Brulotti

Il rumore delle pantofole

Sfatiamo un luogo comune. Un dominio forte non è fondato sulla mera coercizione, bensì sull’estensione del consenso. Il rumore del passo cadenzato degli stivali sa incutere reverenza e timore, ma anche scatenare rabbia e risolutezza; il silenzioso passo strascicato delle pantofole concilia il sonno della rassegnazione. Nessuna polizia al mondo, per quanto feroce, può competere con un apparato capace di instillare giorno dopo giorno i valori dominanti. Ciò spiega come lo sviluppo recente della tecnologia e dei mezzi di comunicazione di massa abbia permesso e accompagnato la scomparsa degli ultimi regimi dittatoriali sparsi per il mondo, sostituiti da democrazie di stampo occidentale. Le parabole satellitari sui tetti degli edifici hanno preso il posto dei carri armati agli angoli delle strade. Per anni era sembrato che lo Stato moderno non avesse più bisogno di mostrare i muscoli, essendo in grado di ottenere quel che voleva con le lusinghe e con l’inganno. L’uso del manganello veniva riservato ai pochi riottosi ostili al potere, mentre per tenere a freno la maggioranza delle persone bastava quella babele del chiacchiericcio chiamata televisione.
Ora la situazione sta cambiando. Sul piano politico il sistema dei partiti è letteralmente esploso dando vita a una costellazione di relitti, di nuove formazioni assimilate da una sostanziale identità di programmi e da una comune insulsaggine. Sul piano economico la flessibilità, introdotta per coniugare esigenze tecniche e di profitto, ha gettato nella precarietà migliaia di lavoratori con le loro famiglie. Sul piano sociale i rapporti si sono progressivamente deteriorati, dando via libera alla violenza più cieca e spietata; senza un futuro in cui sperare, senza nemmeno un passato da rimpiangere, con un presente che rimanda di continuo alla propria desolante nullità, è impossibile creare relazioni sociali immuni dal rancore, dalla noia, dalla competizione, dal servilismo, che nascono nella ressa per la sopravvivenza in cui ci si calpesta a vicenda.
Se a ciò aggiungiamo il ritorno di vecchi fantasmi considerati sepolti – una guerra infinita che si espande in tutte le zone del pianeta, una catastrofe ecologica provocata dai veleni della società industriale –, si comprende il motivo per cui il dominio si senta oggi franare il terreno sotto i piedi. E laddove si fa più flebile il consenso, torna a rispuntare la repressione più feroce.
Benché non siamo più negli anni Venti, con una minaccia rivoluzionaria talmente forte da spingere una borghesia terrorizzata ad armare le camicie nere contro i sovversivi, come allora il dominio ha paura, si sente vulnerabile. Non potendo contare su nessun applauso per lo scontato canovaccio che va rappresentando in maniera sempre più mediocre, non sapendo come inventare nuovi colpi di scena per destare l’interesse del pubblico, ricorre nuovamente al pugno di ferro per imporre ai suoi spettatori di restare seduti al proprio posto.
Nel 2001 a Genova, la più grande manifestazione di protesta avvenuta negli ultimi anni in Italia è terminata con un manifestante abbattuto, una mattanza generalizzata per le vie della città, un centro di tortura operativo in periferia – con buona pace dei candidi sostenitori dello Stato di diritto. Ma gli “eccessi” repressivi che ci troviamo ad affrontare non sono la reazione a qualcosa che mette in pericolo la sicurezza dello Stato. Si tratta piuttosto dell’azione preventiva di persuasione generalizzata di un potere che teme la propria debolezza, più che la forza dei suoi nemici. Per questo interviene in anticipo, per scongiurare possibili progressioni dall’altro lato della barricata. Opera centinaia di arresti a scopo dissuasivo, criminalizza piccoli atti isolati perché potenzialmente riproducibili, confina elementi indesiderabili per impedire che arrechino troppo disturbo.
Dispiegando i suoi apparati, il dominio riesce anche ad insinuare fra i suoi nemici la convinzione della loro effettiva pericolosità: suadente illusione che vorrebbe spingerci alla contemplazione di una falsa immagine radicale, anziché interrogarci su come praticare un’azione incisiva contro chi ci sta negando ogni libertà. Più ci convinceremo di venir repressi perché siamo già pericolosi, più ci persuaderemo di continuare a fare ciò che stiamo già facendo: vale a dire, poco e niente.
Perché, a ben guardare, è proprio di questo che ci dovremmo occupare. Come diventare veramente pericolosi?

 

Quale guerra. Numero unico di ricognizione sociale, inverno 2003/2004, a cura di alcuni nemici interni