Desiderio senza fine
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Joyce Mansour
Ti credevo rosso
Becco tumido della mia tenerezza
Indifferente
Materia gommosa dalle linee sfuggenti
E aridi declini d’oppio
Il freddo aumenta nella radura
I miei polmoni rifioriscono
Con uno splendido singhiozzo
Più gelido di una incisione
Più serio di un ellenista
Al Pantheon
Mi osservi
E qualcosa da dominatore
Plasma la mia epidermide con le sue convulsive volontà
Ho aperto le mie braccia
La mia grande ferita salina
Sotto la passerella dell’inverno
E subito l’oggetto si è mosso
Timorosamente nella sua gabbia
E il violoncello acquattato
Nell’orecchio triste della scala
Come una freccia spezzata
In una boccetta d’inchiostro di China
Singhiozzava una nota colorata
O industriosa Isis
Di sofferenze orientali
Sarò un giorno delusa
Il vento rigenererà
L’erba pura del canapé
Saprò fluttuare senza barometro
Né flaccido pilone
Attorno a giare del crepuscolo
Sarò un giorno ruscello
Quando tutto in te grida fuoco?
Mi è difficile pensare alla morte
Quando sul mio ventre esitano grandi uccelli
Dai pallidi ritardi di sperma
E abilità di schiuma
Non potrò seguire la trama
Delle torture mitologiche
Né contare i gemiti
Dei coleotteri da salotto
Quando sulla spalla della tumultuosa giraffa
La tua camicia ha appena sputato la sua ombra
Non temo la collera delle stanze segrete
Né la mascella feconda dell’esercito carnivoro
Nessun uomo con me mette il suo piede
Sul pendio carbonizzato dall’odio
L’albero immerso passa al suono della cetra seducente
Mi vendicherò della tua radice con narici purpuree
La Vedova Nera chiuderà le sue labbra di pietra
Sul tuo grande nervosismo
Casto squarcio di sonno
Non riuscirai a sfuggirmi
Chi conosce il profilo del mio voluttuoso rosone
Ancora più frenetico
Dell’anemone freddoloso
Bagna il suo stretto gambo
Nell’onda dell’altra Senna
Perché le mie dita portano
Piccole teste di morto
Alle loro dolci estremità
Questi ardenti serpenti dalle unghie raffinate
Stuzzicano il tuo orgoglio senza mai demordere
Quante calamità sotto i trespoli della banchisa
Distesa come l’orizzonte nell’oblò di un formicaio
Anch’essa defenestrata
Scavalco la tua bocca
La tua balaustra
Stendo
Il mio grosso ricciolo
Di filigrana
Sulla cascata del tuo vigneto
Qui poco fa passava un coniglio
La sua vita errante agile e titubante
Sul candelabro dell’inazione
Dai sette bracci di supplizi
Dalle omelie antiche
Salvatemi gridò dall’alto della sua passione
Nessuno udì il brulotto amaranto
La tua bocca appare vorace di gioie infantili
Ricordi i monti villosi d’Inghilterra
I suoi volti di fango
Macchiati
Sul pendio della settimana
Come parole declamate
Troppo forte
Nel vento infettato della tomba
Ci sono morti che respirano nella profusione tropicale
Dell’altroieri
Madri come la mia
Che sempre ricordano
Gli anniversari
Belli e luminosi presenti
Capelli e denti salati
Mammelle concave
Tristi echi da cimitero
Io aspetto sì aspetto
Credendomi libera
Da note musicali assetate di scartoffie
Da quegli occhi di basilico
Nella loro pagoda di vetro
Che fanno fermentare incubi sotto le loro sottane nerastre
E che gridano
È davvero necessario
Giurare fedeltà
Su un biglietto da visita
Quando il tempo nella sua nicchia
Diserta la scuola?
So che sotto il ponte
Sono annegati i tuoi occhi folli
Notre-Dame socchiude le sue sapienti cosce gotiche
Più potenti e più fiere
Di patiboli e belladonna
Esse rinchiudono il tuo rosso viso
Nel rombo del venerdì
Vedo
Un lettino di ferro
Con addobbi stucchevoli
E volute da lebbrosario
Un’ampia scelta di ampollosità
Sul tuo petto tempestato
Di gioielli esclusivi
Sento il tuo sesso chiazzato di profumi
Feroce coprivaso in porcellana
Sprofondare nella mia retina
Esplosioni e lacerazioni di spasmo vaginale
Bisogna impedire all’impiccato
D’ingoiare la sua lingua
Sento sul mio coccige
Un battere doloroso
Vorrei scivolare pensosa
Nella bianca crema delle tue arterie
Scorrere la mia mano nuda sulle vertebre umidicce della tua corolla
Domare la tua pianta ramata dai barbari coni di neve
Io sono il turbine di Gomorra
[La Brèche, n. 5, ottobre 1963]