d-s-a0342ae54f4a43898433bc4e470a1cc468bd96d3-m-jpg.jpg

****

Joyce Mansour


Ti credevo rosso

Becco tumido della mia tenerezza

Indifferente

Materia gommosa dalle linee sfuggenti

E aridi declini d’oppio

Il freddo aumenta nella radura

I miei polmoni rifioriscono

Con uno splendido singhiozzo

Più gelido di una incisione

Più serio di un ellenista

Al Pantheon

Mi osservi

E qualcosa da dominatore

Plasma la mia epidermide con le sue convulsive volontà


Ho aperto le mie braccia

La mia grande ferita salina

Sotto la passerella dell’inverno

E subito l’oggetto si è mosso

Timorosamente nella sua gabbia

E il violoncello acquattato

Nell’orecchio triste della scala

Come una freccia spezzata

In una boccetta d’inchiostro di China

Singhiozzava una nota colorata

O industriosa Isis

Di sofferenze orientali


Sarò un giorno delusa

Il vento rigenererà

L’erba pura del canapé

Saprò fluttuare senza barometro

Né flaccido pilone

Attorno a giare del crepuscolo

Sarò un giorno ruscello

Quando tutto in te grida fuoco?


Mi è difficile pensare alla morte

Quando sul mio ventre esitano grandi uccelli

Dai pallidi ritardi di sperma

E abilità di schiuma

Non potrò seguire la trama

Delle torture mitologiche

Né contare i gemiti

Dei coleotteri da salotto

Quando sulla spalla della tumultuosa giraffa

La tua camicia ha appena sputato la sua ombra


Non temo la collera delle stanze segrete

Né la mascella feconda dell’esercito carnivoro

Nessun uomo con me mette il suo piede

Sul pendio carbonizzato dall’odio

L’albero immerso passa al suono della cetra seducente

Mi vendicherò della tua radice con narici purpuree

La Vedova Nera chiuderà le sue labbra di pietra

Sul tuo grande nervosismo

Casto squarcio di sonno

Non riuscirai a sfuggirmi


Chi conosce il profilo del mio voluttuoso rosone

Ancora più frenetico

Dell’anemone freddoloso

Bagna il suo stretto gambo

Nell’onda dell’altra Senna

Perché le mie dita portano

Piccole teste di morto

Alle loro dolci estremità

Questi ardenti serpenti dalle unghie raffinate

Stuzzicano il tuo orgoglio senza mai demordere


Quante calamità sotto i trespoli della banchisa

Distesa come l’orizzonte nell’oblò di un formicaio

Anch’essa defenestrata

Scavalco la tua bocca

La tua balaustra

Stendo

Il mio grosso ricciolo

Di filigrana

Sulla cascata del tuo vigneto


Qui poco fa passava un coniglio

La sua vita errante agile e titubante

Sul candelabro dell’inazione

Dai sette bracci di supplizi

Dalle omelie antiche

Salvatemi gridò dall’alto della sua passione

Nessuno udì il brulotto amaranto


La tua bocca appare vorace di gioie infantili


Ricordi i monti villosi d’Inghilterra

I suoi volti di fango

Macchiati

Sul pendio della settimana

Come parole declamate

Troppo forte

Nel vento infettato della tomba

Ci sono morti che respirano nella profusione tropicale

Dell’altroieri

Madri come la mia

Che sempre ricordano

Gli anniversari

Belli e luminosi presenti

Capelli e denti salati

Mammelle concave

Tristi echi da cimitero


Io aspetto sì aspetto

Credendomi libera

Da note musicali assetate di scartoffie

Da quegli occhi di basilico

Nella loro pagoda di vetro

Che fanno fermentare incubi sotto le loro sottane nerastre

E che gridano

È davvero necessario

Giurare fedeltà

Su un biglietto da visita

Quando il tempo nella sua nicchia

Diserta la scuola?


So che sotto il ponte

Sono annegati i tuoi occhi folli

Notre-Dame socchiude le sue sapienti cosce gotiche

Più potenti e più fiere

Di patiboli e belladonna

Esse rinchiudono il tuo rosso viso

Nel rombo del venerdì


Vedo

Un lettino di ferro

Con addobbi stucchevoli

E volute da lebbrosario

Un’ampia scelta di ampollosità

Sul tuo petto tempestato

Di gioielli esclusivi

Sento il tuo sesso chiazzato di profumi

Feroce coprivaso in porcellana

Sprofondare nella mia retina


Esplosioni e lacerazioni di spasmo vaginale

Bisogna impedire all’impiccato

D’ingoiare la sua lingua

Sento sul mio coccige

Un battere doloroso

Vorrei scivolare pensosa

Nella bianca crema delle tue arterie

Scorrere la mia mano nuda sulle vertebre umidicce della tua corolla

Domare la tua pianta ramata dai barbari coni di neve

Io sono il turbine di Gomorra



[La Brèche, n. 5, ottobre 1963]