Octave Mirbeau
Come si cura
Ho seguito, or è qualche giorno, la visita dì un celebre medico in uno dei grandi ospedali di Parigi.
Ah, quell’ospedale!... La testa mi gira e il cuore mi batte ancora!
Ma, dopo tutto, perché non nominarlo ? È Beaujon.
Il portinaio mi aveva detto : — Il corridoio, a destra.... Traversate due anditi.... un altro corridoio.... Dopo, prendete a sinistra.... Là domanderete, eh?...
Io credeva di camminare in una città morta. Muri neri, un impiantito disuguale, gobbo, dove la polvere s’accumula nelle buche; anditi sporchi, cupi, ingombri di calcinacci; tettoie crollanti; qua e là qualche albero stentato che ignora la primavera e che mette, non si sa come, dei germogli: niente verde, niente fiori. Una luce d’una spaventevole tristezza, una luce malata, al fondo di questi anditi che formano il quadrilatero degli edifizi, ove le finestre son più oscure, i vetri più sudici, più opachi delle vecchie pietre rose della facciata.
Una prigione m’è sembrata meno sinistra. Questo somiglia a grandi magazzini abbandonati; a una fabbrica dopo l’incendio.
Nei corridoi, ho incontrato tre o quattro poveri diavoli in berretta di cotone e mantello bluastro che, appoggiati su di un bastone e tossicanti, si spasseggiano a piccoli paesi. Ne vidi altri, negli anditi, assisi su dei banchi, tremanti di freddo, con le spalle rialzate, i ginocchi serrati, che prendon l’aria e respirano la vita alla bocca di un canale.
Si è detto ch’essi sono stati confinati là, come scatole, nella fretta d’uno sgombero. Quand’io gli passo dinanzi essi non hanno né la curiosità né la forza di alzare la testa.
Trovo il direttore nel suo laboratorio. Egli indossa metodicamente, sopra al suo vestito, un grembiule di tela bigia. Una berretta nera, un po’ inclinata su l’orecchio, copre la sua rispettabile calvizie.
Egli parla di.... Salomé. Con molta indignazione egli protesta contro «una esibizione così immorale». Dei baci su la bocca d’una testa recisa! Ah! Ah!... Spettacolo ignobile offerto a dei degenerati della musica e della letteratura!
— Rimpiangiamo Cyrano, signori, e Corneille, la cui forte virtù... ecc...
— Noi teniamo là una ventina di persone; interne, allievi preferiti, amici, tre signore, non molto graziose, che studiano la medicina. E penso, non senza orgoglio, quanto in un istante i malati debbono essere rassicurati, per tante brave persone riunite in corteggio, per alleviarli e per guarirli.
La prima sala dove noi entriamo deve contenere regolamentarmente ventiquattro letti. Ciò almeno è quel che m’apprende una iscrizione ripetuta sui muri. Io ne conto quarantanove. Essi si toccano. Niuno spazio libero tra essi. È come un immenso drappo bianco, dove le teste piegate e le teste alzate fanno l’effetto di piccole macchie nere, brune o gialle, qualcuna molto rossa, qualche altra, così, più pallida del drappo. Si è avuto molto da penare per avvicinarsi.
Dopo uno sguardo indirizzato nell’interno:
— Ah! sì... faccio a colui che sorride ironicamente. Il cubo d’aria non c’è? Il famoso cubo d’aria? Ebbene! Ecco là... Qui, ci sono dei regolamenti come da per tutto... Teoria, mio caro signore...
Degli infermieri a noi dinanzi rimovono come possono i letti serrati, facendo girare i malati, come dei mobili in un magazzino ingombro. Io credo un momento che li vogliano ammucchiare gli uni su gli altri, metterli in raggio di biblioteca, a fine di stabilire un passaggio, un’uscita.
Di nuovo esprimo la mia sorpresa.
Domando: — Ma è sempre così? Dal primo all’ultimo dell’anno?... Non abbiamo noi abbastanza posto?...
— L’ingombramento è tal quale; per ospitare dei casi gravi, i casi urgenti che ci arrivano, sono obbligato a congedare i malati che non sono che a 38° di temperatura..., sì, anche 38°, 38,.3°...
— Vuol dire che l’inviate in un altro ospedale ?
— Voi siete strano!... Un altro ospedale ? Ma in un altro ospedale mio caro è lo stesso!
— Allora? Dove vann’essi ?...
Il medico scrolla la testa, fa un gesto vago che esprime forse impotenza, forse fatalità:
— Cos’è che volete?
— Ma ciò è spaventevole, esclamo io.
— Senza dubbio... Felicemente... finiscono per logorarsi ancora... È così!...
Tutti han l’aria di brave persone. Io mi rendo conto che ciò che ho visto non è colpa né dei medici, né dei ricoverati, né del personale dell’ospedale, né dell’Assistenza pubblica: che ciò non è il fallo di persone, ma la colpa di tutto il mondo. Di quest’abbandono vergognoso in cui è lasciata l’amministrazione la più sacra, non si può accusare che il mostruoso raggiro elettorale, raggiro anonimo per il quale, da Lilla a Marsiglia e da Bordeaux a Belfort, cola, scorre, senza interruzione e senza profitto per alcuno, l’oro inutile dei finanzieri...
Noi stiamo presi, a la fila indiana, nello stretto passaggio, nella fessura provvisoria praticata dagli infermieri tra i letti. Passando ci si accosta alle coperte, ai materassi. Per un errore di cui io mi vergogno molto, appoggio un po’ goffamente la mia mano sul ventre di un malato, il quale alza un grido di dolore :
— Andiamo! andiamo!, fa l’impiegato. Come sei delicato, adesso!...
— Delicato! delicato!... Io vorrei veder voi!...
L’espressione del suo volto si calma istantaneamente. Egli ci dice quasi con contentezza:
— Infine, tutto considerato, signor impiegato, il mio ventre non è la spalliera di un ponte.
Si solleva un poco, s’appoggia sui gomiti e dice ancora:
— Non è vero! signor impiegato io divento vecchio qui... sapete?... E poi, il vostro latte... io non lo prendo più... non lo prendo più!...
I suoi grand’occhi cavi mi atterrano. Al disotto del segno mascellare le sue guance si scavano profondamente. Tiene una barba di quindici giorni, che nasce durissima e, dalla camicia aperta, si scorge la villosita del torace scarno. La febbre, sulle sue labbra secche, solleva delle piccole bolle rosse e biancastre...
— Che ha egli? domando io quando ci siamo un po’allontanati.
— Non si sa bene, risponde il medico. Una tipho-colite acuta, può essere, o può essere un’altra cosa. Egli è perduto... Ciò non si sa...
Dopo un po’ di silenzio:
— Sì; va trasportato questa sera nel servizio di chirurgia... Ho bisogno del suo letto...
L’illustre professore si ferma successivamente al capezzale dei malati. Qualche volta indirizza loro la parola, il più sovente tace. Egli sta davanti a loro impassibile e freddo, come dinanzi a dei pezzi anatomici. li esamina con una attenzione rapida e concentrata... Al disotto di qualche letto si allineano, in un panchetto, delle fiale contenenti l’orina. Egli le prende, l’espone alla luce più viva, le riguarda, le scuote:
— Ah! ah! — esclama egli semplicemente.
Oppure in un altro tono:
— Oh! oh!
Poi, col dorso voltato al malato, una mano sulle anche, l’altra liberata a dei gesti lenti e ponderati, le gambe incrociate sotto il grembiule di tela bigia, il berretto un po’ più sull’orecchio, egli parla con abbondanza. Il suo seguito l’ascolta religiosamente. Un fiotto di parole scientifiche sorte dalla sua bocca che si compiace gettare lo spavento, per tutta la sala, come un vago rullare di sassi per una china. Egli descrive la malattia minuziosamente, le sue erosioni, la sua evoluzione, il suo termine probabile, senza la minima cura del paziente che, anche lui, ascolta avidamente con delle smorfie ai labbri, quelle parole tanto più terribili quanto gli rimangono incomprensibili. Di tanto in tanto il professore invita un allievo, un confratello, a controllare per un breve esame, cioè ad ammirare la diagnosi sì minutamente descritta. E da tutti i capezzali gli sguardi son rivolti a lui, sguardi di terrore, di speranza anche, poveri sguardi pazzi dove s’esprime, in una fissità tragica, tutto l’infinito del dolore e dell’illusione. E tutto l’immenso desiderio di vivere, e tutto lo spavento di morire.
Noi andiamo così di sala in sala.
Il medesimo affollamento, il medesimo aspetto sinistro, i medesimi discorsi, i medesimi sguardi. Il professore non sì ferma ai letti degli agonizzanti. Per far che?
Nell’ultima sala, scoprendo un malato, dice:
— Ah! signori, ecco qui un caso curiosissimo, eccessivamente curioso... Richiedo particolarmente tutta la vostra attenzione.
Io non aveva potuto avvicinarmi molto al professore e non intendeva sempre molto bene ciò ch’egli diceva. Pertanto, ho compreso che il caso in questione è stato veramente curioso «per una certa qualità di dolore». Sembra che questo male venga contrariando formalmente tutte le leggi fin qui verificate dalla psicologia sperimentale. È appassionante. Per dire con un esempio la sua dimostrazione, che fu lunga, e, afferma l’impiegato, rimarcabilissima, egli poggia il dito, fortemente, e al momento opportuno, su la parte malata. Allora il povero diavolo si scuote: si vede passare su tutto il suo corpo come una vaga sofferenza. Ma, non lo si crede, egli si lacera le labbra con i denti. Un sudore fìtto, viscoso, cola dai suoi capelli, impecia la sua barba... E il suo sguardo ? Oh! quello sguardo, come potrò dimenticarlo?...
Finita la lezione, l’illustre professore ha voluto che ciascuno del seguito andasse a premere il pollice «sur le douleur» e che verificasse le corrispondenze e le ripercussioni straordinarie. Tutti sfilarono, tutti premerono. L’ultimo fu un giovane, molto piccolo, con una corta barba bionda tagliata a punta, una fronte enorme, e di già calvo. Egli si fa in viso sorridente, e, come felicitando il maestro d’avere, in certo modo, inventato una nuova sofferenza dice:
— In effetti, caro maestro, in vero... Estremamente curioso!... Divertentissimo!...
Per disgrazia, l’uomo s’è svenuto.
Terminata la visita, e dopo che il professore, sempre insegnando, si è lavato le mani, io domando all’addetto:
— Spiegatemi una cosa che mi tormenta e che mi confonde... Il dottore ha molto eloquentemente studiato sulle malattie... Della loro cura non un motto, non una sola parola?!...
L’impiegato mi guarda stupefatto:
— Ma naturalmente, mio caro... Come, voi non arrivate ancora a ciò?... Non si curan più le malattie, al giorno d’oggi. Finita la terapeutica!... Il medico, il vero medico moderno, non è più un medico... È un sapiente, mio caro. La medicina e la scienza, son affatto due cose, e che si escludono... Prendete...
Egli fu interrotto dal professore che lo chiamava.
— Venite a trovarmi dopo il servizio... Io vi spiegherò, dice...
E mi lascia.