Autopsia

Poiché dietro ad ogni idea c'è un essere umano in carne ed ossa, talvolta le nostre attenzioni non possono fare a meno di rivolgersi ad personam. Troppo facile offuscare le peculiarità individuali negli anfratti del consesso sociale. Se non si vogliono coltivare pregiudizi, spregiativi o apologetici, né ci si vuole adagiare in una comoda indifferenza, non resta che accogliere con il bisturi in mano le parole di ogni potenziale Maestro.

La critica del marxismo in Simone Weil

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La critica del marxismo in Simone Weil

Simone Pétrement
 
Il tema fondamentale della raccolta di saggi di Simone Weil recentemente pubblicata sotto il titolo Oppressione e libertà è l'esame critico del marxismo. Fu nel primo studio Prospettive (apparso nel 1933 sulla Révolution prolétarienne con il sottotitolo Andiamo verso la rivoluzione proletaria?) che si rivelò, secondo alcuni, il genio di Simone Weil. A diversi testi più brevi fa seguito il grande saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione, di cui alcuni conoscevano l'esistenza, ma che non era mai stato pubblicato. In questo studio di mirabile densità e forza, che Simone Weil chiamava la sua «grande opera», il suo «testamento» (lo scrisse prima di entrare in fabbrica), rammaricandosi in seguito di non averlo pubblicato, la critica del marxismo è abbinata all'analisi del progresso tecnico e delle condizioni di una società libera. I frammenti e saggi che seguono, tutti inediti, ne rappresentano, per la maggior parte, una elaborazione di dettaglio, un approfondimento dell'uno o dell'altro punto (alcuni particolarmente vigorosi e belli, come per esempio il frammento intitolato Le contraddizioni del marxismo e la Meditazione sull'obbedienza e la libertà). Infine, poco prima della sua morte, Simone Weil aveva iniziato a Londra il saggio incompiuto che doveva chiudere la raccolta e aveva per titolo Esiste davvero una dottrina marxista?

Lo spettacolo e le macerie

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Lo spettacolo e le macerie

(L’Internazionale Situazionista ed il Maggio 68)

 
Se La società dello spettacolo di Guy Debord è reputato il testo che meglio ha saputo esprimere in maniera compiuta la critica formulata dai situazionisti al mondo esistente, il movimento delle occupazioni del maggio 68 in Francia viene considerato l’apice della loro pratica, il loro ingresso nella Storia. Ad una storiografia accademica che ha intenzionalmente ignorato o minimizzato il ruolo svolto dall’IS nella genesi e nel successivo sviluppo di quella primavera di liberazione, preferendo puntare i suoi riflettori sul più presentabile “Movimento 22 marzo”, se n’è via via contrapposta una pro-situs che, invertendo la tendenza, si è prodigata per innalzare un monumento ai suoi beniamini.
Ma non è difficile accorgersi come la cattiva reputazione che i situazionisti si vantano di godere presso il pubblico ogni qualvolta vengono rievocate quelle giornate di maggio sia in gran parte costruita a tavolino, frutto di un banale sillogismo che a furia d’essere ripetuto si è consolidato in verità acquisita.

Decrescita o...?

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Decrescita o amministrazione della catastrofe?

Jaime Semprun e René Riesel
 
Se ci si attenesse alla formula di Paul Nougé «l’intelligenza deve avere un mordente. Essa attacca un problema», si sarebbe tentati di non accordare che una intelligenza assai mediocre a Serge Latouche, principale pensatore della «decrescita», quell’ideologia che si spaccia per critica radicale dello sviluppo economico e dei suoi sottoprodotti «durevoli». Egli fa mostra di un talento invero professionale, che confina in qualche caso col genio, nell’offuscare tutto ciò che tocca e trasformare qualsivoglia verità critica, una volta tradotta in neolingua decrescente, in banalità insipida e benpensante. Non è il caso tuttavia di attribuirgli tutto il merito di una insulsaggine sdolcinatamente edificante che è soprattutto il risultato di una sorta di politica: quella con cui la sinistra della perizia cerca di mobilitare truppe radunando tutti coloro che vogliono credere nella possibilità di «uscire dallo sviluppo» (vale a dire dal capitalismo) permanendo al suo interno.

Bakunin e la sua Confessione

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Bakunin e la sua Confessione

Fritz Brupbacher
Quando Bakunin fu escluso dalla Prima Internazionale, le Federazioni nazionali del Belgio, dell'Olanda, della Spagna e dell'Inghilterra lo seguirono, così come considerevoli minoranze di altri paesi. Bakunin era allora una potenza nel movimento rivoluzionario proletario.
Oggi, tra i proletari, lo stesso Bakunin, e con lui l'anarchismo, sono quasi completamente dimenticati.
Il ricordo di Bakunin è scomparso via via che scomparivano nel proletariato certe tendenze psicologiche. Diciamolo subito: via via che si è sviluppata la grande industria, è scomparsa nel proletariato l'aspirazione alla libertà, alla personalità; — le tendenze libertarie e anarchiche del bakuninismo si sono via via cancellate, insieme al ricordo di Bakunin.
Non solo è scomparso il desiderio della libertà, ma è stato riservato un vero odio a tutti coloro che continuano a volere la libertà dell'individuo: quest'odio è di conseguenza rivolto contro Bakunin e le sue dottrine. È lo stesso odio che ha generato le calunnie sparse contro la sua persona.
Dato che la grande industria ha ucciso la volontà di essere liberi, la schiavitù ha generato nei proletari la volontà di potere, non soltanto la volontà di esercitare il potere politico a spese della borghesia, ma la volontà di potere in se stesso, la sete di imporre il proprio potere su tutto ciò che ha aspetto umano. 

Apologia di Émile Henry

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Apologia di Émile Henry

Introduzione a Coup sur coup

 
Émile Henry, considerato il più terribile degli anarchici dinamitardi francesi, autore dell'attentato in rue des Bons-Enfants (sei morti, quasi tutti poliziotti) e di quello al Café Terminus di Parigi (una ventina di feriti, uno dei quali poi deceduto), salì sul patibolo il 21 maggio 1894. Coup pour coup, il primo libro a tracciare la sua breve vita ed i fatti che lo videro protagonista, è stato pubblicato in Francia per la prima volta nel febbraio 1977. Nel mezzo, lunghi decenni di imbarazzo e di rimozione da parte dei tenutari del movimento rivoluzionario, perennemente ossequiosi nei confronti della politica ed ossessionati dalla ricerca del consenso. Intere generazioni di militanti, pettoruti leaderini o umili gregari, timorosi di attirare su di sé l’attenzione della repressione e vogliosi solo di marciare al passo delle masse, hanno amputato la testa ardente di Henry meglio di quanto aveva fatto la ghigliottina di Deibler.
Per rendersene conto basterebbe dare una scorsa ai titoli presenti all'Istituto di Storia Sociale di Amsterdam. Dando per buona la completezza dei suoi archivi, le parole pronunciate da Henry nell'aula del tribunale vennero stampate sotto forma di opuscolo a Bruxelles nel 1894 e ripubblicate una sola volta, quasi venti anni dopo. Dopo di che, l'oblio. Per lungo tempo il nome di Émile Henry è pressoché sparito dalla memoria attiva dei nemici di questo mondo (ricordato con affetto da singoli compagni, evocato ed esorcizzato per mestiere da rinomati storici), sepolto dalle contumelie dei suoi numerosi critici.

Jean Meslier, un curato anarchico

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Jean Meslier, un curato anarchico

Arthur W. Uloth

Il nome di Jean Meslier è poco conosciuto nel nostro paese, ed anche in Francia non occupa la posizione che gli spetta nell’evoluzione del pensiero libertario. La sua reputazione è quella di un anticlericale, o di un libero pensatore che precorre il proprio tempo. Le sue vedute sullo Stato e il suo odio per quasi tutte le forme di autorità sono del tutto sconosciute. Il suo Testamento trova ancora lettori, ma è un lavoro incompleto che esprime solo la metà di ciò che fu scritto nel testo originale.
Meslier nacque nel 1664 a Mazerny, nel ducato di Rethel. I suoi genitori erano benestanti; suo padre era un mercante di stoffe. In famiglia c’erano molti ecclesiastici, alcuni dei quali assurti ad alte cariche nella chiesa. Ma Meslier non avvertiva alcuna vocazione, e aveva ben poco entusiasmo per il sacerdozio, e perciò non fu esercitata nessuna pressione contro la sua volontà. Tuttavia — come racconta egli stesso — decise di far parte della chiesa per far piacere ai suoi genitori, e senza dubbio anche perché condivideva la loro opinione che quella fosse «una condizione di vita più comoda, più pacifica e più onorata che non quella di molti uomini».

Da Ret Marut a B. Traven

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Dal rivoluzionario braccato Ret Marut allo scrittore di successo B. Traven

Charles Reeve

Oggi, tra i lettori de La nave morta e La rivolta degli impiccati, quanti sanno che Traven fu anche Ret Marut, associato alle correnti radicali degli avvenimenti rivoluzionari degli anni venti in Germania? Nel 1926, in una lettera all'editore tedesco de La nave morta, Traven scriveva: «Diciamolo chiaramente. La biografia di un creatore non ha la minima importanza. (...) L'uomo creativo non dovrebbe avere altra biografia che le sue opere». Poiché, alla vigilia della sua morte, B. Traven riconoscerà di essere Ret Marut, è impossibile leggerlo senza tener conto dell'itinerario di Ret Marut e dei testi che ha scritto sotto questo nome. La sua biografia deve includere il periodo della rivoluzione tedesca degli anni 20. E ci vuole un sacco d'ignoranza, di stupidità o di malafede per continuare a presentarlo in primo luogo come «uno scrittore senza biografia, senza identità, come molti dei suoi personaggi» (Le Monde, 29 ottobre 2004).

Su Omar Khayyam

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Un algebrista lirico: Omar Khayyam

Armand Robin
 
C'era una volta sulla terra un uomo che scrisse circa 180 quartine, che sono il capolavoro del genere, per tentare di farci credere che per tutta la sua vita non abbia fatto altro che bere, bere, che essere ubriaco fradicio giorno e notte:
 
«Tanto e tanto vino berrò, che dalla tomba,
Quando sottoterra andrò, ne verrà l’odore,
Perché, se a quell'avel giungerà un beone,
Al profumo di quel vino ebbro diventerà.

La maschera di Lenin

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La maschera di Lenin

G. P. Maximoff

La grande rivoluzione russa del 1917-21 fu dapprima una rivoluzione quasi incruenta. Al principio, nulla faceva presagire che sarebbe divenuta così sanguinosa e che avrebbe preso un posto primario per la sua insensata crudeltà nella storia umana. Questa svolta della rivoluzione rossa verso un'illimitata distruzione di vite è uno dei tanti paradossi della storia, perché il tratto caratteristico delle masse lavoratrici russe è la gentilezza, l'umanità, l'amore per il prossimo, evidente perfino nel trattamento dei criminali, che dal popolo russo eran sempre considerati degli «sfortunati». Il socialismo russo, il socialismo di Cernicevski, di Bakunin, di Lavrov, di Kropotkin, di Micailovski, era — nelle sue diverse fisionomie — sempre basato sulle idee della libertà individuale, del federalismo comunale e regionale. Il giacobinismo, col terrore e la centralizzazione, non ha mai avuto successo in Russia: Ciachev, ad esempio, è sempre rimasto fuori della gran corrente del socialismo russo, che è sempre stata libertaria e progressiva. Note reazionarie cominciarono ad udirsi nel socialismo russo con l'apparizione in Russia del marxismo politico.

Il Testamento di Victor Serge

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Il Testamento di Victor Serge

Idealizzazione post-mortem del bolscevismo

André Prudhommeaux

La tesi fondamentale dell'articolo testamentario di Victor Serge, pubblicato su La Révolution prolétarienne n. 309 (nov. 1947), è che il Bolscevismo sia morto assassinato tra il 1927 e il 1937. La rotta staliniana attuale, che Victor Serge definisce «totalitarismo», «non ha niente in comune», egli dichiara, «con l'opera feconda e magnifica di Lenin, Trotsky od i loro compagni». «La confusione tra le due è un paradosso falso e pericoloso».
Il primo dovere di un autore che si sforza di dissociare il bolscevismo dal totalitarismo staliniano è ovviamente quello di definire il contenuto di questi due termini — nel modo più esatto possibile — e di opporre tratto per tratto, nella loro realtà concreta, i due «fatti» considerati antagonistici.
Victor Serge dà una definizione, quella di stalinismo; ma si astiene dal dire in che cosa il bolscevismo se ne distingua...

L'impostura Heidegger

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L'impostura Heidegger

Max Vincent

Questo testo critico su Martin Heidegger difficilmente potrà insegnare qualcosa di nuovo a chi segue l'attualità heideggeriana da una decina di anni. Vorrei dire che si rivolge in primo luogo a quei lettori talmente disgustati dal gergo filosofico di Heidegger al punto da far loro «cadere dalle mani» i suoi libri, ma anche a chi si proibisce di leggere Heidegger per le note ragioni «politiche». Ciò per confortare all’occorrenza la scelta degli uni o degli altri, sostenendola, e per contribuire a spiegare meglio entrambe queste forme di rifiuto. Tuttavia non escludo che L'impostura Heidegger, come un messaggio chiuso in una bottiglia lanciata in mare, possa trovare un destinatario a cui non era destinato. Essendo state ridistribuite le carte in questo inizio del XXI secolo, forse questi improbabili lettori considereranno con altri occhi l'attuale partita che si presenta loro, per riconoscere finalmente che prima le carte erano state truccate.
Comunque sia, in questo genere di esercizi — simile al lavoro di un montatore cinematografico — è importante scegliere bene l'ordine delle sequenze attraverso cui si organizza il film Heidegger, quello di una impostura intellettuale e filosofica senza pari nel XX secolo (impostura non imputabile unicamente all'autore di Essere e tempo, ma anche agli heideggeriani più fedeli).

Bakunin

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Michele Bakunin

Severino Di Giovanni

Tre diverse teorie sociali si delinearono nello scorso secolo: il repubblicanismo mazziniano, il socialismo autoritario marxista e l'anarchismo bakuninista. Tre pensieri, tre uomini, tre coscienze, ma sul campo della lotta, nell'agitazione per conquistare la vita ai loro ideali, solo Michele Bakunin seppe dare tutto se stesso per il suo ideale. Se i mazziniani vogliono far splendere il loro apostolo come un combattente delle barricate, ebbene la barricata nella quale pugnava Mazzini divideva l'uomo dalla libertà di frontiera, schiavizzandolo sotto una bandiera nazionale; mentre nelle insurrezioni in cui combatteva, Michele Bakunin non divideva l'uomo in nazionalismi e in religioni, ma bensì l'univa oltre le bandiere, oltre le razze, oltre gli altari, per la fratellanza umana.

John Brown

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Apologia per John Brown

Henry David Thoreau

Confido che mi perdonerete, se sono qui. Io non vorrei imporvi le mie opinioni ma sento che qualcosa viene imposto a me stesso. Per quanto poco io sappia del Capitano John Brown, sarei felice di dare il mio contributo per correggere il tono e le dichiarazioni dei giornali, per quanto riguarda il suo carattere e le sue azioni. Non ci costa niente essere giusti. Possiamo almeno esprimere la nostra simpatia e la nostra ammirazione per lui e i suoi compagni, e questo è quello che ora mi propongo di fare.
Per quanto riguarda la sua storia, prima di tutto, cercherò di sorvolare, per quanto posso, su ciò che di lui voi già conoscete per averlo letto. Non occorre che vi descriva la sua persona fisica, perché probabilmente la maggior parte di voi l’ha visto, e non la dimenticherete tanto presto.

Rabelais

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Il pensiero libertario di Rabelais

Hem Day

Non bisogna cercare di scoprire nell'opera di Rabelais ciò che non vi è ed ancor meno non bisogna cercare di far dire a Rabelais quello che non ha mai detto e scritto.
Ciascuno ricordi il prologo di Gargantua:
«Bisogna aprire il libro e pensare attentamente ciò che vi è raccontato. Allora voi conoscerete che la droga che vi è racchiusa ha un valore ben diverso di quello che la scatola prometteva: cioè che la materia che vi è trattata non è così leggera come il titolo pretendeva».
Se per esaltare questo grande uomo, si dovesse piegare il suo pensiero agli imperativi di una dottrina sociale, filosofica od etica – fosse pur essa anarchica – sarebbe meglio rinunciarvi subito, perché si commetterebbe la peggiore aberrazione e l'insulto che si farebbe a Rabelais ricadrebbe immancabilmente sul nostro ideale al quale renderemmo il peggiore dei servizi.
Per questo io cercherò di estrarre da questa sostanziale materia, tutto quello che può arricchire le nostre idee, tutto quello che può risvegliare risonanze amiche e fraterne con il nostro pensiero anarchico, eternamente sveglio ed alla ricerca costante di tutto ciò che può vivificarlo ed abbellirlo.

Gli abiti nuovi di Alain Badiou

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Gli abiti nuovi di Alain Badiou

Séverine Denieul

Il minimo che si possa dire è che, coi tempi che corrono, è quasi impossibile non inciampare sull’ultima opera in ordine cronologico di Alain Badiou. Autore prolisso quanto mai, si vede affabulato da un numero incalcolabile di titoli o definizioni che alla lunga sembrano essere riusciti a convincere il grande pubblico dell’importanza della sua opera: «maître à penser», «pensatore radicale», quando non «chirurgo del concetto» (Rémy Bac), nessuno rinuncia a concedere al filosofo uno statuto d’eccezione. La sua volontà dichiarata di «rifondare la filosofia» lo porta a coprire tutti i campi del sapere: la politica, l’estetica, le matematiche, la letteratura attraverso il romanzo, la poesia o la scrittura di testi teatrali. Autore di opere su Beckett, ma anche su Platone, Wittgenstein e San Paolo, Badiou incarna nei media il pensatore «geniale» capace di mettere in parallelo nozioni complicate con opere molto differenti tra loro. Erede della filosofia “continentale” più astrusa (Heidegger, Lacan, Althusser), Badiou ha in effetti quella forma di spirito particolare, così caratteristica della nostra epoca, che consiste nell’incrociare nozioni e ambiti distanti le une dagli altri per farne una sintesi «personale» che, lungi dal chiarire i problemi, li rende ancora più oscuri. È il caso, ad esempio, dell’accostamento che opera fra il marxismo, la psicanalisi e la matematica.

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