Zo d’Axa
A Paterson
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Tessitore di seta
Dalla riva destra dell’Hudson, dopo aver superato Jersey City, una ferrovia elettrica si lancia sull’esile via consolidata che attraversa la pianura paludosa, in direzione di Paterson — Paterson, che i giornali del pianeta hanno molte volte definito «la capitale dell’Anarchia», dove gli evasi dal vecchio continente vanno ad affilar pugnali e a masticare palle di piombo contro la tranquillità dei sovrani.
Attentati e complotti, tutti gli atti della Rivolta sono stati decisi laggiù.
Vi si preparano regicidi come a Pithiviers ciambelle.
I giornali bene informati d’Europa e d’America hanno decorato di questa leggenda la piccola città industriale perché Gaetano Bresci, prima di sparare sul re d’Italia, aveva lavorato per mesi in una fabbrica di Paterson; e perché durante il loro passaggio in America parecchi esuli, da Kropotkin a Malatesta, sono andati là a stringere la mano a qualche compagno espatriato.
È un centro d’emigrazione.
Italiani, belgi, francesi, tessitori di seta più che di sudari, lavoratori del ferro e dell’acciaio — fucinatori di aratri e non di pugnali — operai abili e rapidi che hanno trovato nelle officine moderne della città dei salari meno irrisori che nei crogioli del nostro continente.
Si sono installati.
Non che la città dalle case di legno sia resa attraente dal rumore di cascate trasformate in forza motrice per queste fabbriche che, dietro le piante rampicanti d’edera e di vite selvatica, nascondono la melanconica tristezza dei laboratori, prigioni qui come altrove. Ma lì almeno c’è il pane quotidiano — la carne pure.
E qualche ora per sé.
Quelli che nelle nostre città d’Europa hanno sofferto e visto soffrire, già un minimo intelligenti, impiegano le ore di riposo per istruirsi e stimolare i loro compagni meno competenti. La relativa agiatezza non li ha ancora irrigiditi nell’indifferenza.
Ecco forse cos’è sospetto!
Hanno parecchi gruppi di studio. Un giornale francese: Germinal. Uno spagnolo: El Despertar. E Bresci, che colpì Umberto, dava ogni settimana il suo obolo per aiutare la Questione Sociale.
Si sapeva che avrebbe ucciso un re?
Il mestiere di tessitore, a Paterson, allora era meno precario di oggi, in cui gli scioperi indicano il progresso delle esigenze padronali. Bresci aveva potuto mettere da parte qualche centinaio di franchi; approfittando delle agevolazioni sui trasporti in occasione dell’Esposizione di Parigi, fece visita alla grande fiera e una scappata fino al paese natio... Conservava a Paterson non solo oggetti, lettere, come di certo non si abbandonano mai quando ci si prepara a morire; ma vi lasciava la sua bambina, la sua compagna che amava — e che abbracciò senza un addio.
I compagni che lo videro partire sospettavano così poco quel che sarebbe accaduto che molti di loro lo incaricarono di commissioni del tutto puerili.
Non caricarono loro la sua rivoltella.
La sua rivoltella! Dovevano credere che egli non ne possedesse; o al limite se ne aveva una, come quasi tutti in America, nessuno poteva pensare che presto ne avrebbe fatto sputare fuori le pallottole. Era un ragazzo di una natura piuttosto timida, che parlava dolcemente, cercando le parole; servizievole e dolce. Forse nervoso, un leggero tic al naso...
Regicidi
Misteri, meraviglie, congiure, giuramenti, pugnali nell’ombra, estrazioni a sorte — e l’uomo che va, lungo le strade, a compiere la sua opera di sangue.
La tradizione facile da seguire anche nei romanzi d’appendice permette di acconciare i fatti in tutte le salse storiche. È più facile. Nessun bisogno di pensare.
Lasciate correre.
I cavillatori psicologi non guardano oltre la punta del loro foglio e si racconta ancora al pubblico che dei settari tengano assemblee per giocarsi le teste dei sovrani.
La realtà è più semplice.
È più grave. Non è più il fanatismo, non sono più le ambizioni d’un partito a tramare l’assassinio d’un principe. Altri tempi rispetto a quelli di Jacques Clément, di Ravaillac e delle congiure segrete. Oggi un uomo spontaneamente s’erge dalla folla e mira al re.
V’è uno stato di spirito.
Uno stato di nervi. Persone solitamente d’indole mite si commuovono fino all’azione quando il risucchio della folla li pone casualmente di fronte al personaggio di gala che simbolizza la Sovranità. È l’eredità indivisibile del pensiero dominante trasmessoci dalla Rivoluzione? Quando un impulsivo, travolto e scosso dagli spintoni e dagli evviva della plebaglia, non può più fuggire il turbine che lo sospinge verso la carrozza in cui sfolgora il semidio, come non capire che un dramma terribile si agita nel suo cervello.
Bisogna auspicare che non sia armato.
Auspicarlo — per lui innanzitutto. Un’esistenza vale un’altra, e prendere una vita è meglio di qualsiasi suicidio. Ma a che serve proporre?
Non è più apposta che si ammazzano i re.
Il loro passaggio nella nostra epoca è l’immediata provocazione che sveglia repliche repentine. Scacco al re! al capo, all’essere rappresentativo di tutto ciò che, fin dalla scuola elementare, ci si insegna ad odiare — e non abbastanza a disprezzare. Sono più coscienti quei paesi in cui, quando circola l’imperatore, tutte le finestre sono chiuse e le strade rigorosamente deserte.
Era di Paterson anche il cittadino americano che fece eleggere Roosevelt sopprimendo il suo predecessore?
Czolgosz non aveva mai messo piede sulla riva destra dell’Hudson, ed è dai bordi del Michigan che si recò a Buffalo dove incontrò Mac Kinley. Avrebbe potuto accontentarsi di una shake hand al suo presidente che recitava la cordiale commedia di prassi negli Stati Uniti. Il piccolo venditore ambulante miserabile avrebbe dovuto comprendere l’onore che gli faceva l’uomo dei trust, della finanza e del «tallone aureo», lasciandolo venire a lui. Una fastidiosa sensibilità gli impedì di assaporare questa gioia nella tranquillità beata della folla che sfilava. Una ironia lo flagellò. E, senza lunga premeditazione, egli preferì liquidare con la sua vita lo scoppio di una frase discordante sottolineata da tre punti di sospensione.
Tutti i giornali americani furono allora edificanti nel dire: «Che si attenti alla vita dei re nei paesi della vecchia Europa, ove i resti dell’antica barbarie permettono regimi antiquati, passi; ma qui da noi, nella Repubblica!». E per dimostrare perentoriamente che le repubbliche attuali si differenziano dagli imperi e dalle monarchie d’un tempo, i pubblicisti del Nuovo Mondo chiedevano che si applicassero all’istante supplizi appropriati: invocavano lo squartamento.
Si innova poco.
Le repubbliche hanno scimmiottato la monarchia. L’ipocrisia delle formule brilla al lampo delle usanze.
Ungere un uomo di petrolio, dargli fuoco dopo averlo solidamente legato ad un tronco, è un procedimento che per essere impiegato quotidianamente ai negri degli Stati Uniti porta solo un piccolo progresso ai roghi dell’Inquisizione.
L’elettrocuzione stessa, molto moderna e scientifica, in cui il boia è ingegnere, conserva una tinta semi-religiosa: incanala il fuoco dal cielo: la folgore in camera — in camera ardente. Una cosa simile piace molto durante le tempeste, e sul posto. Ma sono troppo pochi gli spettatori; si ruba uno spettacolo al pubblico.
Il linciaggio è più democratico.
In Francia come negli Stati Uniti, in queste repubbliche elette, basta gridare: «al ladro!» perché la buona folla si avventi col nobile scopo di impadronirsi di un povero diavolo che scappa. Se inciampa, lo si massacra.
Di solito lo stesso popolo acclama ogni specie di re e di presidenti delle repubbliche.
E quando per caso questa folla, questa folla di persone perbene, invece di acclamare si precipita ad assassinare il capo di Stato — dato che in essa c’è ogni morale, ogni giustizia, ecc. — allora questo non si definisce più regicidio. Si dice:
— È un’esecuzione.
La Compagna
Ho visto la compagna di Bresci. Non a Paterson; ma in un sobborgo di Jersey City, a Hudson Heigis, nella casetta dove la solidarietà dei compagni fece meglio che darle asilo. La villetta, al margine del parco di Palisade, non lontano dalle fabbriche, era stata sistemata in boarding house; in modo che, invece di accontentarsi di una carità dai domani incerti, quelli che si interessavano alla compagna del condannato le fornivano il mezzo per provvedere essa stessa alla sua vita prendendo qualche pensionato fra gli operai delle fabbriche dei dintorni. Forse anche lo scrupolo che per questi operai, per la maggior parte americani, sarebbe stata l’occasione di una curiosità vicina al desiderio di comprendere...
La volontà di fare della propaganda è la caratteristica assoluta di questi uomini che si tratta da energumeni e in cui, con poche eccezioni, l’iniziativa è fraterna e le procedure dogmatiche: potremmo dire parlamentari.
Un bisogno di sfogarsi, di convincere, finisce spesso in discussioni senza fine dove scorrono declamazioni ad onore delle società future.
Altrove è peggio.
Una scienza rudimentale si dibatte nei discorsi-prediche dove russano le parole d’armonia, d’amore e di macchinismo...
Si crea una nuova morale.
Si diventa settari senza saperlo. Si sguazza. Si scomunica. Si accarezza. Si irreggimenta. Ed è nei piccoli particolari che si fa conoscere un’idea.
I proseliti applaudono e i neofiti rovinano la loro vita perché hanno capito solo a metà.
Si sciorinano conferenze.
Se di tanto in tanto le cose non venissero messe a posto, si verificherebbe la menzogna anarchica come ci fu la menzogna cristiana.
Troppa tendenza a parlare della Causa. Si dimentica che in questo mondo ostile che noi crediamo senza domani, ognuno deve avere la sua causa.
E che non appena si tiene bottega di speranza ricominciano gli inganni.
Meno di altri rivoluzionari, gli immigrati in America sono portati a lasciarsi cullare dalle promesse dell’età dell’oro. Lo sforzo personale che hanno fatto, osando prendere la strada per andarsene verso il meglio, li predispone alla ricerca dei punti di vista più chiari. Molti di questi uomini d’azione che sono individualisti trovano il piacere dove lo trovano, aiutando una donna rimasta sola.
Ciò è più che parole. Ed è più di quanto fanno i popoli per i vecchi genitori del soldato che mandano a morire in campagna.
È quanto la tabaccheria per la vedova del comandante.
E coloro che danno questa lezione di mano largamente aperta per una gioia di loro gusto, per un’opera di fraternità, non dispongono di nessun budget e razionano il loro pasto serale. Mentre i governanti, mentre i capitalisti, che ad ondate lanciano uomini nelle ecatombe coloniali declinano ogni responsabilità verso i parenti dei loro morti, si possono vedere semplici artigiani, per il solo fatto di un’idea, assumersi deliberatamente gli incarichi lasciati da uno di loro che è partito senza che nessuno lo spingesse.
Morendo, un rivoltoso sarà meno inquieto per i suoi rispetto al militare patriota — se è povero e non ha che la patria.
La compagna del regicida è una donna robusta di trent’anni, dalla fronte scoperta, dai grandi occhi non molto espressivi, dal sorriso come stupito. Figlia di irlandesi, nata in America, non conosce il francese e sa a malapena qualche parola di italiano. Bresci non sapeva l’inglese, o poco. E, senza sostegno, si capisce che se questi due esseri potevano intendersi è perché non discutevano molto.
Due bimbe giocano davanti alla porta: Madeleine ha l’aria decisa, e Muriel, la piccola, che venne al mondo due mesi dopo che suo padre se n’era andato...
Il dramma che aleggia e sorride e questa infanzia, l’atteggiamento quasi raccolto dei rudi operai delle fabbriche che frequentano la boarding house; tutto, fin la sollecitudine dei compagni che la domenica vengono ad abbracciare le piccole; tutto impressiona e fa sognare.
La polizia trova che sia pericoloso e mille vergognose seccature vengono fatte a una povera donna che mantiene lo stesso sorriso — lo stesso sorriso stupito...
L’ultimo Complotto
Per fortuna l’autorità vigila. Agisce. Mi trovavo ancora a Paterson quando venne svelato l’ultimo complotto della stagione.
Questa volta si trattava di sopprimere Vittorio Emanuele III; il figlio dopo il padre. Il colpo partiva dallo stesso posto; l’assassino partiva dalla stessa città, dallo stesso focolaio di congiura. Quindi avevano ragione quelli che parlavano di tenebrosi complotti.
Si faceva la prova.
Un uomo di cui le circostanze mi permettono di scrivere il nome, un certo Innocenti Raffaele, organizzava l’attentato reclutando a Paterson. Quest’uomo arrivato da poco teneva propositi violenti, divulgava formule d’esplosivi e sviluppava un piano che venne capito dai compagni.
Quell’uomo era un infiltrato.
La sua avventura merita di rimanere come esempio dei mezzi impiegati dall’autorità per accreditare le leggende che «giustificano» grandi retate non appena se ne presenta l’occasione. Innocenti Raffaele, che già prima di considerare un infiltrato si disprezzava come fanfarone, aveva finito per riporre tutte le sue attenzioni alla cultura intensiva di un compagno senza occupazione e che lo ascoltava taciturno; quando lo credette maturo per l’azione, precisò. Si andava in Italia, si abbatteva il cucciolo; opera in due; Raffaele pagava il viaggio, l’altro colpiva. Intesi. Il compagno taciturno aveva indovinato il suo partner; lo seguì...
Non molto lontano. Ma sufficientemente per sapere che Innocenti aveva le sue piccole entrate al consolato italiano di New York. È curioso come persone dall’apparenza più taciturna abbiano talvolta trovate allegre; l’assunto di Raffaele fece notare al suo complice che non si poteva andare decentemente a massacrare un monarca in una tenuta così poco cerimoniosa come una tuta da laboratorio: si fece offrire un completo, un orologio per vedere l’ora del crimine! E la rivoltella indispensabile. Dopo di che, venne fissato un appuntamento per gli ultimi preparativi.
Quel bel sabato di vigilia d’armi, quando si dovevano chiudere le valigie, rimarrà in qualche memoria. Nel suo completo nuovo fiammante, poco prima del tempo convenuto — forse l’orologio era in avanti — l’uomo arruolato per uccidere il re entrò con passo sicuro nella casa isolata dove Raffaele stava per raggiungerlo. L’assassino era accompagnato da una decina di personaggi dall’aria poco soddisfatta. Il complotto magari prendeva il volo. Raffaele non si sarebbe annoiato.
Il fatto è che quando si presentò, il tizio fu piuttosto sorpreso. Senza la minima brutalità, e per insegnare alla polizia che è possibile operare gentilmente, al signore vennero rivoltate le tasche e aperto il portafoglio. Nulla di sospetto. I compagni furono costretti a procedere come semplici giudici all’interrogatorio del sospetto, quando questi, preso dalla paura, preferì fare completa confessione:
— Non fatemi del male, supplicò, dirò tutto.
Lo si mise a suo agio. Spiegò che, condannato per furto a Torino, era fuggito in America e, ritrovandosi senza risorse a New York, si era recato al consolato nell’intenzione di consegnarsi; là aveva fatto la conoscenza di un funzionario che gli promise di fargli ottenere la rimessa della pena se avesse fornito alcune informazioni — sensazionali, insistette — sugli anarchici di Paterson.
Il disgraziato aveva accettato.
Poi, gli furono dati del denaro e dei consigli; non era stato lui ad aver avuto l’idea della faccenda. E adesso chiedeva perdono, giurava che gli anarchici lo avevano convertito senza volerlo con il loro buon cuore, le loro belle speranze; mai, all’ultimo momento, avrebbe avuto il coraggio di lasciar partire il compagno la cui segnalazione era già stata spedita in tutta Italia. Tremava, la faccia livida; la sua voce singhiozzava nel silenzio. Piagnucolando, cadde in ginocchio. Lo si alzò. E respingendo il parere di alcuni che volevano marchiargli in fronte con lettere indelebili la parola TRADITORE, si concluse con metodo, scrupolosamente.
Siccome si era iniziato perquisendolo, si mise in moto l’ingranaggio facendogli scrivere e firmare la sua «deposizione».
Si fecero le cose in maniera un po’ scientifica: alla luce ossidrica, si prese la sua fotografia; era il caso di spedire un ricordo ai gruppi rivoluzionari in cui Raffaele avrebbe forse tentato di intrufolarsi in seguito. Rovesciati così i ruoli, dopo l’antropometria si continuò con la schedatura, omettendo solo l’operazione troppo banale, troppo vigliaccamente borghese, del classico pestaggio.
I congiurati di Paterson, ancora una volta, non uccisero il loro uomo.
Ciò non toglie che una rivoltella in più (dono del console d’Italia) è in circolazione. L’autorità non teme di giocare con un’arma da fuoco. Questo oggetto di curiosità è probabilmente già passato di mano in mano, chissà dove? come un semplice gingillo.
La rivoltella storica farà un giorno parlare di sé?
[La Revue Blanche, settembre 1891]