Intempestivi

Quando una miserabile attualità urla la sua urgenza, il solo modo per rimanere fuori dal coro è quello di prenderla controtempo. Cercare in essa il lato sconveniente e inopportuno, anziché specularci sopra come avvoltoi. Per sottrarsi ad ogni convenienza e ad ogni opportunismo, per schiudere orizzonti imprevisti e infiniti. I momenti più cruciali della realtà quotidiana, visti però con gli occhi incantati dell'irrealismo.

Se coincidenze

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Se coincidenze

C'è da dare i numeri. Tre giorni fa, martedì, l'apparato giudiziario dello Stato si è mosso a Torino, bussando alle porte di sovversivi vari, sia anarchici che comunisti (ammesso che questa distinzione abbia ancora un senso). L'inchiesta, che prende di mira le lotte contro gli sfratti, ha portato a 29 misure cautelari e vede oltre cento inquisiti.
Due giorni fa, mercoledì, l'apparato giudiziario dello Stato si è mosso a Venezia, bussando alle porte di politici e imprenditori vari, sia di destra che di sinistra (ammesso che questa distinzione abbia ancora un senso). L'inchiesta, che prende di mira appalti e mazzette legate a una grande opera, ha portato a 35 misure cautelari e vede oltre cento inquisiti.
Questo è il messaggio, fin troppo ovvio: lo Stato c'è e non guarda in faccia a nessuno. La Giustizia è uguale per tutti! Non importa se occupate case per non morire di freddo, o vi prendete tangenti per mangiare caviale: ciò che importa è il rispetto della legge.

Finzioni

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Finzioni

La decomposizione avanza, l'apparenza incalza. I risultati delle elezioni europee ne sono un folgorante esempio. Il partito che finge d'essere di sinistra esulta fingendo di aver raccolto il consenso della stragrande maggioranza degli italiani. Il partito che finge d'essere all'opposizione si dispera fingendo di aver creduto davvero di poter toccare le stelle rotolandosi nelle stalle. Il partito che finge d'essere liberale medita fingendo di cercare una nuova classe dirigente. Il partito che finge d'essere radicale festeggia fingendo che quello 0,3 % in più che gli ha permesso di sedere sugli scranni di Bruxelles sia una investitura popolare.
Nel mare in tempesta della disperazione sociale e della miseria affettiva, i salvagenti della politica si stanno sgonfiando uno dopo l'altro. Nemmeno la servitù volontaria di milioni di esseri umani belanti più diritti e più democrazia riuscirà a salvare questo mondo, la cui agonia sta già assumendo tratti terribili.

La scelta

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La scelta

Uno scellino. Nell'Inghilterra del passato, culla del capitalismo, era il valore minimo che un bene rubato doveva avere per mandare il ladro sul patibolo. Ed è proprio a causa di questa legge che verso il 600-700 nacque e si diffuse fra la plebe l'espressione «may as well be hanged for a sheep as a lamb», ovvero: si può essere impiccati sia per una pecora che per un agnello. Nel senso che, poiché per i poveri il furto era sovente il solo modo per sopravvivere, tanto valeva rubare una grassa pecora invece di un piccolo agnellino. La condanna sarebbe stata la medesima.
Restando in Inghilterra, ma facendo un salto di qualche secolo, ci viene da pensare a quanto accadde dopo la grande rapina del treno Glasgow-Londra, avvenuta nell'agosto del 1963. Una rapina clamorosa, passata alla storia, compiuta da persone armate solo di un paio di spranghe, senza l'uso di armi da fuoco.

Inutili cerimonie

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Inutili cerimonie

 
«E i padroni stessi ammettono che, se un servitore viene quando è chiamato, basta»
Jonathan Swift
 
 
No, non viene più, ma basta lo stesso. In fondo andare è una perdita di tempo, le istruzioni alla servitù vengono diffuse in tutte le stanze dell'edificio sociale attraverso enormi amplificatori. Sono sempre le stesse, giorno dopo giorno, immutabili, mandate ormai a memoria. Allora, a cosa servono gli appelli ufficiali per inutili cerimonie? A nulla e lo sanno bene tutti, servitori e padroni.

A dimostrarlo è una curiosa concomitanza di fatti appena accaduti. Il giorno in cui sono stati resi pubblici i dati sulle elezioni regionali in Sardegna è anche il giorno in cui è stato nominato il nuovo capo del governo.

Non chiamateli mostri

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Non chiamateli mostri

«I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere...»
(Primo Levi, Se questo è un uomo)
 

I mostri, questi esseri dalle passioni abnormi, sconvolgono la quiete e turbano gli animi. Provocano orrore. Anche se talvolta suscitano curiosità, e magari pure simpatia, la loro è un'esistenza solitaria. Nessuno ama stare a lungo accanto ad un mostro, contro cui prima o poi si apre la caccia. Ecco perché non sono «davvero pericolosi». Gli esseri comuni, invece, quegli uomini e quelle donne che eseguono solo gli ordini, che fanno solo il loro dovere, che non hanno passioni interiori, solo pressioni esteriori — loro sì che sono pericolosi. Sono pericolosi perché hanno alle spalle una società intera.
Quando un mostro è assetato di sangue, come Jack lo Squartatore, ammazza cinque o sei persone. Un funzionario non è mai assetato di sangue. E quindi, come ad esempio un generale, massacra centinaia di migliaia di persone senza emozione.

Si va o si fischia?

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Si va o si fischia?

«Dove c'è rivoluzione, c'è confusione.
Dove c'è confusione, un uomo che sa ciò che vuole
c'ha tutto da guadagnare»

 

Davanti ai disordini che in questi giorni hanno turbato molte strade d'Italia, i militanti sono perplessi. Di fronte a questi blocchi, a questi assalti, a questi scontri, messi in atto da chi è distante anni luce da ogni tensione sovversiva, viene subito loro in mente il celebre interrogativo: che fare?
Si va o si fischia? – Magari, si va e si fischia. Anzi no, si fischia e non si va. Mah, e se invece si va, prima si fischia e poi si applaude?
Da una parte, quella del non-si-va, non ci sono dubbi. Questi forconi che si incrociano coi tricolori, questi manifestanti che applaudono la polizia, questo miscuglio di commercianti impauriti per i loro profitti calanti, di fascisti bramosi di cavalcare la tigre e di ultras con qualche prurito alle mani, tutto ciò non è e non può essere roba nostra.

10, 100, 1000 Nassiriya

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10, 100, 1000 Nassiriya

Una data fa da spartiacque. Dal 12 novembre 2003 la popolazione italiana si è ulteriormente spaccata in due. C’è una maggioranza che ha pianto la morte dei diciannove militari saltati in aria nell’attentato avvenuto a Nassiriya: un lutto nazionale, secondo giornalisti ed istituzioni. A morire tragicamente, in quella terra lontana, sono stati i “nostri ragazzi”. Italiani, come noi, che vivevano accanto alla nostra porta di casa, mangiavano lo stesso nostro cibo preferito, tifavano per la nostra stessa squadra del cuore. Morti, uccisi barbaramente da stranieri, dalla lingua incomprensibile, dai costumi sconosciuti, dai gusti discutibili. Le loro bare ricoperte dallo straccio tricolore, le lacrime dei loro familiari, filmate e mostrate infinite volte nel tentativo di suscitare unanime cordoglio. Eppure c’è anche — una minoranza, certo! — chi non ha pianto affatto, anzi, ha esultato alla notizia dell’attentato. E da allora continua a gioire ogniqualvolta un militare italiano viene messo nell’impossibilità di proseguire le proprie “missioni” all’estero.

La torta intera

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La torta intera

Dallo sciopero selvaggio all'autogestione generalizzata – un sogno che ha titillato molti sovversivi del passato, e che sta titillando anche molti sovversivi del presente.
Dopo gli autisti dei trasporti pubblici di Genova, quelli di Firenze; dopo Firenze, l'Italia?
Che esempio straordinario sarebbe. I lavoratori che, vessati dalle brame padronali e stanchi dell'impotenza sindacale, scavalcano i loro inutili rappresentanti per riunirsi finalmente in assemblea e decidere da soli in quale energica maniera costringere i padroni a... rispettare il loro diritto a briciole di sopravvivenza.
Perché, per quanta retorica si possa fare sulle forme assunte da queste lotte, resta comunque il problema del contenuto. E non si tratta nemmeno del limite delle rivendicazioni riformiste.

Non diamo i numeri

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Non diamo i numeri

Invece si continua a darli! Se fosse solo per andare alla ricerca della fortuna, sarebbe poco male.
Purtroppo si insiste a concedere al numero un potere persuasivo, una capacità probatoria.
E ciò rende il suo ricorso non solo privo di senso e magari imbarazzante, come abbiamo già avuto modo di notare, ma talvolta financo odioso. Due recenti notizie lo dimostrano ampiamente.
Per lo scorso 25 novembre era stata proclamata la «giornata mondiale contro la violenza sulle donne».
Probabilmente sull'onda (mediatica) dello stillicidio di molestie, aggressioni, stupri, violenze, omicidi subite dalla metà del cielo umano c'è chi (l'ONU) ha pensato bene di indire una simile ricorrenza.
Il fatto, in sé, non avrebbe attirato la nostra attenzione se non fosse stato accompagnato qui in Italia da una martellante, quanto curiosa, quanto disgustosa propaganda.

Al lupo, al lupo?

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Al lupo, al lupo?

Lo scorso 30 ottobre si è aperto presso il tribunale di Genova il processo contro i due anarchici accusati del ferimento dell'amministratore delegato dell'Ansaldo Nucleare, avvenuto nel capoluogo ligure il 7 maggio 2012. La presenza degli imputati in aula non è durata a lungo, giusto il tempo di iniziare a rivendicare apertamente la responsabilità dell'azione. Ad ogni modo le loro dichiarazioni scritte sono state rese pubbliche nelle ore successive. Alfredo Cospito e Nicola Gai non sono quindi innocenti, non sono vittime di una montatura poliziesca. Sono stati effettivamente loro ad aspettare sotto casa il trafficante di uranio Roberto Adinolfi per regalargli un po' di piombo.

Sono colpevoli. Colpevoli di essere andati a cercare il nemico, di averlo trovato, di averlo studiato, di averlo atteso, di averlo colpito.

Nucleare mai più

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Nucleare mai più

Delittore Gavia

Il movimento antagonista è chiamato, sul fronte della lotta contro il nucleare, a fare delle scelte di primaria importanza.

I sostenitori di una opposizione morbida, legata alle proposte di referendum [1987], cercano di portare questa lotta nell’ambito istituzionale, adottando le forme del dissenso democratico-radicale. In senso contrario si pongono gli antagonisti, i quali, molto più coe­rentemente, indicano nella scelta dell’opposizione dura la strada da praticare e ciò perché ritengono indispensabile che la lotta si incentri sull’attacco diretto contro gli attuali rapporti di dominio, spingendo gli sfruttati alla conflittualità permanente. È proprio su questa conflittualità, sostengono gli antagonisti, che si può rivendicare non solo un’autonomia del movimento degli sfruttati, ma anche il suo libero sviluppo in senso antistituzionale e anticapitalista in tutte le situazioni di lotta nel territorio.

Limitare il problema antinucleare alla chiusura delle centrali elettronucleari in funzione o ad impedire quelle in costruzione, significa non scalfire lo sviluppo della tecnologia dell’atomo. Infatti, la critica antinucleare si è finora per lo più limitata al dettaglio, puntando su argomentazioni superficiali come quelle che riguardano i rischi dell’uso civile dell’atomo dal punto di vista biologico ed ecologico, oppure limitandosi a criticare una scelta del genere da un punto di vista economico perché non produttiva. L’analisi sociale del problema è rimasta in ombra o è stata trattata marginalmente. È su quest’ultima che secondo noi bisogna centrare l’attenzione.

Politica o etica?

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Politica o etica?

Dunque, la tecnica ha ucciso l'etica. Davanti ad una qualsiasi questione, l'essere umano non si chiede più cosa è giusto, ma cosa funziona. Non se lo chiede più perché ormai, nel nostro mondo dominato in ogni suo aspetto dalla tecnica, viene dato per scontato che giusto è ciò che funziona. Le idee diventano strumenti, da valutare non per il loro significato ma per il loro modo d'uso, per la funzionalità, per l’efficienza. Tutto ciò, come è stato più volte denunciato, è sicuramente una delle conseguenze dell'intromissione in ogni ambito dell'esistenza umana della tecnica. Ma sarebbe un errore credere che ciò sia riscontrabile solo in questi ultimi decenni infestati da computer e telefoni cellulari, schermi al plasma ed immagini tridimensionali.
Cos'altro è la politica se non la tecnica applicata all'azione trasformatrice dei rapporti sociali? E si pensa davvero che nel lontano passato non si sia seguita questa stessa logica? Si pensa davvero che la tara politica infesti solo la classe dirigente, uomini e donne assetati di potere, e non chiunque è pronto a scendere a compromessi con l'etica?

Assassini!!!

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Assassini!!!

L’ennesima strage si è compiuta nel Mediterraneo, l’ultima di una lunghissima serie che da anni insanguina i mari che circondano l’Italia. Ancora una volta si sono levate alte le voci di pietà di tutta la società civile; ancora una volta si sono alzati cori di sdegno da parte delle varie forze politiche, ancora una volta giornali e tv si sono scagliati ferocemente contro il racket che organizza i cosiddetti “viaggi della speranza” e contro gli scafisti senza scrupoli. Ancora una volta, degli esseri umani in cerca di una esistenza da vivere dignitosamente ci hanno rimesso la vita: tutti si indignano, ma allo stesso tempo distolgono l’attenzione e si guardano bene dall’indicare i reali responsabili di queste tragedie che si susseguono intorno alle nostre coste.

Per grazia ricevuta

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Per grazia ricevuta

«All'Italia serve una rivoluzione e non una scossettina». Giusto, era ora che qualcuno lo dicesse!
Ma chi lo ha detto? È Matteo Renzi, il sindaco piacione di Firenze futuro leader del centrosinistra, quello talmente reazionario da risultare antipatico persino a molti suoi elettori. Quindi aggiunge di volere che «il governo vada avanti, tutto sommato se fa le cose per bene, davvero, bisogna continuare a dare una mano».
«Ragazzi, siate ribelli e non accettate le cose come sono. Cambiate questo mondo, è lì che vi aspetta». Sì, siamo d'accordo! Ma chi lo ha detto? Il ministro dell'istruzione Maria Grazia Carrozza, in occasione della sua visita ad un liceo romano distrutto tempo fa da un incendio. La signora non è impazzita, sa bene quale sia il suo compito istituzionale: «in ogni caso dobbiamo orientare i ragazzi verso il percorso più adatto».

Noi preferire voi incazzati

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Noi preferire voi incazzati

In questi giorni il signor Movimento No Tav è sull'orlo di una crisi di nervi. Non stiamo parlando naturalmente di tutti coloro che in Val Susa si battono contro l'Alta Velocità, ma di quei pochi, pochissimi fra loro che pretendono di decretare la linea di condotta di questa lotta. Il signor Movimento No Tav si è stizzito per le critiche che gli sono state fatte a proposito del suo recente reclutamento di un neuroparlamentare distintosi all'epoca della morte di Baleno e Sole nel gettare fango sui compagni. Per mettere “i puntini sulle i” ha diffuso i ragionamenti che gli salivano in mente mentre stava camminando trascinandosi. Innanzitutto che la sua lotta No Tav va difesa, non criticata. Non esiste la perfezione, può essere bella o brutta e va amata comunque perché così è la vita e poi, diciamolo, tutto il resto è noia. Suvvia compagni, se il signor Movimento No Tav accoglie delatori, amatelo e difendetelo. Se invita magistrati, amatelo e difendetelo. Se rincorre politici, amatelo e difendetelo. Non esiste la perfezione, c'è il bello e c'è il brutto, così è la vita, basta solo che non ci sia la noia della critica e dell'azione autonoma.
L'argomentazione delle riflessioni estive del signor Movimento No Tav si concentra in seguito su una frase che attribuisce al mitico Giacu, l'abitante dei boschi valsusini: noi contenti quando voi arrabbiati.

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