglie dell'autore entrò con un sorriso nervoso; tremante. Senza poter parlare ella si volse subito verso il muro per nascondere le lacrime che le sgorgavano sul viso, mentre gli amici dell'autore, ancora non perfettamente informati, invadevano in punta di piedi la sua camera.
 
[1933]