La leggenda della valle che non c'è

Contropelo

La leggenda della valle che non c'è

M. e V.

Non è semplice sintetizzare in un articolo la questione valsusina ed il ruolo che gli anarchici — alcuni — si sono “ritagliati” al suo interno, la faccenda è molto ampia ed articolata, ci limiteremo quindi a dare la nostra chiave di lettura su certe dinamiche che abbiamo potuto osservare in alcuni anni di permanenza nella famigerata “valle che resiste”. In primis necessita mettere in luce quello che è il modus operandi che i detentori della linea politica di movimento hanno impostato/imposto e che portano avanti, con buona pace degli anarchici/notav.
Partiamo dalla conclusione: in Val di Susa sussistono reali possibilità di rivolta, in essere o in potenza, che possano mirare all'abbattimento delle logiche di dominio quali le conosciamo e con le quali come anarchici confliggiamo quotidianamente? La risposta è no. In Val di Susa lo scenario è quello classico della lotta di cortile che si sostanzia su un territorio certo ampio ma che risente appunto di tutti i limiti dei movimenti «non nel mio giardino».

Appunti in solitudine.

Brulotti

Appunti in solitudine. Sconforto?

Guglielmo Asturi

Attenersi a delle trattazioni dottrinarie prescindendo da ogni problema contingente? Astenersi dallo esternare concetti e soluzioni, più o meno originali, sulla situazione politica italiana?
Ma perché continuare a rimanere nello «astratto»? Non è forse l'anarchismo ancora saturo di «astrazioni filosofiche»? Diamo della «praticità» all'anarchismo e viviamo una buona volta nella «realtà»!
Credete che sia io che parli?
No. È Carlo Molaschi. Questo ed altro griderebbe in faccia a noi «astrattisti».
Ora avrò io la percezione esatta di ciò che è la situazione psicologica dei sovversivi in Italia?
Proviamoci, ma lascerò ad altri il compito di pronosticare su un avvenire, più o meno lontano, più o meno lieto, di riabilitazione politica e di risveglio della dignità umana.

Un de moins

Ostrogoto [fr]

Un de moins

Il y a une semaine, un détenu roumain s’est pendu à la prison d’Opera (Milan). Il s’appelait Ioan Gabriel Barbuta. La nouvelle de sa mort serait passée inaperçue (au fond c’était un étranger, au fond c’était un condamné à perpétuité, au fond...) s’il n’y avait pas eu l’émoi suscité par les commentaires virtuels exquis de beaucoup de surveillants envoyés à un syndicat de la police pénitentiaire : « un de moins... excellent... espérons qu’il a souffert... plus de cordes et de savon... à déduire du décompte... hourra... trinquons pour lui... ».

Guarda che luna

Intempestivi

Guarda che luna

 

«Se un uomo passeggia nei boschi metà di ogni sua giornata — per il solo piacere di farlo — corre il rischio di essere considerato un fannullone. Ma se spende l'intera giornata come uno speculatore, tagliando quegli stessi alberi e spogliando la terra prima del tempo, allora è considerato un cittadino industrioso e intraprendente»
Henry David Thoreau
 
A quanto pare ci sono individui che continuano a passeggiare lungo i binari in mezzo alla notte — per il solo piacere di farlo. È accaduto di nuovo, prima nei pressi di Roma, poi in quelli di Venezia. Ma più che fannulloni, costoro corrono il rischio di essere considerati dei provocatori. Sì, perché lasciano bottiglie incendiarie nei pozzetti della linea ferroviaria dell'Alta Velocità. Che però non bruciano giacché nessun fuoco ha illuminato l'oscurità, in entrambi i casi. C'è chi parla di bassa imperizia, chi di alta strumentalizzazione, chi di avvertimento dal basso o dall'alto.

Chris e “John”

Brulotti

Chris e “John”

Chris era un vero eroe yankee, tutto Dio, Patria e Famiglia. Andava a messa, aveva moglie e due figli e serviva il suo paese come solo lui sapeva fare, ammazzando. Non lo faceva per piacere, ma per dovere. Come scrisse lui stesso nel suo libro «ho dovuto farlo per proteggere i marines». La guerra è guerra, bisogna fare a meno di inutili rimpianti: «abbiamo ucciso i ragazzi cattivi e portato i leader al tavolo della pace. È così che funziona il mondo». L'esercito statunitense gli assegnò una decina di medaglie, le più alte onorificenze possibili, mentre gli insorti iracheni misero una taglia sulla sua testa e cercarono più volte di ucciderlo.
L'altro invece viene chiamato “John”. Anche se milioni di persone pagherebbero pur di conoscerne la storia, nessuno vuole avere davanti agli occhi le immagini delle sue imprese. Nemmeno lui è una persona comune. No, lui è un boia. È il boia di Isis, formazione armata che vuole creare uno Stato islamico in Siria e Iraq. E che, come mezzo di propaganda e di minaccia, invia i video delle decapitazioni di ostaggi avvenute per mano di “John”. Il numero delle sue vittime è imprecisato, giacché ai 5 ostaggi fino ad ora uccisi davanti alle videocamere vanno aggiunti anche alcuni soldati iraniani catturati e giustiziati. Per queste uccisioni, ora è il governo degli Stati Uniti a volere la sua testa su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari.

Uno in meno

Intempestivi

Uno in meno

Una settimana fa un detenuto rumeno si è impiccato nel carcere di Opera. Si chiamava Ioan Gabriel Barbuta. La notizia della sua morte sarebbe passata anche inosservata (in fondo era uno straniero, in fondo era un ergastolano, in fondo...) se non fosse stato per il clamore suscitato dagli squisiti commenti telematici di molti secondini inviati ad un sindacato della polizia penitenziaria: «uno in meno... ottimo... speriamo che abbia sofferto... più corde e sapone... scalate la conta... evviva... beviamo alla faccia sua...». Il Ministro della Giustizia, l'anima bella Andrea Orlando, si è prontamente indignato e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha temporaneamente sospeso 16 agenti. Ammazzate di botte un detenuto, torturatelo, tenetelo segregato, non ci sono problemi. Anzi, potreste perfino essere promossi. Questa è la democrazia. Ma non potete esultare pubblicamente, la ragione di Stato non lo consente. Lo Stato è buono, mica può sghignazzare in pubblico davanti a morti suicidi! No, deve ostentare dispiacere, cordoglio, anche se sotto sotto, privatamente...

Aria!

Papiri

Aria! (dossier)

 

Questo è un dossier sulla lotta contro la costruzione d’una maxi-prigione a Bruxelles, lotta cominciata alla fine del 2012 e tuttora in corso.
Una lotta specifica, contro una struttura concreta del dominio. Se non ci si vuole limitare a intervenire qui e là, cercando di rintuzzare i mille orrori che quotidianamente ci impone questa società, allora si può sempre prendere in considerazione la possibilità di scegliere uno dei suoi progetti più significativi e decidere di iniziare una lotta autonoma contro di esso. Per non disperdersi in troppi rivoli, per non fare da truppa a battaglie altrui.
Una lotta contro la repressione dello Stato, ma al tempo stesso contro una concezione della vita stessa e dello spazio urbano che la deve contenere. Messi in fila sotto gli occhi delle telecamere, chi nei raggi di un carcere e chi nelle corsie di un supermercato, detenuti e “liberi” cittadini condividono giorni e notti non troppo dissimili: sorvegliati nei percorsi, controllati negli spostamenti, registrati nei contatti, catalogati nelle richieste, sfruttati sul lavoro, alienati nei desideri, sedati dalla televisione.
Una lotta contro un obiettivo facilmente identificabile da tutte le «classi pericolose», ancora ben presenti nei quartieri della capitale belga, ma che è potenzialmente riconoscibile da (quasi) tutti. Perché con l’incremento delle misure securitarie, con l’inasprimento legislativo, la possibilità di finire dietro le mura di quella prigione rischia di conoscere ben poche eccezioni. E più una minaccia è indiscriminata, più l’interesse per la sua neutralizzazione può diventare generalizzato.
Una lotta capace di unire la chiarezza delle parole espresse in più maniere alla molteplicità dei fatti diurni o notturni, individuali o collettivi. Ricchezza che non conosce proprietari, a cui si può contribuire e da cui si può attingere liberamente. Senza giuramenti di fedeltà, senza tessere di partito. Perché lo scopo è di diffondere un metodo che è al tempo stesso una prospettiva, non di vedere esaudita una rivendicazione umanitaria. 
Una lotta lanciata da chi non nasconde la propria ostilità permanente nei confronti di ogni forma di potere, ma ripresa anche da altri. Considerato come l’orizzonte istituzionale stia colonizzando l’intero immaginario umano, l’anarchismo oggi non rischia di godere di grande popolarità. Ma gli anarchici impegnati in questa lotta, da un lato non si trincerano nell’autoreferenzialità, ma vanno alla ricerca dei loro possibili complici; dall’altro non elemosinano consensi a chicchessia, conoscendo bene l’abisso che separa il desiderio di sovvertire questo mondo dal bisogno di riformarlo.
Mai confondere il crimine chiamato libertà con l’affare chiamato politica. Il primo ha bisogno di teste calde che si trovano solo in basso. Il secondo ha bisogno di buoni tutori che stanno solo in alto. E forse è proprio questa consapevolezza il migliore suggerimento che ci sta dando questa lotta ancora in corso.
 
[tradotto da qui]

De l'air !

Ostrogoto [fr]

De l'air !

Autour de la lutte contre la construction d’une maxi-prison à Bruxelles

Voici un dossier sur la lutte contre la construction d’une maxi-prison à Bruxelles, lutte qui a commencé à la fin de l’année 2012 et qui est toujours en cours.
Une lutte spécifique, contre une structure concrète de la domination. Si l’on ne veut pas se limiter à intervenir ici et là, essayant de repousser les mille horreurs que cette société nous impose quotidiennement, on peut toujours prendre en considération la possibilité de choisir un de ses projets les plus significatifs et entamer une lutte autonome contre celui-ci.

Aria!

Fuoriporta

Aria!

Attorno alla lotta contro la costruzione di una maxi-prigione a Bruxelles

Questo è un dossier sulla lotta contro la costruzione d’una maxi-prigione a Bruxelles, lotta cominciata alla fine del 2012 e tuttora in corso.
Una lotta specifica, contro una struttura concreta del dominio. Se non ci si vuole limitare a intervenire qui e là, cercando di rintuzzare i mille orrori che quotidianamente ci impone questa società, allora si può sempre prendere in considerazione la possibilità di scegliere uno dei suoi progetti più significativi e decidere di iniziare una lotta autonoma contro di esso. Per non disperdersi in troppi rivoli, per non fare da truppa a battaglie altrui.
Una lotta contro la repressione dello Stato, ma al tempo stesso contro una concezione della vita stessa e dello spazio urbano che la deve contenere. Messi in fila sotto gli occhi delle telecamere, chi nei raggi di un carcere e chi nelle corsie di un supermercato, detenuti e “liberi” cittadini condividono giorni e notti non troppo dissimili: sorvegliati nei percorsi, controllati negli spostamenti, registrati nei contatti, catalogati nelle richieste, sfruttati sul lavoro, alienati nei desideri, sedati dalla televisione.

Pecorismo sovversivo

Brulotti

L'ora del pecorismo sovversivo

Dopo tanto scalpore, dopo tanto frastuono di propositi bellicosi, dopo tanto clamore di trombe rivoluzionarie, dopo lo scrosciare di tanti discorsi insurrezionali e la promessa e la minaccia di tante barricate... socialiste, la parola d'ordine per la rivolta a scadenza fissa è cambiata improvvisamente, la disciplina di partito trionfa, l'obbedienza passiva alla ingiunzione dei santi padri, la rinunzia prudenziale, la rassegnazione e la pace fra gli uomini di buona volontà!
Che cosa è avvenuto di nuovo, perché il 21 luglio dell'anno di grazia 1919, che doveva in qualche modo rassomigliare al 14 Luglio dell'89, il 21 luglio minaccioso dello sciopero internazionale rivoluzionario, il giorno atteso con trepidazione dalle folle proletarie e con terrore dall'odiata borghesia, sorgesse e tramontasse tranquillamente?
Niente di straordinario, nulla che giustificasse la mansuetudine e la viltà di tanta gente che pareva disposta a rovesciare un mondo!
Ma quali realmente le ragioni d'ordine politico e morale che hanno potuto determinare tanta e così vergognosa rinunzia e forza a paralizzare un movimento che prometteva tanto?

I complici di Cottin

Brulotti

I complici di Cottin

Scalarini

Emile Cottin (1896-1936) — che nel corso del suo processo si dichiarò «anarchico, ovvero antiautoritario, anticlericale, antimilitarista e antiparlamentare» — il 19 febbraio 1919 fece fuoco sul capo del governo francese Georges Clemenceau, detto «la Tigre», ma anche «il primo sbirro di Francia», venendo quasi linciato dalla folla presente. Nonostante il primo ministro fosse rimasto solo ferito, Cottin venne ugualmente condannato alla pena di morte. Graziato dal presidente Poincaré, la sua pena fu commutata in dieci anni di reclusione e vent'anni di obbligo di dimora. Liberato nel maggio del 1924, con la salute del tutto rovinata, Cottin tornerà più volte in prigione finché nel luglio del 1936 non partirà per la Spagna, unendosi alla Colonna Durruti. Morirà l'8 ottobre di quello stesso anno nei pressi di Huesca, sul fronte di Saragozza.
 

— Cottin, avete dei complici?
— Sì, signor giudice. Io ero un giovane pacifico e alieno dal sangue, e questo lo può domandare a chicchessia; ma appena scoppiata la guerra, cominciarono tutti a dirmi che bisogna uccidere. Io rispondevo di no; e allora mi davano del tedesco, del pacifista, del leninista, del disfattista, ecc.

L'ordalia

Contropelo

L'ordalia

V. B.

È il caso di lottare per una causa il cui successo appare improbabile? Quando questo interrogativo viene posto, mi stupisco sempre nell'udir rispondere con una negazione. No, se si arrivasse alla convinzione dell'insuccesso, se non si potesse ragionevolmente fare affidamento sul trionfo delle idee per cui ci si batte, nonché sulla loro felice applicazione nel corso della propria vita, allora tanto vale sforzarsi di godere piuttosto degli anni che rimangono, alla larga dalle delusioni quotidiane ma immersi nei piaceri dell'edonismo. Io confesso disposizioni opposte. Le possibilità variabili, sempre soggette a scommessa, dell'attuazione del desiderabile non mi sembrano prevalere contro il desiderio che è la mia sola preoccupazione.
Insomma, l'istanza del fatto mi separa da chi, pur in preda alla passione, invoca la razionalità come se avesse bisogno di un avallo.

Au pays des démocraties

Ostrogoto [fr]

Au pays des démocraties

« La question –dit Alice– est de savoir si vous avez le pouvoir 
de donner tant de significations différentes aux mots. 
La question –dit Humpty Dumpty– est de savoir 
qui commande, voilà tout. » 
 
 
Alice, idéaliste un peu ingénue, est en train de se demander ces jours-ci s’il est possible que le mot «terroriste» ait un autre sens, dictionnaire historico-éthique en main. Humpty Dumpty, matérialiste un peu mal dégrossi, lui répond que vu que c’est l’Etat qui commande, et vu que le langage appartient à celui qui commande, alors «terrorisme» signifie ce que veut l’Etat. Voilà tout. 
Dans les années 70, l’Etat accordait l’appellatif de «terroriste» à quiconque lui contestait le monopole de l’utilisation de la violence, c’est-à-dire employait des armes à feu ou des explosifs, surtout contre les participants d’organisations combattantes particulières, surtout si ces organisations étaient l’expression d’un plus vaste mouvement de contestation, surtout si cette contestation visait à déclencher une révolution. Pour l’Etat, c’étaient surtout ceux qui l’attaquaient les armes à la main qui étaient des «terroristes». 

Nel paese delle democrazie

Contropelo

Nel paese delle democrazie

 
«La questione — disse Alice — è sapere se hai il potere 
di attribuire alle parole tanti significati diversi.
La questione — disse Humpty Dumpty — 
è sapere chi comanda... tutto qui»
 

Alice, idealista un po’ ingenua, si sta chiedendo in questi giorni se è mai possibile che la parola «terrorismo» abbia un altro significato, dizionario storico-etimologico alla mano. Humpty Dumpty, materialista un po’ grezzo, le risponde che essendo lo Stato a comandare, ed essendo il linguaggio proprietà di chi comanda, allora «terrorismo» significa ciò che vuole lo Stato. Tutto qui.
Negli anni 70 lo Stato concedeva l’appellativo di «terrorista» a chiunque gli contendesse il monopolio dell’uso della violenza, ovvero utilizzasse armi da fuoco o esplosivi, soprattutto ai partecipanti di organizzazioni specifiche combattenti, soprattutto se quelle organizzazioni erano espressione di un più vasto movimento di contestazione, soprattutto se quella contestazione mirava a sfociare in una rivoluzione. Per lo Stato, «terrorista» era soprattutto chi lo attaccava a mano armata.

Punto e inizio

Brulotti

Punto e inizio

 

«Fate entrare l'infinito»
 

No, non c'è un usciere all'ingresso delle im-possibilità umane. Spetta a ciascuno di noi aprire quella porta. Scassinarla, al limite, per trovare una via di fuga da questo grande mondo istituzionale in decomposizione, da questo piccolo mondo rivoluzionario in putrefazione. Perchè le illusioni spacciate dal grande mondo sono scadute, come la mitopoiesi sciorinata dal piccolo mondo. In questo labirinto di riflessi non c'è libera uscita: c'è un pantano in cui si sprofonda, ci sono specchi su cui ci si arrampica. Si entra da esseri umani, e si rimane chiusi dentro da cittadini o da militanti. Annaspanti, senza aria, chi a elemosinare diritti ridicoli, chi ad amministrare rivendicazioni patetiche.
Alla fine dello scorso dicembre, il dado è stato tratto. Una pubblica delazione all'interno del “Movimento”. Con rare ammirevoli eccezioni, un silenzio assordante l'ha accompagnata nei primi giorni. Solo un'invasione di campo da oltre confine – certe fierezze, come certe vergogne, non hanno passaporto – ha smosso le acque. Anelito di vita o aria che gonfia un cadavere? Solo il tempo potrà dirlo. Nessun dubbio però: un Movimento che non si muove davanti ad un fatto simile è una scena, una messa-in-scena, con tanto di ruoli e pause e copioni da rispettare.
Facciamola finita con le ipocrisie. «Compagni! Non ci sono compagni. Io non vi amo. Potete vivere e divertirvi, per me fa lo stesso», diceva un poeta dandy e nichilista quasi un secolo fa. Lo ripetiamo noi oggi. È un vizio di forma, un difetto di linguaggio, che dà adito a tanti equivoci: «com-pagno» è chi mangia lo stesso nostro pane. Ebbene, noi non ne mangiamo di quel pane. A costo di morire di fame.
Non è questione di comunicati e contro-comunicati, di essere o di esserci, di agire o di fare, di bandiera nera o di bandiera rossa.

La Camaraderie

Brulotti

La Camaraderie

Emile Armand

Che si consideri l'anarchismo sotto qualsiasi aspetto, dal punto di vista il più ferocemente individualista o il più largamente comunista; che lo si guardi come un'etica puramente individuale o come una concezione unicamente sociale — la sua realizzazione è e resterà sempre d'ordine «umano», vale a dire che in Anarchia esistono ed esisteranno dei «rapporti fra gli uomini» come ne esistettero ed esistono in tutti gli ambienti sociali, qualunque sia la loro importanza.
Noi sappiamo che in Anarchia questi rapporti non sono determinati dalla coazione, dalla violenza, dalla legge; noi sappiamo ch'essi non sono sottoposti a sanzioni disciplinari o penali; noi sappiamo ch'essi ignorano l'intromissione nell'evoluzione altrui, la malevolenza, l'invidia, la gelosia, la maldicenza, noi sappiamo che in certi casi questi rapporti non potranno essere basati sul controllo dell'azione individuale, la loro consacrazione a una regola prestabilita di condotta unilaterale applicabile in tutti i casi e conveniente a tutti i temperamenti.

Così in ordine

Brulotti

Così in ordine

«La vita si espone alle intemperie.
La strada è nera per il vagabondo.
Le stelle lo guidano, si dice.
Senza dubbio, ma verso quale riparo?»
Stig Dagerman
 
 
Alcuni anni fa, nel corso di una intervista, ad una celebre e non più giovane rockstar newyorkese fu domandato se non avesse paura a vivere in una metropoli così violenta. Stupito, il cantante rispose: no, nient'affatto. C'era nato e cresciuto in quella città, la conosceva, ci era abituato e sapeva tenerla a bada. Ciò che lo spaventava, semmai, era ben altro. Ad esempio, ricordava il panico che lo assalì in Svezia quando, fermo davanti a un semaforo rosso con il motore dell'auto acceso, si accorse di essere stato circondato dagli altri automobilisti scesi dalle loro vetture (rigorosamente spente). Intendevano tutti chiedergli conto del suo comportamento perché in Svezia, davanti al semaforo rosso, bisogna spegnere il motore della macchina; altrimenti sono guai. «Ecco — disse la rockstar — quello mi terrorizza! La violenza, no».

Commemorazioni

Brulotti

Commemorazioni

Nessuna commemorazione.
Non è forse, la commemorazione, una delle formalità più rigorosamente osservate e più fruttifere della borghesia e del clericalismo? A persuadersene basta dare un'occhiata al calendario di gregoriana manipolatura, basta vivere in questa deliziosa società nella quale ci siamo vigliaccamente acconciati mentre pretendiamo combatterla e distruggerla e non sappiamo far di meglio che imitarne le consuetudini illudendoci di far cosa diversa col mutarne le forme.
Ma borghesi e preti hanno ben ragione di fare quel che fanno. Bisogna conservare innanzitutto le tradizioni, cioè le forme esteriori, per mantenere intatta lo sostanza del dominio. Mutare qualche parte delle consuetudini o regole significa cedere, cedere equivale a una confessione di debolezza; sdrucciolare per la china delle transizioni significa andar sino in fondo, perire. Lo sa bene la chiesa cattolica apostolica romana, che vive da secoli rigidamente chiusa nelle sue formule, nella sua morale, nelle sue leggi immutabili.
E le commemorazioni del mondo borghese e di quello religioso sono una speculazione proficua e per ciò rigorosamente osservate: sono la loro forza, il loro midollo spinale.

Rompiamo le righe

Papiri

Manifesto internazionale: Rompiamo le righe

Tutti in riga. Così ci vogliono, dal primo all'ultimo respiro. In riga nelle aule scolastiche, alle casse dei supermercati, sul posto di lavoro, incolonnati nel traffico, negli uffici della burocrazia, nei seggi elettorali... fino ad arrivare all'ultima riga, quella dei loculi nei cimiteri. Una intera esistenza trascinata così — muscoli scattanti solo negli inchini, cuori desideranti solo merci — nella sicurezza di una galera.
Perché è ad una galera che ormai assomigliano le nostre città, dove ogni spazio viene riprogrammato per essere sorvegliato, controllato, pattugliato. Gli abitanti sono come detenuti scortati dallo sfruttamento capitalista ed ammanettati dagli obblighi sociali, sempre sotto l’occhio di una telecamera, ad ogni passo, tutti con la stessa voglia di evadere da consumare davanti agli onnipresenti schermi. 
La nostra è una società carceraria che promette benessere ma mantiene solo massacri, come dimostrano i sogni naufragati di chi tenta di entrarvi e i corpi bombardati di chi si ribella alle sue porte. A neutralizzare chi si prende la libertà di non elemosinare e di aprirsi da sé la propria strada ci pensano i vari legislatori, magistrati, gendarmi, giornalisti.
Se a Bruxelles è in costruzione una nuova maxi-prigione, ad Atene viene imposto un regime di reclusione speciale ai prigionieri più riottosi; se a Parigi viene posta la prima pietra al nuovo Palazzo di Giustizia, a Zurigo e a Monaco sono in programma altri mostruosi Centri di Giustizia e Polizia. Se i poteri si accordano al di là delle frontiere per applicare strategie controinsurrezionali, i laboratori di ricerca e l'industria della sicurezza accelerano per fabbricare la pace sociale. E dappertutto, dalla Spagna alla Grecia passando per l'Italia, la repressione si abbatte su chi si è macchiato del crimine più intollerabile: farla finita con l'obbedienza e spronare gli altri a fare altrettanto. 
Ma le grandi opere della repressione non incontrano solo il plauso, il silenzio o la lamentela. Talvolta si scontrano anche con una ostilità risoluta e ardita, come sta capitando al più grande carcere belga in via di costruzione. Il suo cantiere deve ancora essere aperto che già la sua storia è costellata di azioni dirette contro tutti coloro che ne sono coinvolti, istituzioni pubbliche o aziende private. Dalla vernice ai sassi, dai martelli alle fiamme, dai danneggiamenti ai sabotaggi, è un universo d'attacco che straccia ogni codice penale, ogni calcolo politico, ogni accomodamento con lo Stato. E questa sete di libertà può diventare contagiosa. Ovunque.
 
L'essere umano non è nato per stare in riga, a capo chino, in attesa del permesso di vivere.
Sollevare la testa, armare il braccio e sfidare il potere: è qui che inizia la vita, nel far saltare tutte le righe.
 
 
[Il manifesto cartaceo si può richiedere a finimondo@riseup.net
Altre versioni: breakranks.noblogs.org]

Distrutto, come al solito

Brulotti

Distrutto, come al solito

Aldous Huxley

La nostra guida per le vie intricate di Gerusalemme era un giovane cristiano, profugo dall'altro lato del muro che ora divide la città antica da quella nuova, lo Stato chiuso della Giordania dallo Stato chiuso d'Israele. Era un giovane malinconico e amaro. Aveva ben motivo d'esserlo. I suoi sogni erano stati infranti; la sua famiglia, un tempo agiata, era caduta nella più squallida miseria. Erano stati privati di casa e terre; il loro capitale in banca era stato svalutato. In tali circostanze, quel che destava meraviglia non era la sua amarezza, bensì la malinconica rassegnazione da cui questa era mitigata.
Era una buona guida, fin troppo buona direi, perché era davvero spietato nella sua idea fissa di farci visitare tutte quelle deplorevoli chiese costruite nel diciannovesimo secolo sulle rovine dei precedenti luoghi di pellegrinaggio. Vi sono turisti che traggono il massimo piacere da un viaggio attraverso reminiscenze storiche e la propria immaginazione. Io non sono uno di quelli. Se viaggio, mi piace muovermi in mezzo a cose che abbiano un'importanza intrinseca, non in uno spazio astratto popolato soltanto di riferimenti letterari, monumenti vittoriani e congetture di archeologi.

Auschwitz - Hiroshima

Brulotti

Auschwitz - Hiroshima

Gunther Anders

No, anche se non sarà Auschwitz a distruggere il mondo bensì Hiroshima, da un punto di vista morale Auschwitz è stato incomparabilmente più orribile di Hiroshima. Lo sottolineo perché, sfogliando i miei appunti, sono sfiorato dal sospetto di essermi accostato ad Auschwitz con il pregiudizio che quella che consideriamo una forma di genocidio valga anche nell’altro caso. Non è vero. Al confronto dei responsabili di Auschwitz – e furono molte migliaia – i piloti che volarono sul Giappone furono degli angeli. Se sia stato un «passo in avanti» è un’altra faccenda.
Nel caso di Hiroshima – e ciò vale per gli odierni «missili nucleari» più ancora che per le bombe del 1945, pur sempre sganciate dall’alto sui luoghi di morte – ci fu per così dire solo il bottone premuto: uomini che rimasero dunque molto distanti dagli effetti del loro gesto (in questo caso, dal mero azionare la leva), distanti come oggigiorno è distante dai risultati finali del suo lavoro il 99 per cento dei lavoratori. Di fatto, con l’invenzione dei missiles il concetto di luogo del crimine ha perso di significato. In origine l’espressione definiva il luogo dell’azione e della sofferenza. Questa syntopia – il cui superamento ha avuto inizio con la scoperta delle armi da fuoco – si realizza ormai molto di rado. Un missile lanciato dall’Oceano Pacifico può produrre i suoi effetti in Siberia. Dov’è dunque il luogo del crimine? Qui o là?

A proposito di patria

Brulotti

A proposito di patria

Georges Henein

Mi si dice: «Se non rispetta la patria, lei è un anormale o un degenerato».
Io rispondo: «Prima di rispettare qualcosa, ci tengo a conoscere il suo contenuto. Vi prego, spiegatemi che cos'è la patria».
Qui, imbarazzo, confusione, retorica. Per gli uni la patria è il luogo, e più generalmente il paese dove si è nati. Capisco, ma allora constato che il fatto di nascere in un luogo piuttosto che in un altro è puramente accidentale, e non potrebbe bastare a determinare nell'uomo una preferenza inevitabilmente arbitraria. Se il luogo in questione ha un valore d'attrazione, lo ha per tutti e non per uno solo, lo ha indipendentemente dall'evento che crea un legame artificiale fra l'uomo e il luogo. Dal momento in cui la patria è soltanto un locale, rivendico il diritto di disprezzare questo locale, anche se fossi costretto a viverci.