Titolo: ...contro la legislazione e la rappresentanza
Argomento: Brulotti
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Il lettore ha ora un’idea generale del compito che si son prefissi i moderni Titani, desiderosi di rinnovare il conflitto contro il Governo. La prima obiezione che è stata mossa loro da tutte le parti originò dalla religiosa credenza nelle leggi. Parecchie persone sono sufficientemente rivoluzionarie per credere possibile che il potere governativo sia diminuito, ma non pare che il superstizioso rispetto per un’assemblea legislativa possa essere sradicato degli animi. Soffermiamoci a considerare le leggi, immedesimandoci per un momento con gli avversari dello Stato.

Lo Stato ha una vita ed una esistenza soltanto — la legge. Finché noi ammettiamo lo Stato nella sua forma ereditaria, noi — in qualunque gradazione politica liberale ci troviamo — dobbiamo sempre scorgere nelle leggi il principio e il fine della società umana, il pilastro dell’educazione, la protezione del debole, il livello delle distinzioni sociali ed il santuario della giustizia.

Perciò i rivoluzionari sono stati distinti dai reazionari solo per il fatto che hanno cercato di far leggi migliori, e si sono presa pena per far felice il popolo. In ogni altro senso non esiste differenza di sorta tra Luigi XIV, che dava forza di legge alla sua volontà dispotica, e perciò disse: «Lo Stato sono io», e Montesquieu, Rousseau, Robespierre, Saint Just, ecc. Ciò che il primo arrogava a sé, gli ultimi reclamavano per i legislatori. Per questi il genere umano è una pasta che la loro saggezza vorrebbe rimenare: essi inventano un’arte di guidare gli uomini e farli felici. Montesquieu, che pure ora è citato dai rivoluzionari, fu il fondatore di questo culto moderno alle leggi, e di questa esigenza di un senso meccanico di legalità!

Le leggi sono tutto per lui: esse sono le vacche, dalle cui mammelle ii genere umano deve succhiare; ed egli insegna ai legislatori quale condotta debbano tenere verso il genere umano, così come l’affittaiuolo istruisce i suoi allievi ad arare la terra. Rousseau pure si frammette in ogni cosa. Con un vero accanimento per la felicità dei popoli, egli espone i vari espedienti che i legislatori dovrebbero adottare, e come questi dovrebbero far girare la macchina sociale e metterla in movimento. Egli chiama il legislatore il meccanico che inventa la macchina. Per lui il genere umano non è che la moltitudine interamente governata dai facitori di leggi, sui quali egli osserva: «Quegli che intraprende a dare istituzioni ad un popolo deve sentire dentro di sé la possanza di mutare la natura umana, di trasformare ogni singola persona, di modificare la costituzione del genere umano, di rafforzarlo; in una parola, egli deve togliere dal genere umano il potere che è in esso ed impartirgli un potere estraneo». E a questo despota si attribuisce una certa influenza sul grande atto della Rivoluzione francese!

Tutti i filosofi del diciannovesimo secolo, tutti gli uomini della Convenzione aspettavano la salvezza della società da individui che dovevano capitanarla, ma che pure non conoscevano nulla della vita delle masse. Il popolo al loro sguardo era una massa senza vita, inerte: la società era pervenuta ad aver coscienza di sé, si agitava e votava piena di forza vitale, mentre quelli studiavano con quali mezzi infonderle la vita. Era cominciata una nuova era: la Convenzione aveva bisogno di contraffare l’antichità, nella quale uno o due uomini rappresentavano il popolo.

Con tutta la vanità dell’autorità, Saint Just diceva: «Il legislatore comanda il futuro: il suo ufficio è di bramare il bene; il suo compito di formare gli uomini come vorrebbe averli». Lo stesso accanimento per il governo si rivela in tutti i discorsi di Robespierre, che formicolano di frasi superficiali.

È davvero penoso leggere i discorsi di questi uomini, che nella loro illusione andavano sì oltre da credere di poter abolire i vizi dell’umanità, di poter mettere le redini al genere umano. L’ iniziativa del popolo era sconosciuta a tutti i politicanti del diciottesimo secolo.

Ognuno voleva fare a suo modo, perfezionare, intagliare, sperimentare, eguagliare, render felice il genere umano od esserne il guardiano. Ognuno si credeva rivoluzionario perché encomiava fino alla nausea la Convenzione — quella Convenzione che ignorava che un popolo esistesse; che questo popolo volesse esser libero, volesse occuparsi dei propri affari e non volesse tutori; una Convenzione che vedeva in sé solamente la volontà e l’anima della nazione, si collocava al dì fuori della società, e rattoppava or qua or là, e rappresentava la deplorevole commedia del Parlamentarismo con le cappe rosse.

L’idea rivoluzionaria del nostro secolo è il diritto dell’individuo, la negazione del governo e della legge.

Oggidì la legge non è che l’arma dei partiti, ciascuno dei quali cerca di strapparla all’altro. Essa non serve che alle passioni; è il mezzo del dominio e dell’oppressione, la figliola dell’ingiustizia e dell’ambizione. La legge è l’ultimo nascondiglio della fede nell’autorità. Noi non vogliamo essere governati da un individuo, ma ci sottomettiamo ad un’astrazione: la legge. Ogni atto arbitrario e dispotico è tollerato, sol che sia fatto per via di qualche contorcimento di una legge, ed intanto ci consideriamo liberi. La legge è il ceppo che tiene in schiavitù gli spiriti, ed i cui vincoli vogliono essere rotti. Una volta le leggi erano l’espressione della ragione universale, della coscienza pubblica, della giustizia; il potente baluardo dell’umano genere contro la barbarie, la scuola del genere umano. La passione di qualche partito ora ha contaminato il santuario, e la spada della Dea della Giustizia è usata dalle classi governanti come un’arma per spaventare, asservire e torturare gli oppressi. Di qua è il popolo che approva le sole leggi punitive dei delitti comuni e le leggi civili, e negli altri casi gioisce quando un verdetto assolutorio del giurì strappa la preda alla terribile zanna della legge, e la pone in libertà. Il sistema del giuri è destinato a surrogare del tutto la legge. Senza leggi non v’è governo: senza governo non v’è Stato, e senza Stato v’è la libera società umana, che si governa in una maniera, veramente, di cui non può dare un’idea nessuna delle monarchie o repubbliche per lo innanzi esistite, bensì altre associazioni, o ciò che finora si è chiamato uno Stato nello Stato. La grande lotta politica, a cui ora assistiamo, è la contesa dei partiti per il possesso dell’arma-legge. Il ricco non vuol cedere al bisognoso una parte nella formazione delle leggi; all’incontro ogni povero diavolo vuol essere un legislatore.

Questa lotta universale per la formazione delle leggi è la causa di tutti gli spargimenti di sangue che accadono. Ciascun proprietario spera che a lui solo sia permesso far le leggi, e ciascun affamato, rabbrividendo nel suo solaio, guarda con invidia e con cordoglio verso il palazzo dell’Assemblea Legislativa. Così è che ogni rivoluzione comincia col fatto che il popolo caccia i suoi legislatori, grida all’estensione del privilegio politico, e spera di trovare nel suffragio universale — che, finché il presente ordinamento sociale non sia modificato, è l’arma principale del governo — una garanzia della stabilità della rivoluzione.

Ogni partito politico ha perciò solo una mira — giungere a possedere la potestà di far le leggi. Qui fonda ogni utopista il suo piano per far felice il genere umano: ogni profeta fabbrica le dodici tavole della legge; ed i socialisti francesi non scrivono più teorie ma pubblicano decreti belli •e formulati proprio come i ciarlatani inventano ricette per miracolose guarigioni. Ciascuna classe spera che al cessare della lotta la legge rimanga ad essa. La legge è per ciascun partito dirigente la forma in cui si versa la materia greggia e si modella la società.

Solo un piccolo gruppo di uomini liberi ed ingovernabili desidera che, nella lotta universale dei concorrenti al posto di legislatore, la legge stessa vada infranta, ed il popolo non possa più esser fatto felice o governato per atti di Parlamento, che la volontà di nessun individuo né di un’Assemblea possa essere obbligatoria, e con l’abolizione delle leggi scritte venga meno la stessa Autorità, e nel genere umano si destino la coscienza e la moralità. Abrogar le leggi è molto più difficile che emanarle. Noi apparteniamo alle leggi. Lasciateci combattere per appartenere a noi stessi.

Che ogni individuo sia l’architetto della propria fortuna, e le redini, le verghe e la pappa esistano pei fanciulli soltanto, non per le nazioni mature! Che ciascuno sia responsabile solo per sé, e che non sia possibile che gli errori e la malizia di un singolo uomo, trasformati in una legge, diventino pestiferi all’intera società!

Quanto maggiore è il numero degl’individui, tanto più elevata è la società: ma la legge abolisce ogni individualità.

Noi diciamo con orgoglio: «Tutti sono uguali davanti alla legge», invece di gridare pieni di vergogna: «La legge ci fa tutti eguali», tutti eguali sotto la stessa livrea. Robespierre ha detto in atto di lamento: «La felicità è un’idea nuova in Europa».

Sì, il genere umano non desidera la libertà. Esso combatte contro di essa: fa rivoluzioni per essere governato: inventa progetti democratici per dare una forma alla servitù volontaria. Poiché sono ben codardi per star soli, gli uomini hanno inventata la parola «nazione». Poiché indietreggiano al pensiero di una libertà individuale illimitata, diventano entusiasti della sovranità del popolo. Non v’è che una libertà, e questa è la sovranità di ogni individuo. La così detta sovranità del popolo uccide la libertà individuale, proprio come fa il diritto divino, e contiene altrettanto misticismo e riesce mortifera allo spirito. Ogni uomo è padrone e legislatore di se stesso. La legge non deve essere versata dentro di noi, ma deve venir fuori da noi. La democrazia, che presto sarà nota quanto l’aristocrazia, non ha inventato che la scienza di martellare e saldare i ceppi sopra ogni singolo individuo. Il suffragio universale non ha ora altro scopo che di gettare un piccolo manto di libertà sulla schiavitù generale. Ma una prigione non diventa un tempio di libertà a causa che queste parole sono scritte su di essa.

Si combatte solo per la libertà del popolo, ma non per la libertà d’ogni individuo. Astratta parola «popolo», spettro, ombra, tu truffi la libertà ad ogni singolo individuo! Umanità, tu rubi l’uomo!

Perché la libertà sarebbe trasformata in un’astrazione? Starebbe dunque nelle catene poste alla libertà il vincolo dispotico dello Stato, che tiene unito il tutto? Dovrei io, singolo individuo, in grazia della folle astrazione della sovranità popolare, esser contento di cose che giudico false, e che mi traggono indietro di un secolo? Non può esser permesso ad un centinaio d’individui di congiungersi insieme in perfetta libertà, mentre altri cento continuano il vecchio sistema della custodia legale? Via con le nozioni di universalità! Noi non vogliamo esser cittadini.

Non appena adottiamo questo titolo di democrazia, siamo i sudditi di uno spettro bugiardo chiamato sovranità popolare. Noi vogliamo essere uomini, vogliamo essere costantemente liberi. Il vero amore è egoista. Come singoli individui, noi dobbiamo accentrare i nostri interessi e formare più larga combinazione, a quella guisa onde volontariamente ci uniamo in matrimonio. Nessuno dev’essere trascinato innanzi ad un altare, e colà costretto a dir sì. Raccogliamoci intorno alla tavola, e ciascuno di noi consumi la sua porzione di sovranità popolare. Noi vogliamo esser tutti sovrani. Lasciateci rovesciare un sistema che ci chiama sovrani solamente il giorno in cui dobbiamo eleggere i nostri sovrani e padroni, il giorno in cui ci è concesso commettere il suicidio. Olà! lasciateci non esser più una fabbrica per la produzione di rappresentanti!

Un uomo può così poco trasferire la sovranità, come commettere ad un altro di vivere per lui. Noi dobbiamo, abolendo il Governo, pervenire a vivere da noi medesimi. Al presente tutta la vita sociale è concentrata nei poteri dello Stato. I sudditi o cittadini sono immobili e silenziosi. La loro immobilità è chiamata ordine — uno stato di congestione, in cui tutto il sangue del corpo affluisce alla testa — e forma l’armonia dello Stato; ma quando il sangue scorre nelle varie vene, e le fa battere, allora questo si chiama anarchia.

L’uomo deve esser libero dall’uomo. Non la volontà di un altro, ma solamente la voce interna della mia ragione può sindacarmi. Finora il Governo è stato sempre personale; un singolo individuo od un’Assemblea potrebbe dire: «Lo Stato sono io». Il Governo dev’essere impersonale o, ciò che è lo stesso, deve sparire.


[L’abolizione dello Stato, 1873]