Intempestivi

«Di' qualcosa di sinistra!»

Sono passati anni da quando in uno dei suoi film un noto attore-regista italiano esortava l'allora attonito leader della sinistra, impegnato in un dibattito televisivo con il sorridente miliardario che tuttora tiranneggia il paese, a non farsi calpestare e a reagire. Macché, tutto inutile. In questa epoca di certezze infrante, di parole banalizzate, di significati erosi, di veri e propri capovolgimenti concettuali, la sinistra si trova sempre più a destra, pronta a blandire l'imprenditore equo e solidale, ad approvare la guerra civilizzatrice, a sostenere il nucleare sicuro, a votare leggi razziste, a costruire grandi opere devastatrici... Le vecchie bandiere rosse (di vergogna) sono finite al macero, sostituite dai tricolori.

Ma questo tracollo ideale ed ideologico della sinistra istituzionale, quella dedita agli intrighi di palazzo, non ha risparmiato nemmeno quella sinistra "radicale" che, pur preferendo respirare l'aria della piazza, era solita giocarci assieme di sponda. Contro il capitalismo, Marx può andare ancora bene da leggere e pregare. Ma è troppo fuorimoda da citare, troppo infausto da proporre, troppo imbarazzante da sbandierare. Così, per un breve periodo i suoi antichi esegeti non hanno saputo più a che santo votarsi. 
Finché è arrivata l'illuminazione: san Tommaso d'Aquino. Sì, proprio lui, l'ideatore di quel concetto di bene comune che costituisce la base della dottrina sociale della Chiesa, tratto distintivo del pensiero politico cattolico. Dalla segreteria, le lotti sociali sono passate alla sacrestia.
Il capitalismo sta prendendo d'assalto quelle che sono considerate le fonti stesse di vita del pianeta? Dopo la terra ora tocca all'acqua venir presa di mira dal profitto, e prima o poi capiterà anche all'aria? Giammai, ciò è inaccettabile. E, per opporsi, bisogna dire qualcosa di cattolico: questi sono beni comuni, appartengono a tutti, non possono essere sfruttati da qualcuno per tornaconto personale. Il discorso è semplice, chiaro e, come si è visto dalla vittoria dei referendum lo scorso giugno, condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione (al punto che, esaltato dal successo elettorale, c'è chi ha perfino esteso la qualifica di bene comune alle stesse metropoli!). Il che non toglie che dietro la sua ragionevolezza si nasconda una pura menzogna al servizio di una precisa prospettiva politica.
L'acqua, tanto per rimanere al tema che più ha attirato l'attenzione, è già mercificata. Non è affatto a disposizione di tutti, gratuitamente, come ama dipingerla una sinistra propaganda. È un bene pubblico, cioè una merce dello Stato. Nel linguaggio giuridico "bene" esprime l'oggetto di una proprietà, ovvero di un qualcosa che può essere venduto e comprato. L'acqua ci viene fornita dietro pagamento di regolare bolletta. Le poche fontanelle nelle strade non potrebbero mai soddisfare i bisogni di tutti, non sono che le vestigia di una libertà andata perduta. Ed essendo assai limitata la possibilità di usufruire di pozzi privati, lusso o colpo di fortuna che si trova in qualche casa di campagna, è lo Stato a rimanere padrone incontrastato dell'acqua e ad erogarla ai suoi cittadini in cambio di un po' di denaro e tanta obbedienza. È uno di quei servizi attraverso cui le istituzioni si fanno passare come indispensabili agli occhi dei propri sudditi, ottenendone in tal modo il consenso.
Quindi l'acqua è un bene pubblico, una merce istituzionale a "basso" costo, che non si vuole diventi bene privato, una merce non istituzionale a prezzo verosimilmente maggiorato. Tutta qui la questione. Meglio dipendere da uno Stato accorto che controlla e limita il Capitale, oppure da un Capitale intraprendente che controlla e sfrutta lo Stato? Meglio essere cittadini o clienti? Sostenere i referendum, appellarsi ai diritti negati, sventolare la Costituzione, significa auspicare di veder salvaguardata la propria sopravvivenza dalle Istituzioni. Invece chi vuole veder salvaguardata la propria sopravvivenza dal Mercato sostiene il via libera alle privatizzazioni. 
Ma chi vuole uscire da questa alternativa da suicidio per assaporare finalmente la vita, è ben altro che deve esprimere, proporre, praticare. Non pretendere la conservazione o l'adeguamento di ciò che è Stato, ma la realizzazione di ciò che non è mai Stato.
Ecco perchè è patetico questo gran parlare di bene comune e sono ridicoli gli inviti ad accodarsi ad una sinistra talmente a corto di argomenti propri da essere costretta a sua volta ad accodarsi alle tesi della Chiesa. Il concetto di bene comune, per altro, dovrebbe già in sé suscitare sospetto. Quando è stato usato da san Tommaso D'Aquino nella Summa Teologica, egli non si riferiva affatto all'acqua, all'aria o alla terra, ovvero alle fonti di vita per l'intero genere umano, bensì a qualcosa di prettamente istituzionale: alla legge. Come giustificare che qualcuno decida il comportamento degli altri? In merito all'essenza della legge, egli sosteneva che questa non «è che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune, promulgata dal soggetto alla guida della comunità». Chi guida la comunità, chi detiene il potere, prescrive le norme di condotta che tutti devono rispettare. Non potendo ammettere di fare i propri esclusivi interessi, deve sostenere di essere al servizio di qualcosa di nobile ed universale: «la legge innanzitutto per riferimento al bene comune, qualsiasi altro precetto sopra un oggetto particolare non ha ragione di legge sino a quando non si riferisce al bene comune. Per tanto tutta la legge si riferisce al bene comune». Seguendo questa logica, Tommaso D'Aquino arriva a fare della difesa del bene comune la legittimazione della pena di morte. Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, allo stesso modo si deve poter eliminare  una persona diventata un pericolo per la comunità, al fine di garantirne la salvezza. In origine quindi il «bene comune» era null'altro che una celestiale trovata mirante a fondare e dare ragione alla legge, a giustificare la sottomissione ad essa.
Successivamente il suo concetto è stato dibattuto, reso relativo e variabile. Per alcuni esprime un qualcosa che giova a tutti, che apporta beneficio a tutti, e che per questo motivo tutti dovrebbero difendere. Per altri invece — più brutali perché assai più sinceri — il bene comune corrisponde al «bene dei più», premessa che ovviamente ha come conseguenza il sacrificio dell'individuo le cui esigenze non conformi vengono considerate un male singolare da sopprimere. Ad ogni modo, per quanto si sia dibattuto non si è usciti dall'ambito delle interpretazioni ordinatrici e normative. 
Ciò significa che il bene comune viene sì considerato di appartenenza a tutti gli individui, ma solo in quanto membri di uno Stato. È un valore comune che i singoli possono perseguire solo assieme e nella concordia. Il concetto di bene comune indica l'esigenza di ogni società organizzata: senza un minimo di cultura omogenea e condivisa, senza un minimo di consenso sui valori ultimi della comunità e sulle regole della coesistenza, la società rischia di sfaldarsi e di trovare la propria integrazione sociale solo attraverso la forza. Da questo punto di vista, il concetto di bene comune rappresenta il massimo tentativo di una integrazione sociale basata sul consenso. Ecco perchè oggi è diventato il cavallo di battaglia di quel che resta della sinistra.
Quali sono i motivi di salirci sopra e cavalcarlo se non desideriamo alcuna integrazione? Che questa società si disintegri pure, che la sua ipocrita unità — imposta con la forza dalla destra, con il consenso dalla sinistra — finisca una volta per sempre. La fine di ogni collettività omologante, di ogni partecipazione forzata, di ogni condivisione coatta, sarà il primo passo verso la sperimentazione della libertà. 
 
[5/10/11]