Contropelo

Lo Stato e l'orrore

Philippe Godard / Jean-Louis Becker
 
«C’è un cammino verso la libertà; le sue pietre miliari si chiamano: obbedienza, assiduità, onestà, ordine, pulizia, sobrietà, franchezza, senso del sacrificio e amore per la patria».
Questo è l’asse dell’ordine SS nei campi di lavoro e di sterminio, enunciato senza dubbio dallo stesso Himmler. Al di là del cinismo dei carnefici SS che trapela da queste parole, c’è lo smarrimento provocato dall’enunciazione di questi “valori” che guidano sul “cammino della libertà”, che sono poi quelli di ogni Stato, compreso quello democratico. Allora, abbasso tutti i valori.
 
L'autorità dello Stato poggia fra le altre cose su un modo di produzione gerarchico e complesso, oltre che su un apparato di alienazione e di dominio multiforme, uno dei cui aspetti è l’utilizzo dell’orrore. L’esistenza dello Stato riposa sull’accettazione, potenziale in tempo di pace, attiva in tempo di crisi, dell’orrore. Il controesempio nazista non funziona come solitamente si crede in quanto il totalitarismo non rappresenta una contraddizione; l’attuale crisi mostra al contrario che esso è, per la maggioranza degli uomini e donne del Nord senza dubbio, uno sbocco normale, positivo, ovvero felice.
 
Dal III Reich alla messa in ordine del mondo
La contrapposizione nazista non è più sufficiente per servire da antimodello alla democrazia. Questa si avviluppa ormai in quelli che sono stati denunciati come orrori tipici del nazismo: dalla segregazione fisica nei quartieri d’isolamento delle periferie ai genocidi del Ruanda o della Bosnia, non si vede più bene la differenza, sul piano dell’orrore, tra il Grande Reich e il Nuovo Ordine Mondiale.
Alcuni spiriti assai malintenzionati, i revisionisti, hanno speso parecchia energia per censire alcune delle cause immediate che, senza dubbio, hanno comportato una perdita di credibilità del discorso democratico su Hitler, «il demone fatto uomo». Ma costoro hanno agito come una lobby, allo stesso titolo di quella ebraica, di quella omosessuale, di quella dei fedeli di Mosca e della maggior parte di vittime del capitalismo nazista. Tutte queste lobby, compresa quella revisionista naturalmente, hanno cancellato (poiché non si può credere che li abbiano dimenticati) almeno due fatti fondamentali per comprendere il funzionamento di ogni Stato attraverso quello del III Reich e dei suoi campi di concentramento.
 
Leggere Mein Kampf
La prima menzogna riguarda Mein Kampf, di cui tutti parlano senza averlo letto, a cominciare dalle anime belle antifasciste. Si dice che è inutile leggere questa opera giacché, in ogni caso, non si sapeva bene cosa stava succedendo in Germania a partire dal 1933, e che persino i tedeschi non avevano idea di cosa fossero in realtà i nazisti. Questo genere di argomentazione è estremamente pericoloso in quanto porta a negare ogni responsabilità collettiva — anzitutto quella dei tedeschi, e poi quella del mondo occidentale — in ciò che si è verificato in Europa e nel mondo dal 1933 al 1945.
Ecco alcuni stralci premonitori di quel che sarà, secondo i termini usati da Hitler, «lo Stato razzista nazional-socialista»: «La ricerca delle teste [gli “individui superiori” che devono dirigere le “masse”] si fa soprattutto, l’abbiamo detto, attraverso la dura selezione della lotta per la vita. Molti si spezzano e periscono, mostrando così di non essere designati, e ben pochi appaiono alla fine gli eletti». E ancora: «Così, di fronte a milioni di “borghesi” o di “proletari” tedeschi, che per lo più vanno incontro alla propria perdizione per ozio e stupidità, raddoppiate dalla viltà, l’Ebreo, pienamente consapevole dello scopo che persegue [«divorare i popoli della terra e diventare loro signore», dixit Hitler], non incontra nessuna resistenza sulla sua strada». E si potrebbe citare l’intero Mein Kampf giacché tutta la seconda parte del libro, consacrata al movimento nazional-socialista, traccia il programma del futuro Grande Reich.
Mein Kampf venne scritto e pubblicato nel 1924. Ogni tedesco ha avuto dunque nove anni di tempo per leggere e meditare sul programma di Hitler, che sarebbe diventato cancelliere il 30 gennaio 1933, che subito dopo decretò l’istituzione dei campi di concentramento, che si fece accordare i pieni poteri il 24 marzo, che organizzò l’1 aprile una giornata ufficiale antisemita, che instaurò il partito unico e che nondimeno venne eletto per plebiscito il 12 dicembre di quello stesso anno da una schiacciante maggioranza di questi stessi tedeschi. Quanto ai francesi, avranno seguito il consiglio del pur poco progressista maresciallo Lyautey: «Ogni francese deve leggere questo libro»?
 
Arbeit macht frei
La seconda “dimenticanza” delle lobby che hanno rivisitato la storia del III Reich è il significato profondo dei campi di concentramento, significato riassunto dal motto Arbeit macht frei, ovverossia «il lavoro rende liberi».
In effetti, quale motto più chiaro di quello che adornava l’entrata dei campi di concentramento! Campo di concentramento? o piuttosto campo di sterminio… per mezzo del lavoro. Ecco quale rimprovero fondamentale può fare, ipocrita, la borghesia a Hitler: egli ha svelato, benché si tratti di un tabù, la legge essenziale della vita degli uomini nel sistema produttivistico. Il lavoro rende liberi, è questa la legge.
Ma prima è bene rievocare lo sterminio dei deportati. Secondo i revisionisti, non ci sarebbe mai stata volontà di sterminio da parte dei nazisti. La semplice lettura di Mein Kampf, come abbiamo visto, sarebbe sufficiente per convincere del contrario. Ma questo dibattito sullo sterminio nelle camere a gas occulta un fatto assai più importante dal punto di vista della comprensione dello Stato e del Capitale: i deportati che sono morti nella maggior parte dei campi nazisti sono morti di lavori forzati fino all’agonia. Che la loro agonia abbia avuto luogo in una camera a gas o sull’infetto letto di legno che il deportato moribondo divideva con uno o due dei suoi compagni, non è certo privo d’interesse. Ma ciò che non viene mai sottolineato è che i deportati lavoravano nei campi nazisti fino alla morte. È stato valutato che la durata media di vita in un campo era di duecento giorni circa, con la morte, invariabilmente, in fondo al cammino. 
Occorre anche precisare che solo alcuni campi erano destinati allo sterminio di massa, mentre la maggior parte serviva all’industria bellica tedesca. Tuttavia, a partire dal 1944, lo sterminio è prevalso sul lavoro forzato per via dell’approssimarsi della fine della guerra e della distruzione delle fabbriche tedesche ad opera dell’aviazione angloamericana.
Nel campo le SS non uccidevano che dopo aver spremuto il deportato, dopo averne estratta tutta la forza lavorativa: lo sterminio attraverso il lavoro. E quando il deportato non ce la faceva più a lavorare, veniva mandato a morire o giustiziato sul posto, sempre che non fosse già morto di lavoro. Nel qual caso durante l’appello della sera nella piazza centrale del campo, come avveniva ad Oranienburg-Sachsenhausen, appello che poteva durare alcune ore, finivano con l’essere confusi i vivi e i morti, cosicché le SS contavano e ricontavano gli uni e gli altri. Il numero complessivo, alla fine della giornata, doveva essere identico a quello risultato dall’appello del mattino. Con questo atto di indicibile crudeltà, le SS mostravano ai deportati come il lavoro, il cui termine era decretato ogni sera dall’appello, unisse i vivi ai morti in quel miscuglio di cadaveri sorretti dai moribondi.
A meno che gli avvenimenti, come negli ultimi giorni della guerra, con l’imminenza della vittoria alleata e dunque della scoperta delle atrocità commesse dalle SS, non avessero portato queste ultime a sterminare i deportati nel corso delle marce della morte. Nell’aprile e nel maggio 1945 furono in effetti decine di migliaia i deportati a non poter vedere la fine dell’incubo, in quanto troppo deboli per sopportare ore di marcia forzata per sfuggire all’avanzata degli eserciti alleati.
Mezzo secolo è trascorso. Oggi, Arbeit macht frei si traduce in neolingua: «La deregolamentazione libera i mercati e gli uomini».
Dietro questi due slogan, a cinquant’anni di intervallo, sempre la stessa realtà.
Carcerieri: padroni di società transnazionali, tecnocrati assetati di congressi internazionali e ministri corrotti, militari democratici e animatori di trasmissioni televisive, tutti tessono i propri fili, non più spinati ma che ci rinchiudono allo stesso modo nella prigione produttivistica chiamata Terra.
Deportati: lavoratori immigrati ipersfruttati e contadini poveri dei paesi del Sud che affluiscono a decine di migliaia ogni giorno verso le metropoli del terzo mondo, questo mondo di immondi terzi, metropoli che sono fatte di gigantesche cerchie di bidonville poste a corona di un centro città pseudoparadisiaco.
Ma paragoniamo l’esistenza di un abitante delle bidonville di Calcutta o la durata della vita di un minatore boliviano — trentacinque anni di speranza di vita al massimo — con l’inferno vissuto dai deportati. Allora l’immagine si sfuma da sola. Allora i torti di Hitler appaiono. Le differenze fra l’orrore nazista e l’orrore contemporaneo si riassumono in: si moriva più in fretta nel 1943 ad Auschwitz che oggi in Bolivia; si viveva meno liberi a Struthof che a Calcutta. Resta tuttavia la verità, tabù, che svela lo sterminio nei campi nazisti: «il lavoro rende liberi», solo la morte attraverso il lavoro rende liberi. Solo la morte libererà il minatore boliviano dal suo massacrante lavoro. Solo la morte libererà il tiratore di carrozzella di Calcutta dalla sua spaventosa magrezza. Il lavoro, sia esso forzato o salariato, è la schiavitù fino alla morte.
L’importante per la democrazia borghese, sistema fondamentalmente ipocrita, è che ciò non si veda troppo. Si fa durare questa vita, spesso oltre i trentacinque anni. Talvolta vengono offerti alcuni “vantaggi”: a Netzahualcoyotl, una delle più grandi bidonville del Messico, c’è un gran numero di televisioni. Impedire all’uomo di liberarsi in altro modo che attraverso il lavoro, forzato o salariato, attraverso il lavoro fino alla morte, questo solo conta. Lavorare fino alla morte, in silenzio. E soprattutto non disvelare la legge: lavora fino a creparne!
Dal 1945, questa legge si è tuttavia sbrecciata a causa delle profonde contraddizioni del sistema capitalista: ai giorni nostri non sono più tutti, in effetti, a godere del privilegio di lavorare fino a creparne. La disoccupazione ha indubbiamente prodotto alcune crepe nel culto del lavoro. Se il lavoro resta il valore supremo degli sfruttati, la persistenza della disoccupazione ha tuttavia mostrato che il sistema è incapace di dare lavoro a tutti, e di conseguenza che poggia su pilastri mobili. Il lavoro in quanto valore non viene seriamente contestato, ma la legge Lavoro=Denaro non è più tanto rigorosa. Il sistema è stato costretto a concedere fondi (sotto forma di sussidi assortiti, a condizioni spesso degradanti), ammettendo così di fatto che l’ottenimento di denaro poteva anche non essere condizionato dal lavoro. Si tratta di un indietreggiamento tattico e in verità assai modesto; il passo decisivo sarebbe la contestazione della produzione e del lavoro. Prima di arrivare a ciò, lo scenario più plausibile è ahinoi l’imposizione a ciascuno tramite la dittatura di un lavoro per combattere la disoccupazione.
 
La tirannia dell’oblio
I democratici hanno dimenticato di leggere Mein Kampf, dimenticato che i deportati avevano subìto il lavoro forzato fino a creparne. Dimenticanze volontarie: la democrazia è fondata sull’oblio, non sulla memoria. Allorché le tirannie sono fondate su memorie selettive (per esempio la memoria del glorioso popolo tedesco, o francese, o basco…), la democrazia si piega alla tirannia dell’oblio. C’è chi dimentica che questo sistema non è perfetto e, di tanto in tanto ma in maniera assai sistematica per non dire regolare, trasgredisce le proprie leggi e beffa i propri dogmi. A cominciare da quello dell’esercizio della democrazia, cioè l’esercizio del potere “del popolo e per il popolo”.
Indicativo dell’oblio: ai massacri commessi durante la guerra dai nazisti si oppongono i massacri commessi dagli… Alleati. In nome dell’antinazismo e dell’antifascismo, gli Alleati, dal 1943 al 1945, hanno in effetti organizzato massacri nelle città tedesche e giapponesi per mezzo di bombardamenti detti strategici. Non si tratta solo dello sganciamento di bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki, ma di tutto ciò che è venuto prima. I massicci bombardamenti sulla Germania, così come più tardi sul Giappone, avevano lo scopo di distruggere le città e tutti quelli che vi si erano rifugiati (sfruttati, proletari, donne e bambini), e non obiettivi militari (eserciti, fabbriche, strade ferrate…), come mostrano quasi tutti gli avvenuti bombardamenti angloamericani. A Dresda, nel febbraio 1945, i democratici bombardarono una città rifugio (nessuno pensava che Dresda sarebbe stata bombardata, a causa del suo ruolo modesto sul piano militare e della forte concentrazione di edifici storici, considerati “patrimonio” dell’ “umanità”) in cui si accalcavano un milione di tedeschi. Un quarto di loro trovò la morte nello spaventoso vento di fuoco che letteralmente liquefece gli occupanti dei bunker e perfino gli utensili di metallo che avevano con sé… Anche a Tokyo furono sganciate bombe incendiarie sul quartiere popolare costruito in legno, causando un numero di morti equivalente a quello di Hiroshima. Per quanto riguarda la bomba nucleare, si trattava di colpire una città operaia, e fu Hiroshima ad essere scelta, mentre Hiro Hito aveva già accettato di arrendersi. La scelta venne guidata dalle riflessioni dei democratici Churchill e Truman.
E che pensare del bombardamento delle fabbriche Auer il 15 marzo 1945, vicino ad Oranienburg, dove lavoravano duemila donne deportate politiche, metà delle quali morirono quel giorno? Qualche tempo dopo la disfatta dei nazisti, questo lancio di millecinquecento tonnellate di bombe esplosive e di seicentodiciotto tonnellate di bombe incendiarie su un obiettivo fra i più limitati sarebbe stato giustificato col trattamento di minerali rari utilizzati nella bomba atomica, trattamento realizzato in quelle fabbriche. Uno dei risultati raggiunti fu in ogni caso la morte di un migliaio di deportate politiche.
I democratici sono costretti a dimenticare alcuni avvenimenti capitali come i loro bombardamenti e lo sterminio attraverso il lavoro nei campi nazisti… Altrimenti, come potrebbero giustificare l’attuale sterminio attraverso il lavoro nei paesi del Sud? Che viene impiegato ormai su tre o quattro miliardi di esseri umani!
 
La messa in spettacolo dell’orrore
Fortunatamente, i democratici dispongono di un’arma molto efficace per non ricordare che dimenticano: la messa in spettacolo dei ripetuti genocidi.
Genocidio è un vocabolo recente apparso nel 1945. Forgiato su una radice greca essa stessa derivata dal sanscrito, genos può essere tradotto con razza, famiglia (specialmente nel senso di grande famiglia patriarcale), posterità, cioè sesso, classe, fratria. Un genocidio è lo «sterminio di un gruppo umano, nazionale o religioso» secondo il Lexis, che fornisce un solo esempio: «Il genocidio degli Ebrei ad opera dei nazisti». Sterminare significa per questo stesso dizionario «annientare nella totalità [grazie per il pleonasmo] o in gran numero [ancora grazie, questa volta per la contraddizione]». Vediamo quindi come anche un dizionario così serio si imbrogli con le parole per illustrare il significato di questo termine. Occorre «sterminarli tutti» (sic) oppure no, perché si possa parlare di genocidio?
Invece Littré, ai tempi del quale il vocabolo genocidio non esisteva, definiva sterminare come «cacciare interamente, fare sparire, fare perire interamente». Non c’è dunque alcuna ambiguità in questo termine: nel suo autentico significato di sterminio, si è costretti a constatare che certi genocidi non furono tali, e il crimine della manipolazione di questa parola avvantaggia… i sostenitori dell’orrore.
Ci viene detto che in Ruanda è stato commesso un genocidio. Ma si sente dire pure che la scoperta dell’America non ha provocato il genocidio degli Amerindi. Ah! e quelle tribù (genos = famiglia nel senso di grande famiglia patriarcale) che sono scomparse interamente, dall’Alaska alla Terra del Fuoco? Allora ci dicono che il genocidio commesso dai nazisti o dagli Hutu era pensato e pianificato. Effettivamente, è proprio questo che ci insegna la lettura del Mein Kampf. Ma allora, quello degli Amerindi organizzato dalla corona di Spagna e dalla Chiesa, la quale produsse parecchi testi teologici che giustificavano i massacri e le conversioni forzate?
Non andremo oltre in questo dibattito sterile: è chiaro, e questo è l’essenziale, che il termine genocidio possiede un significato flessibile, molto comodo per lo Stato e i suoi media, e che è possibile spettacolarizzare genocidi razziali, religiosi, tribali, eccetera; in breve, rendere questo vocabolo un funzionale ripostiglio. La parola genocidio comporta una reazione immediata che consta di un arsenale su vari livelli: appelli al rispetto dei diritti dell’uomo, diritto poi dovere di ingerenza umanitaria in un primo tempo, militare in seguito e, infine, cinico ritorno alla casella di partenza. Basta pensare all’Iraq, dove, secondo la Fao — la molto onorevole organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura — trecentomila bambini iracheni sono morti per le conseguenze dell’embargo dichiarato contro il loro paese dalla pretesa comunità internazionale, e questo nello spazio di appena quattro anni. Trattasi di genocidio? La risposta è no: la prova, non è stato spettacolarizzato. Non tutti si è vittime di un genocidio.
La democrazia, facendo del genocidio uno spettacolo consumabile, ha ridotto a niente il significato degli atti più barbari: ne ha la necessità imperativa, visto che ne commette ogni giorno in numerosi punti del pianeta.
Un processo come quello di Norimberga è stato anche l’occasione per fare abbassare la tensione spostando l’orrore sulle spalle di alcuni responsabili. Quelli di Norimberga in effetti lo erano, ma le “semplici” SS non lo erano altrettanto?
È questo che mostra il famoso libro nero sui crimini commessi dai nazisti contro gli ebrei dell’Unione sovietica. Questo libro era un rapporto ordinato da Stalin, subito insabbiato dallo stesso. Perché si tratta di un documento che mostra alcuni esecutori, semplici esecutori, che ci tenevano a portare a termine il loro compito, a fare «un buon lavoro». L’orrore non è appannaggio del cenacolo dei più prossimi a Hitler: si è esteso fino al soldato di seconda classe, che stupra, umilia, tortura e uccide con convinzione.
 
La moltiplicazione dell’orrore
A partire dalla “scoperta” dell’America, l’uomo occidentale è diventato moderno: sa che la Terra è rotonda e che può uccidere a volontà con la benedizione della Chiesa. Le dispute sulle cifre mal celano la vastità del disastro rappresentato dalla Conquista per gli abitanti delle due Americhe. Questo è noto, e padre Bartolomeo de las Casas ha descritto gli orrori commessi in nome del papa e di Dio. Poi, sempre legato all’America, un altro “genocidio” si verificherà per parecchie decine d’anni: la tratta dei neri. Anche in quel caso, se pure le cifre degli uni e degli altri divergono, le atrocità commesse si conoscono. Ne furono responsabili tanto i bianchi cristiani, cattolici e protestanti, che i neri musulmani che vendettero i propri vicini animisti ai trafficanti di schiavi.
L’orrore non si limita al genocidio. Senza redigere un catalogo di cinque secoli di orrori, pensiamo al macello della Grande Guerra. L’inferno delle trincee ha originato numerose testimonianze scritte. Alcune descrivono con minuzia come e soprattutto perché i soldati abbiano potuto ripartire per quattro anni all’assalto delle trincee nemiche, all’assalto dell’orrore, con tendenze alla ribellione poco marcate se rapportate all’ampiezza dei massacri vissuti. In effetti, come hanno potuto i combattenti resistere per cinque anni in un inferno che poche parole, pochi soldati divenuti scrittori hanno saputo descrivere? In ciò è indubbiamente possibile vedere il segno che l’orrore subìto e imposto al “nemico” è costitutivo del gruppo umano, si tratti di un battaglione o di un esercito. Esiste dunque un punto centrale: è inutile polemizzare sulla natura umana individuale, quel che è certo in compenso è come lo Stato sappia agire là dove ciò funziona, su scala del gruppo gerarchizzato.
Semplici soldati hanno così raccontato l’orribile dilemma che li rodeva durante la Grande guerra: erano contro, contro il ritorno in trincea, contro l’assalto, contro il massacro, eppure obbedivano e uccidevano persino con rabbia. Questo dilaniamento è all’origine di numerosi suicidi avvenuti dopo la guerra — come al ritorno dai campi di concentramento nazisti.
 
I quartieri d’isolamento delle periferie
Così, la maggior parte dei cittadini convengono che i quartieri d’isolamento delle prigioni riservano ai detenuti condizioni destrutturanti, che possono condurre alla pazzia, al suicidio o, in ogni caso, che spezzano la personalità. Tuttavia l’architettura della prigione, che porta beninteso il marchio del potere e dello Stato, non è sorta dal nulla. L’architettura si inscrive, come l’urbanistica, in una scacchiera politico-sociale dello spazio. In questa scacchiera, c’è sempre un angolo degli orrori, un ghetto in cui si tenta di isolare ciò che non si vuole vedere o mostrare. Il quartiere d’isolamento della grande città è la sua periferia!
Quando non ci si può più escludere da questo mondo (sotto il Vecchio Regime, gli esclusi si ritrovavano in genere nelle foreste; ai giorni nostri non ci sono più emarginati se non per i media e i maître-à-penser: non ci si può più escludere da questo mondo, giacché si è sotto sorveglianza dappertutto, sulla strada, in prigione o altrove!), diventa imperativo per lo Stato che i cittadini indesiderabili — quelli segregati fra l'altro per la “crisi” — non siano troppo visibili. Così lavoratori immigrati, operai specializzati e disoccupati si ritrovano in gran numero nelle periferie. Queste sono autentici quartieri di isolamento a bassa intensità. I trasporti pubblici sono meno frequenti che nel centro cittadino, i percorsi durano sempre più a lungo, gli spostamenti sono poco diversificati (così, il rito delle corse all’ipermercato, ripetitivo, alienante…). In confronto ai quartieri d’isolamento ad alta intensità delle prigioni, appaiono altre similitudini: difficoltà di comunicazione con i vicini, un’architettura studiata in funzione del controllo sociale…
Nell’accettazione della periferia come margine della città è già presente l’idea di separare, di isolare determinati individui o gruppi, di relegarli nelle zone che si vorrebbero dimenticare. Il quartiere d’isolamento potrebbe dunque essere chiamato quartiere dell’oblio; la giustizia, privata della sua ghigliottina, vi assicura nel seno stesso della prigione una pena di morte amministrativa. Lo Stato assegna alla residenza nelle periferie i cittadini meno desiderati, periferie che disturbano solo quando vengono ricordate agli abitanti del centro. Ma quale ipocrisia nel pretendere di umanizzare le periferie (?) che in fondo sono l’indispensabile rovescio del centro.
 
Lo Stato e l’orrore giorno per giorno
Nei mass media, l’attualità è la lunga litania della vita dello Stato, degli Stati, di uno Stato mondiale in formazione, e dei loro orrori.
La pena di morte ristabilita per i bambini in alcuni degli Stati Uniti d’America. La legge islamica in numerosi paesi musulmani. Reintroduzione del lavoro forzato per i prigionieri, incatenati, negli Stati Uniti. Indigeni gassati nelle piantagioni di cotone a causa del passaggio di aerei che spargono pesticida senza nemmeno un segnale di preavviso. Bambini prostituiti in Tailandia, nelle Filippine e altrove. Polizia genetica all’opera in Gran Bretagna. Neurolettici diffusi in quantità massiccia per controllare — e uccidere — i senzatetto negli Stati Uniti. La mucca pazza, una epidemia dovuta all’alimentazione: da una quindicina d’anni, si danno da mangiare cadaveri d’animali — e persino placente umane — a erbivori, mucche, montoni e conigli. Nuovo soggetto di esperimenti appassionanti per gli scienziati che si sfregano cinicamente le mani, e se ne infischiano dei bambini del Burkina Faso che crepano a migliaia di meningite, o dei piccoli iracheni che muoiono di fame a causa dell’embargo. E questo florilegio dell’orrore continua giorno per giorno.
L’orrore è ormai accettato. Si intervistano i poveri operai delle industrie belliche francesi che sono già o ben presto saranno ridotti alla disoccupazione e ci si impietosisce per questo dramma sociale. Ma la loro precedente prosperità — relativa, certo — non era fondata sulla morte o il ferimento di numerosi esseri umani, lontano da qui, in una delle ventotto guerre che nel 1996 vengono scatenate qua e là sul pianeta…? Ci si dimentica che le mine antiuomo, tra le altre cose, uccidono e mutilano individui estranei ai massacri in corso, in genere bambini che, trovando queste piccole mine, le scambiano per giocattoli. Ma è tuttavia dei nostri operai che ci si preoccupa.
 
Lo Stato è l’orrore
È impossibile concludere, giacché la storia dello Stato e dell’orrore — che è la negazione della nostra storia — è ancora in corso.
Ogni ordine sociale esige:
— che l’individuo faccia torto a se stesso ed ostacoli, neghi, contrasti le proprie tendenze (non si tratta qui di natura umana, questo oggetto di dibattito insipido, ma della continuazione o meno nell’età adulta dei formidabili desideri di libertà, di scoperta, di amore che hanno i bambini, combattuti a scuola dagli sbirri di Stato);
— che l’individuo faccia torto agli altri. Questa non è soltanto la Legge del Capitale (per esempio la concorrenza, la ricerca del profitto, eccetera), ma anche lo Stato ci incoraggia in questo quotidianamente.
Il ruolo attuale dell’umanitario, lungi dall’ostacolare o semplicemente dallo sviare queste tendenze all’orrore, è quello di far sopportare l’orrore, condizione della perpetuazione statale. L’umanitario organizza il massacro, lo gestisce — per usare un termine orribile — di modo che i massacri conservino l’anima pulita (la virtù dell’anima è funzione dell’ordine sociale, e chiude con sé il cerchio del totalitarismo) a scapito delle mani (anche le SS dovevano lavarsele dopo aver somministrato frustate).
Il totalitarismo non è originato dal solo Stato. Se l’individuo cerca di aprirsi all’altro, bisogna tuttavia che questo altro non sia un alter ego, dunque un simile. Aprirsi all’altro, significa accettare che sia differente, che viva in modo differente, e trarre da questa diversità una ricchezza che si tradurrà con l’esuberanza delle forme di vita. L’Altro è tale a patto che sia differente, e che tra il Sé e l’Altro regni nondimeno la parità. Beninteso, ciò ha senso solo fra individui non alienati, non dominati, dunque dopo la distruzione dello Stato e del Capitale.
Fin d’ora combattere il totalitarismo passa per l’assenza di un programma, per il rifiuto di ogni ordine sociale futuro: né il bolscevismo, né il federalismo anarchico, né il neotribalismo, per esempio, devono venir eretti a feticci. Combattere lo Stato non ha senso che rifiutando ogni programma, perché ogni programma non è che uno sforzo in vista di trasformare gli Altri in propri alter ego, non è che una volontà tirannica di riprodursi a catena. Questa è l’essenza dei gruppi politici e dei partiti, che cercano di essere formati da individui tutti più o meno simili, in ogni caso modellati alla scuola del partito o ad immagine del guru.
Vediamo dunque che orrore e dittatura democratica e umanitaria… formano proprio una bella coppia! Il capitalismo è l’orrore. Il produttivismo è l’orrore. Lo Stato è l’orrore.
E noi vogliamo giocare il mondo…
 
1 maggio 1996
[Diavolo in corpo, n. 1, dicembre 1999]