Autopsia

Il pensiero libertario di Rabelais

Hem Day
 
Non bisogna cercare di scoprire nell'opera di Rabelais ciò che non vi è ed ancor meno non bisogna cercare di far dire a Rabelais quello che non ha mai detto e scritto.
Ciascuno ricordi il prologo di Gargantua:
«Bisogna aprire il libro e pensare attentamente ciò che vi è raccontato. Allora voi conoscerete che la droga che vi è racchiusa ha un valore ben diverso di quello che la scatola prometteva: cioè che la materia che vi è trattata non è così leggera come il titolo pretendeva».
Se per esaltare questo grande uomo, si dovesse piegare il suo pensiero agli imperativi di una dottrina sociale, filosofica od etica – fosse pur essa anarchica – sarebbe meglio rinunciarvi subito, perché si commetterebbe la peggiore aberrazione e l'insulto che si farebbe a Rabelais ricadrebbe immancabilmente sul nostro ideale al quale renderemmo il peggiore dei servizi.
Per questo io cercherò di estrarre da questa sostanziale materia, tutto quello che può arricchire le nostre idee, tutto quello che può risvegliare risonanze amiche e fraterne con il nostro pensiero anarchico, eternamente sveglio ed alla ricerca costante di tutto ciò che può vivificarlo ed abbellirlo.
L'idea fondamentale sulla quale Rabelais cerca di costruire la sua opera, è che la natura è buona e benigna all'uomo.
Rabelais proclamerà sempre che bisogna seguire la natura con fiducia e che bisogna stare in guardia contro quelle severe discipline sempre invocate per giustificare pretenziose sorveglianze, il cui scopo è di correggere la signora perbene.
In questo modo Rabelais riabilita l'uomo, quell'altro mondo, come egli si compiace definirlo nel corso di tutta la sua opera. Dell'uomo, centro di gravità, magnifica scoperta che il Rinascimento esalterà con passione, Rabelais dirà tutto il valore supremo, quel valore che deve essere rispettato a tutti i costi.
Non sorprende, quindi, di trovare in Rabelais l'odio per la guerra «ciò che i Saraceni ed i Barbari una volta chiamavano eroismo noi ora lo chiamiamo brigantaggio e cattiveria». Questo odio lo riporta sui conquistatori la cui mentalità insensata e criminale si esprime in tutto il suo Gargantua.
Così l'uomo ha il suo vero posto e Rabelais gli restituisce la sua libertà intera e gli dice: «Fa quello che tu vorrai».
Tutto questo è essenzialmente rivoluzionario e necessita un nuovo indirizzo nell'educazione.
Rabelais se n'era reso conto perfettamente poiché iniziava un nuovo sistema pedagogico. Che egli sia rimasto incompreso dai suoi contemporanei, egli che tentava di sostituire alla maniera scolastica di moda un'educazione naturale, non c'è affatto da stupirsi.
È ancora Rabelais che enuncerà quel meraviglioso pensiero: «Scienza senza coscienza non è che la rovina dell'anima».
Egli è l'iniziatore di una nuova filosofia e questa filosofia (espressa nel Pantagruel) è la vittoria progressiva dell'uomo sulla natura.
Non cerchiamo tuttavia di scoprire in Gargantua e in Pantagruel di Rabelais un'esposizione di dottrine politiche o sociologiche. Niente di tutto questo e neppure qualche cosa di prossimo. Ma cercando bene vi si scoprirà qualche cosa di meglio, gli elementi di ciò che io chiamerei una politica personale.
La sua opera rimane, quindi, un contributo prezioso per il suo tempo e si presenta indiscutibilmente come un rinnovamento del libero pensiero.
La letteratura scritta su Rabelais è grandiosa. Quella che io ho utilizzato per questo mio lavoro, lo posso dire senza falsa modestia, ed in onore di chi mi ha aiutato a comprendere Rabelais, è la migliore e la più ragionevole, se faccio eccezione di qualche opera secondaria.
Ho provato un immenso piacere di trovare fra tutte le opere da me consultate lo studio di Ginguené De l'autorité de Rabelais dans la revolution présente et dans la constitution civile du Clergé (1879).
Della sua introduzione riproduco qualche brano che ci conferma tutto quello che noi abbiamo intravisto, leggendo, meditando, ripensando ed annotando l'insieme dell'opera di Rabelais.
«Voglio dare a Rabelais solo ciò che gli è dovuto, tirarlo fuori dall'oblio in cui è lasciato, ricordare che aveva disprezzato il culto di certi idoli che noi abbiamo adorato ancora due secoli dopo di lui, e che la sua autorità dev'essere messa tra quella dei saggi che hanno preparato la distruzione delle nostre sciocchezze politiche  e religiose».
Il merito di Ginguené è di aver attirato l'attenzione sul contenuto del pensiero dell'opera di Rabelais e si può affermare che dopo quell'opuscolo, molti cessarono di considerare il libro sotto un aspetto unicamente umoristico d'un raccontatore spiritoso e divertente.
Ho sentito dire che, nel 1853, Eusèbe Salverte pubblicò otto articoli nella Revue Encyclopedique in cui non solo lodò il pregiato scrittore, ma anche il pensatore «il più gaio dei filosofi francesi che si è servito della follia per interpretare la saggezza. Certamente che egli ha avuto il presentimento che senza agire in quel modo, non sarebbe stato ascoltato. Erasmo, prima di lui, aveva seguito lo stesso metodo nell'Elogio della pazzia».
Félix Dubois, nel capitolo “La Dottrina” del suo libro Le peril anarchiste ricorda i precursori dell'anarchia. Senza risalire a Platone, egli si accontenta di raccogliere nel sedicesimo secolo e ricorda che l'anarchismo ha preso da Rabelais la famosa frase: «Fa ciò che vuoi».
E seguita, presentandoci il Nostro come precursore dell'ideale anarchico:
«L'allegro curato di Meudon ha creato nell'abbazia di Telemaco una società ideale, una riunione di uomini ubbidienti agli stessi istinti, che si compiace di ricordare la propria esistenza...
Così, dice Rabelais, nessun vincolo, nessuno di quegli statuti fondamentali delle così dette società organizzate; nessun limite alla libertà individuale; gli anarchici non predicano diversamente».
È questo un modo paradossale di presentare l'anarchia, ma non vale la pena di polemizzare con l'autore di Peril Anarchiste. Anche se la sua opera è ben documentata, certe parti sono ispirate dalla fantasia.
Max Nettlau in Bibliographie de l'Anarchie ricorda che François Rabelais enumera i precetti dell'Abbazia di Telemaco che potrebbero essere ancora quelli di coloro che praticano l'anarchismo.
Piotr Kropotkin in La Scienza Moderna e l'Anarchia dice: «Nello stesso modo in cui il movimento anabattista del sedicesimo secolo, che inaugurò e fece la riforma, aveva un fondo anarchico... così Rabelais nella prima metà dello stesso secolo, Fenelon verso la fine del XVII secolo e, soprattutto l'enciclopedista Diderot, nella seconda metà del XVII, svilupparono le stesse idee, che trovarono qualche applicazione pratica durante la Grande Rivoluzione».
Yves Guyot e Sigismond Lacroix, nella loro Histoire des Proletaires, non mancarono di vedere in Rabelais l'uomo del Rinascimento: «egli ride di un grande riso che passa sulle cose sante, sulle autorità costituite come un soffio di tempesta, e le danneggia talmente che molte rimangono rovinate per sempre».
Consultando il dizionario del XIX secolo del Larousse, ecco che cosa trovo: «In mezzo agli avvenimenti del XVI secolo, nel momento in cui la grande secessione religiosa preparava la guerra civile ed accendeva i roghi, lo spirito di Rabelais fu un diversivo alle lotte dei partiti. Strana e potente epoca! Il movimento prodigioso dell'intelligenza produsse il Rinascimento; la scienza e le arti sbocciarono e fiorirono, la filosofia nacque, il medioevo agonizzava, il nuovo pensiero stava germogliando, i roghi scoppiettavano, il sangue scorreva da tutte le parti, ed in mezzo a questi contrasti ed a questi antagonismi, si sente risuonare l'immenso scoppio di riso di quel Democrate gallico, di quell'Omero buffone la cui opera monumentale non perirà mai, non solo per la sua potente originalità, non solo perché vi si trova origini della nostra lingua, ma perché dietro lo scetticismo, lo scherzo irreligioso e la pazza immaginazione, vi si sente una critica superiore e dei giudizi eccellenti, un vivo amore per l'umanità, la passione della giustizia e il culto della scienza e dell'arte».
È certo che nel corso della storia, diversi Rabelais sono stati ricordati; ciascuno dei suoi ammiratori o detrattori ha intravisto l'uomo o l'opera sotto aspetti molto differenti. È certo che le lodi vanno di pari passo con le diffamazioni ed oggi ancora gli educatori continuano a presentare ai giovani un Rabelais talmente purgato che fa pietà sentire come parlano di un'opera così piena di vita e di filosofia.
Rabelais è dominato non solo da un'ardente passione per la scienza ma anche, ed è ciò che vale di più, per la libertà di pensiero che egli esalterà con una gaiezza che nessuno aveva fatto prima di lui.
Tutto questo sembra pericolosamente rivoluzionario, così si continuerà a deformare gli scritti o a lasciare sussistere leggende grottesche accreditate stupidamente nel corso degli anni, con la complicità dei grandi e con quella dei valletti servili, devoti all'ordine costituito.
La mania di tutti coloro che sono fedeli al passato è sempre stata quella di ridurre e di purgare: persino Anatole France, un giorno facendo una conferenza su Rabelais davanti ad un eletto uditorio di Buenos Aires e di Montevideo, incominciò con un piacevole preambolo che informava i suoi ascoltatori che egli prenderebbe tutte le precauzioni per evitare di offendere il pudore più ombroso e le orecchie più suscettibili.
Così, dunque, Rabelais può ancora scandalizzare ai nostri giorni quel mondo di benpensanti che, purtroppo, è senza cervello e senza giudizio. Avrebbe potuto scegliere un altro soggetto, quel Crainquebille della convenzione e dei pregiudizi, ma l'abilità di Anatole France è così grande che di un'esposizione scabrosa ne fa qualche cosa di presentabile persino a dei catecumeni.
A che cosa serve, la perfezione di stile, la facilità oratoria, se diventano complici indirette di un pensiero che non osa esprimersi in tutta libertà?
Ho molto apprezzato le riflessioni di Paul Souday il quale ricordando il Rabelais d'Anatole France, dice: «La sua filosofia naturalista o naturista, ispirata direttamente all'antichità, chiudeva il medioevo ed inaugurava il pensiero moderno. È un po' comico pretendere che egli non fosse un pensatore... Dispiace che Anatole France, per delle convenienze locali, abbia quasi fatto delle concessioni».
Rabelais ebbe molti detrattori ed io accennerò a qualcuno di quei valletti che presentarono Rabelais come un monaco scettico, buffone e cinico, personaggio poco raccomandabile, fuori programma per certuni, che bisognava mettere in quarantena ed impedire che la gioventù sfogliasse le pagine truculenti della sua opera.
Si ricorderà che Ronsard lo dipinse come un ubriacone ed una specie di Panurge; più vicino a noi un La Bruyére non poté perdonargli di avere seminato lordura nei suoi scritti, ed infine quel triste Brunetière scrisse: «Ha meritato veramente di essere chiamato l'incantatore della canaglia» e continuerà aggiungendo: «getta sulla sua opera delle manate di fango che si scavalcano turandosi il naso».
Si può constatare che in tutti i secoli quando si è trattato di eliminare o distruggere l'espressione del pensiero sovversivo, i procedimenti sono sempre stati gli stessi.
Per questo sono contento di salutare in Rabelais un precursore delle nostre idee anarchiche.
Che cosa importano i brontolii dei letterati, sempre pronti ad urlare con i lupi per diffamare ed insultare coloro che si rifiutano di pestare nello stesso fango?
Ciò che vi è di notevole nel Nostro è il suo rifiuto di arrivare a delle conclusioni dogmatiche. Nei suoi scritti c'è da accontentare tutti i gusti. Dalla sua «fontana fantastica» sgorgano impressioni confortevoli in cui si mescolano la satira mordente e la facezia libera, ma da tutto questo ne esce una morale, una filosofia generosa e forte.
Rabelais sviluppa in un'esposizione meravigliosa sull'educazione, la necessità di armonizzare l'evoluzione del corpo con quella dell'anima.
Egli sostituisce alle astrazioni, dei fatti visibili e tangibili, perché è tanto con la vista quanto con i libri che ci istruiamo.
Tutti questi pensieri sono stati ripresi da tutti i nostri che hanno scritto o messo in pratica dei tentativi d'insegnamento razionale e libertario (1).
La politica di Gargantua è quella dei pensatori del XVI secolo, ancora impregnata di tradizione della Grecia e di Roma. È l'arte di governare i popoli nel significato più esteso che ha la parola arte. Con Rabelais c'è qualche cosa di nuovo che annuncia la Rivoluzione francese. Lo Stato non è tutto. «Di fronte a lui si erge l'individuo, ancora incerto, ma forte della coscienza del suo valore personale e dei suoi diritti».
Ebbene, questa osservazione di Martin-Dupont, è l'origine d'una affermazione che io qualifico libertaria.
E lo stesso Martin-Dupont dirà: «Nei grandi movimenti verso l'individualismo che si fanno a quell'epoca e dei quali il Rinascimento e la Riforma sono le manifestazioni più originali, complementari l'una dell'altra, arte  e coscienza, Rabelais ha un ruolo importante. Nessuno meglio di lui seppe riunire nello stesso grado il genio del Rinascimento e quello dell'antica Gallia, il passato classico ed il passato nazionale. Sotto questo aspetto egli ha un posto tra i precursori della Rivoluzione».
Aprite il suo libro, scorretelo con attenzione e troverete, in ogni passo dei suoi migliori capitoli, il canto della libertà.
Osservatelo quando ruggisce. Gli abusi vi sono denunciati con forza, è un vento che soffia e sradica i pregiudizi più solidi.
Panurge, questo buon Panurge, così umano e così vicino al popolo si drizza e con uno scoppio di riso fantastico vocifera contro le iniquità sociali. Che cosa importa che egli sia non solo superbo e nobile, ma qualche volta osceno, dal momento che egli protesta contro l'ingiustizia delle leggi?
Abel Faure ne L'individu et l'Esprit d'autoritè, opera meravigliosa in cui parla dell'educazione francese in rapporto all'individualismo e allo spirito d'autorità, mostra sotto quella doppia evoluzione questi due principi che si oppongono continuamente nella storia, fa rilevare da questo combattimento omerico quel principio vitale che chiama in vita le forze latenti, l'individualismo da cui sgorga la linfa che feconda l'attività umana, contro l'altro principio malefico che impone all'individuo le sue leggi, ed arresta tutto, canalizzando e mettendo dighe all'uomo vivo, ostacolando la libera espansione della natura per fabbricare l'uomo-automa che si piega sotto l'arbitrio del giogo.
Ricordando il XVI secolo, Abel Faure scrive: «Questo secolo fu grandissimo, il più grande della nostra storia, per il coraggio e la ostinata energia che mostrarono i grandi individualisti, più fecondo in risultati felici del XVIII secolo che noi mostreremo infestato da certi elementi corrotti della filosofia sensualista. Questo secolo vide Rabelais, Montaigne, Ramus, la Riforma. Questi nomi sintetizzano, caratterizzano tutti gli individualismi: filosofico, umanistico, teologico: libertà di religione, libertà di pensiero, libertà estetica. Individualismo che tenta di liberare gli uomini, ciascuno alla propria maniera, con l'educazione... ciò che li distingue è la loro volontà di essere degli educatori. Non lo sono più istintivamente come prima ma essi pongono chiaramente e decisamente il problema dell'educazione. Noi vedremo questi diversi elementi di libertà alle prese con il principio d'autorità del secolo».
Certo, Rabelais è sensuale e violento, ma ha lo spirito aperto al culto del bello e del bene, mescolato alla franca gioia puramente animale. Rabelais si fa amare per quello che egli ha di sensibile e di intellettuale. La nostra struttura mentale è capace di comprendere i colpi che il Nostro, nascosto e protetto dalla buffoneria e dall'enormità, assesterà ai pedanti ed ai teologi.
È il trionfo del libero esame. Lo scetticismo ha conquistato certi cervelli. Rabelais è veramente un uomo, se non con la ragione, almeno di temperamento.
«Il libro di Rabelais è dunque venuto a tempo; nato dalle circostanze, prodotto dall'ambiente. Cinquant'anni dopo, gli uomini sarebbero stati troppo spirituali; cinquant'anni prima troppo volgari e materialisti».
Rabelais ha impresso alla sua opera un sentimento che caratterizza tutti i suoi scritti: la solidarietà umana. Può darsi che certuni, leggendolo, non vi trovino affatto quel genere di solidarietà che si manifestò più tardi nella filosofia contemporanea che la forza dell'assioma ha falsamente sviluppata.
Rabelais è più semplice e la sua solidarietà non s'allontana dalle frontiere del buon senso e del buon umore.
Se egli denuncia con veemenza la ambizione dei signori e dei principi che per un sì o per un no dichiarano la guerra ai loro vicini, egli ammira con non meno forza lo spirito di coloro che si sforzano di conservare la pace tra gli uomini di buona volontà.
«Immaginare ferite e colpi è una cosa troppo semplicista e troppo grave perché non ci si sforzi di portarvi rimedio. Chi si sforza per evitare che altri soffra o si rovini, agisce con un sentimento di solidarietà che lo onora».
In Rabelais non c'è spirito litigioso. Brontola con la sua verve sarcastica contro coloro che si compiacciono di processi lunghi e rovinosi. Sono degli egoisti, degli esseri malefici che bisogna denunciare con forza, se vogliono sperare che trionfi quella dolcezza dell'anima che Rabelais oppone con grandezza. Questa bontà attiva non ha niente dell'abdicazione: al contrario essa si confonde nello spirito con quella solidarietà benefica che apre il cammino alla vittoria del buon senso e della ragione.
È Panurge che canterà le lodi della solidarietà umana e pronuncerà la più bella difesa in favore dell'aiuto reciproco.
Certi autori hanno tentato l'accostamento di Rabelais con il nostro Proudhon: in certi punti il riavvicinamento è spontaneo e sensato:
«Per quanto imperfetta sia questa analisi, ci accorgiamo facilmente che Rabelais aveva sulle cose in generale e sull'uomo in particolare – l'uomo considerato in se stesso o in società – idee sagge, adeguate e pratiche più di quelle correnti tra di noi e anche tra gli stessi governatori. Non è lui che si sarebbe sognato di fare dell'individuo e della società due entità indipendenti, contrastanti l'una all'altra; che avrebbe commesso l'errore di imprigionare lo spirito umano nel dilemma individualismo o socialismo, contro cui ogni giorno si scontrano i nostri uomini politici... Quanto umana e vera la dottrina di Rabelais, la cui formula è stata trovata ai nostri tempi da Pierre Leroux: l'individuo completo in una società completa».
Dallo studio sullo spirito libertario del XVI secolo, pubblicato dal mio amico Gérard de Lacaze-Duthiers, prendo questa corta citazione su Rabelais, che egli classifica tra «gli stimolatori del pensiero, tra i creatori e i realizzatori del bello», di quello stupendo XVI secolo in cui troviamo Erasmo, Jean Bodin, Michel de Montaigne, Étienne de la Boétie.
«Rabelais è uno spirito libertario, nemico dello spirito autoritario, nel pensiero e nell'azione. Rabelais è un libertario, un predecessore di Stirner e Thoreau. Egli afferma che l'individuo ha il diritto di essere se stesso, poiché, come lo proclamavano i greci, è la misura di ogni cosa e non conosce altre costrizioni che quelle che egli esercita su se stesso, altra autorità ed altre leggi che le sue; onesto, egli si astiene dall'agire in bruttezza e evolve sempre più verso l'armonia universale. Egli proclama il diritto per ciascuno di noi di vivere a suo modo, senza statuti, senza regolamenti, senza gendarmi, secondo la propria fantasia ed il proprio capriccio».
Così, dopo Nettlau, Kropotkin, Eliseo Reclus, G. Lacaze-Duthiers afferma con pertinenza l'individualismo umanista e libertario di Rabelais. Rabelais ha osato, ed è quello che è più notevole in lui, ergersi contro i grandi, contro la Chiesa così potente a quell'epoca.
Egli dava prova di un forte coraggio. Bisogna ricordarsi che all'epoca in cui Rabelais si esprimeva, l'inquisizione prendeva radice e drizzava i roghi contro coloro che si permettevano qualche libertà di espressione. Bisogna ricordarsi che Étienne Dolet fu impiccato e bruciato sulla piazza Maubert nel 1546, che Louis Berque lo fu nel 1530 e che Jean Catarce, reggente dell'università di Tolosa, subì la stessa fine nella sua città nel 1532.
«Se Rabelais non fosse stato un pensatore, se fosse stato solo un narratore di facezie dove sarebbe la sua grandezza?» conclude Paul Souday, dando un resoconto di qualche opera pubblicata su Rabelais.
Condivido pienamente questo giudizio sull'opera di questo grande uomo, il più grande del secolo sedicesimo. Con Rabelais il principio di autorità è fortemente scosso, il principio di libertà è prodigiosamente esaltato.
Una dannata energia ed un coraggio straordinario lo caratterizzavano. Ed il Nostro se ne è servito contro la scolastica che tentava di impadronirsi dell'individuo attraverso l'educazione. È la lotta che doveva portare al trionfo dell'azione e della natura contro la reazione del tempo.
Il conflitto tra la libertà e i principi d'autorità del secolo era profondo, e merito di Rabelais è di esser stato all'avanguardia in quella lotta per il trionfo del buon senso e della verità, senza cui gli uomini non possono sperare di diventare liberi e felici.
Quattro secoli di scosse sociali aiutano più di tutte le parole a commentare l'opera di Rabelais.
Ma Rabelais ha strappato l'uomo del suo tempo alle tenebre ed ha incitato i giovani a nutrirsi di piatti sostanziosi:
«a sufficienza hai mangiato erba e fieno,
lascia le vecchie cose e va!».
 
 
(1) Basti pensare a F. Ferrer e alla sua Scuola Moderna, a Sébastien Faure e alla sua Ruche, a Paul Robin, Frainet e a tanti altri.
 
 
[Volontà, anno VII, n. 5 del 15 luglio 1953]