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Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini riuniti, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, spandono ghirlande di fiori sulle loro catene di ferro, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria cui sembravano essere nati, fan loro amare la schiavitù in cui sono e ne fanno quel che si dice popoli inciviliti. Il bisogno innalzò i troni: le scienze e le arti li hanno consolidati.

Jean-Jacques Rousseau


I Signori ci tranquillizzano con immagini. Ci danno libri, concerti, gallerie, spettacoli, cinema.

Attraverso l’arte ci confondono e ci accecano nella nostra schiavitù.

L’arte adorna i muri della nostra prigione, ci tiene silenziosi e divertiti e indifferenti.

Jim Morrison



È una consapevolezza diffusa, nel tempo e nello spazio, fra i filosofi del passato come fra le rockstar del presente. Quando non è frutto di un sommovimento dal basso ma di una concessione dall’alto, cultura è sinonimo di galera, di negazione della libertà.

Quella che potrebbe sembrare un’ardita affermazione teorica, a Firenze è da sempre una constatazione storica. Basti pensare all’antico carcere delle Stinche, costruito nel 1300 e che per secoli recluse i prigionieri di guerra, i “disadattati”, i caduti in disgrazia (fra i suoi detenuti, persino Niccolò Machiavelli), prima d’essere abbandonato come rudere. Poi a metà dell’800 il suo nuovo proprietario Girolamo Pagliano, ex cantante arricchitosi con l’invenzione di un sciroppo purgativo, e l’architetto Telemaco Bonaiuti lo trasformarono in un teatro, oggi intestato a Giuseppe Verdi. Con la chiusura e la vendita delle Stinche, fu ristrutturato per essere adibito a nuovo carcere cittadino il vecchio convento delle Murate.

Dalla segregazione volontaria per motivi religiosi si passava a quella forzata per motivi giudiziari: uno spazio comunque destinato alla repressione dei desideri umani. Per un secolo e mezzo espressioni come andare alle Murate o finire alle Murate hanno avuto a Firenze un significato preciso — la perdita della libertà. Ma un luogo di pena e sofferenza nel centro cittadino andava contro il buon senso degli affari, per cui l’istituzione penitenziaria è stata in anni recenti trasferita in periferia, lontano dagli occhi e dalle orecchie dei turisti che infestano il capoluogo toscano.

E le Murate, che fine hanno fatto? Attraverso un progetto di edilizia residenziale, dalle celle che si trovavano ai piani superiori sono stati ricavati alloggi popolari assegnati a famiglie meno abbienti. Ieri ci finivano dentro i poveri considerati cattivi e quindi puniti da un magistrato, oggi ci abitano i poveri considerati buoni e perciò premiati da un assessore?

È un triste privilegio di quest’epoca quello di vantare menti umane in grado di partorire l’aberrante idea di trasformare i raggi di una prigione in un condominio, i ballatoi in terrazzi, una cella di dannazione in una casa dolce casa.


La responsabilità va ad architetti (come Renzo Piano, Mario Pittalis e Roberto Melosi) in combutta con gli amministratori comunali che si sono susseguiti negli ultimi decenni, i quali hanno addirittura salvaguardato alcuni dei tratti più infami del vecchio edificio. Le antiche porte blindate delle celle sono ancora lì, a perenne monito, affinché chi le costeggia non dimentichi mai che alla galera della vita quotidiana non si sfugge.


Quanto agli spazi dei piani inferiori delle Murate, oltre alla presenza di un esclusivo ristorante, sono stati riservati ad ospitare quello che dovrebbe diventare il polo creativo del terzo millennio. Mille metri quadrati a disposizione di artisti e intellettuali, nazionali e internazionali, a cui verrà affidato il compito funzionario di addomesticare ogni forma di espressione culturale, rendendola conforme agli interessi del denaro e prona ai regolamenti dell’autorità.

Il 26 aprile 2011 vengono inaugurati questi Spazi Ubbidienti Cortigiani, dove sette giorni su sette, da mezzogiorno a mezzanotte, potremo annusare le ghirlande di fiori che ricoprono le nostre catene e contemplare l’arte che adorna i muri della nostra prigione.

Una volta Murate dai burocrati di Palazzo Vecchio — la cui mano, quando sentono pronunciare la parola cultura, va subito al portafogli — la fantasia, l’immaginazione e la poesia non corrono più il rischio di trascinare gli esseri umani fuori dai ruoli e dal conformismo loro imposto per lanciarli all’avventura e all’assalto dell’ignoto.


Come già accaduto per le Stinche, anche le Murate hanno cessato d’essere un luogo insanguinato dalla repressione per diventare uno sterilizzato spazio d’inibizione. Ogni anelito di libertà, ogni fiero istinto ribelle, non sarà più bastonato, torturato e messo ai ferri, ma verrà simulato, estetizzato e messo in commercio. Da questo momento in poi andare alle Murate, finire alle Murate, vorrà dire o venire reclutati in qualità di secondini culturali all’edulcorazione di questo mondo infame che reclama ogni giorno di più la sua sovversione, o assistere da prigionieri sociali ad insulsi spettacoli di evasione virtuale che hanno il solo obiettivo di allontanare ogni pensiero di evasione reale.


Mentre l’assessore alla cultura vuole far rivivere alle Murate i balli settimanali che nel 1840 il Granduca offriva ai forestieri — nobili o commercianti, industriali o artisti — ritenuti degni d’essere ricevuti dal sovrano, noi auspichiamo per Firenze il ritorno a un ben altro genere di festa, quella che si scatena nei tumulti contro i Signori che vorrebbero costringerci ad un’esistenza vidimata a norma di legge.


Non è possibile sperimentare la libertà all’ombra di un carcere


Trivio dei Tumultuosi


[pieghevole distribuito a Firenze durante l’inaugurazione

degli Spazi Urbani Contemporanei nell’ex-carcere delle Murate]

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