Katerina Gogou
Difendo Anarchia
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Come attrice, Katerina Gogou (1940-1993) non ha fatto parlare molto di sé nell’ambiente del cinema, avendo recitato sì in numerosi film ma (quasi) sempre con ruoli da comparsa. Ma come poetessa, era e rimane la bestia nera della letteratura moderna greca. Nata sotto l’occupazione nazista, passata attraverso il regime dei colonnelli e la Resistenza, ha dato voce all’anima nera del quartiere Exarcheia di Atene, vivendone e cantandone la rivolta anarchica e la disperazione umana. Nelle sei raccolte di poesie da lei pubblicate c’è spazio solo per questo suo mondo, il sottobosco fatto di prostitute, drogati, pazzi, fuorilegge, sovversivi. Dopo aver a lungo contribuito alla rinascita del movimento anarchico greco, Katerina Gogou trascorse i suoi ultimi anni dentro e fuori le cliniche psichiatriche. Morì per una overdose di pillole e alcol; ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone.
***
25 maggio
Un mattino aprirò la porta
e uscirò per strada
come ieri.
E non penserò a nulla se non
a un pezzo di padre e un pezzo di mare
— quello che m’hanno lasciato — e la città.
La città che hanno fatto decomporre.
E i nostri amici che si persero.
Un mattino aprirò la porta
dritta dritta nel fuoco
e come ieri entrerò
urlando «fascisti!»
alzando barricate e tirando pietre
con una bandiera rossa a splendere nel sole.
Aprirò la porta
ed è ora che ti dica
— non che abbia paura —
ma ecco, vorrei dirti di come non ho fatto in tempo
e di come tu debba imparare
a non scendere in strada
senza armi come me
— perché io non ho fatto in tempo —
perché allora ti perderai, come me
«indeterminata»
fatta a pezzi
di mare, infanzia
e bandiere rosse.
Un mattino aprirò la porta
mi perderò con il sogno della rivoluzione
nella sconfinata solitudine delle strade
che bruceranno,
nella sconfinata solitudine di barricate di carta
con il solito titolo — non gli credere! —
di «provocatore».
*
Non rimane nessuno in questa città
Non rimane nessuno in questa città!
Non rimane nessuno?
Cos’è successo che i suoi abitanti se ne sono andati via di fretta
e hanno lasciato le porte aperte,
le luci accese...
Grossi uccelli ciechi si scontrano
con le ali spiegate
terrorizzati
Il mare entra dentro in città
sommerge la terraferma metodicamente
una nave di lebbrosi dementi
naviga fuori dalle porte
e si dispiega lentamente... piano...
lentamente...
Gli anni della mia infanzia
bambini inflessibili, induriti
dissepolti da un cane giallo
che di continuo me li riporta
salgono le acque
le mie mani si mettono in croce da sole
come morte.
Non c’è nessuno qui?
Nessuno?
Nessuno
Guardo davanti una strada bianca di sabbia
Di nuovo la fosca barca con la fenice di pietra
e il barcaiolo di marmo
In questo posto non c’è neanche un bambino
BZZZZUNBBBZZZUNNN
un bambino?
Vieni che giochiamo alle automobiline. Vieni bambino!
Vieni, uccellino? Cip cip cip cip cip, vieni!
Vieni, uccellino...
Quale ricordo umano mi trattiene qui?
Giorgos...
Myrtò...
Di quale terrore il segno mi trattiene qui,
cui non è stata resa giustizia?
Giorgos...
Myrtò...
Di quale pianeta la fine vergognosa
m’hanno lasciato come spauracchio perché qui io morissi di paura...
Perché non passo oltre,
dove il vento ferisce i fuochi a baionetta?
Sono rimasta come goccia da una stalagmite.
Dentro questa bottiglia vuota,
l’hanno gettata via un’estate di tanto tempo fa
i miei amici.
E ci rimango dentro.
Altri tempi lontani
che ritorneranno,
l’ultimo SOS di solidarietà
da decifrare.
*
La solitudine
La solitudine...
non ha il colore triste degli occhi
di un’amante rannuvolata.
Non gironzola indolente
ancheggiando in sale da ballo
e gelidi musei.
Non è fatta di gialle cornici dei «buoni» tempi andati
e di naftalina nei bauli della nonna
di nastri viola e cappelli di paglia a larga tesa.
Non allarga le gambe con risolini soffocati
sguardo bovino sospiri trattenuti
e biancheria intima assortita.
La solitudine.
Ha il colore dei pakistani la solitudine
e si misura a piatti
insieme ai loro cocci
sul fondo di un pozzo di luce.
Sta paziente in piedi in coda
Bournazi – Aghìa Varvàra – Kokkinià
Toumba – Stavropoli – Kalamarià
Con ogni tempo
le suda la testa.
Eiacula urlando cala la saracinesca incatenata
occupa i mezzi di produzione
accende fuochi nella proprietà privata
di domenica è una visita parenti ai carcerati
nel cortile hanno lo stesso passo sia i criminali che i rivoluzionari
la si vende e la si compra soldo a soldo respiro a respiro
nei mercati degli schiavi della terra — qui vicino c’è piazza Klotziàs —
svegliati di buon’ora
Svegliati per vedere.
È una puttana nelle case di malaffare
è il «turno tedesco» per il fante in sentinella
e gli ultimi interminabili chilometri della strada nazionale — centro
per le carni appese a un gancio dalla Bulgaria.
E quando il suo sangue è strozzato e non ha altro in mano
perché stanno svendendo la sua gente
balla scalza uno zeibekiko sopra il tavolo
reggendo nelle sue mani tumefatte
una scure bene affilata.
La solitudine
la nostra solitudine dico.
Della nostra sto parlando
è una scure nelle nostre mani
che rotea sopra le vostre teste
rotea rotea rotea.
*
Verrà un tempo
Verrà un tempo in cui le cose cambieranno.
Ricordatelo Maria.
Ricordi, Maria, durante gli intervalli quel gioco
in cui correvamo tenendo in mano il testimone
— non guardare me — non piangere.
Sei tu la speranza,
ascolta, verrà un tempo
in cui saranno i figli a scegliersi i genitori
non usciranno a vanvera
non ci saranno porte chiuse
con persone curve al di fuori
e il lavoro saremo noi a sceglierlo
non saremo dei cavalli a cui si guardano i denti.
Le persone — pensaci! — parleranno con colori,
altre con note.
Conserva soltanto
in una grande bottiglia d’acqua
parole e significati come questi
disadattati – oppressione – solitudine – prezzo – guadagno – umiliazione
per la lezione di storia.
Maria — non voglio dire bugie —
sono tempi difficili.
E ne verranno altri.
Non lo so — non aspettarti troppo da me —
questo ho vissuto, questo ho imparato, questo dico
e di tutto quello che ho letto una cosa ho trattenuto bene:
«L’importante è rimanere umani»
La cambieremo, la vita!
Nonostante tutto, Maria.
*
Qualche volta
Qualche volta si apre la porta piano piano, ed entri.
Porti un vestito tutto bianco e scarpe di lino.
Ti chini e mi infili affettuosamente nel palmo della mano
settantadue dracme e te ne vai.
Ho aspettato dove mi hai lasciata
affinché tu mi ritrovassi.
Però dev’essere passato molto tempo
perché mi si sono allungate le unghie
e i miei amici hanno paura di me.
Ogni giorno mi cucino patate,
non ho più un briciolo di fantasia.
E quando sento chiamarmi Katerina, mi spavento.
Bisogna, credo, che denunci qualcuno.
Ho conservato dei ritagli di giornale con sopra
qualcuno che, dicono, sei tu.
So che i giornali mentono,
perché hanno scritto che ti hanno sparato alle gambe.
Lo so che non mirano mai alle gambe.
Il Bersaglio è il cervello.
Stai attento, eh?
*
Gli amici per quanto mi riguarda
Gli amici per quanto mi riguarda sono neri uccelli
che fanno l’altalena sulle terrazze
di case sgarrupate
Exarchìa via Patissia Metaxourghìo Mets.
Fanno quello che gli capita.
Rappresentanti di ricettari ed enciclopedie
aprono strade e uniscono deserti
interpreti al cabaret di via Zenone
rivoluzionari professionisti
messi spalle al muro hanno mollato
ora prendono pasticche e alcol per
addormentarsi
ma sognano e stanno svegli.
Le mie amiche per quanto mi riguarda sono fili di ferro tesi
sulle terrazze di case vecchie
Exarchìa Victoria Concaki Grizi.
Ci avete conficcato milioni di mollette di ferro
le vostre colpevoli decisioni congressuali
sottane in prestito
bruciature di sigarette
strane emicranie
silenzi minacciosi leucorree
s’innamorano di omosessuali
tricomoniasi ritardo mestruale
il telefono il telefono il telefono
gli occhiali rotti l’ambulanza nessuno.
Fanno quello che gli capita.
Sono sempre in giro i miei amici
perché gli state col fiato sul collo.
Tutti i miei amici dipingono col nero
perché gli avete distrutto il rosso
scrivono in una lingua nota solo a loro
perché la vostra è buona solo per leccare.
I miei amici sono uccelli neri
e fili di ferro
sulle vostre mani e alla vostra gola.
I miei amici.
*
Col rosso
Con la testa in frantumi
per la morsa delle vostre contrattazioni
nell’ora di punta
e contromano
darò fuoco a un gran falò.
E lì ci butterò
tutti i libri di marxismo
in modo che Mirtò non sappia mai
le cause della mia morte.
Potete dirle
che non ho retto alla primavera
o che sono passata col rosso
sì... questo è più credibile.
Col rosso questo dovete dire
col rosso...col rosso
questo dovete dire...
Questo è più credibile
col rosso... questo dovete dire
col rosso, col rosso
questo dovete dire.
Col rosso, col rosso,
col rosso.
*
Come fa presto ad andarsene la luce
Come fa presto a andarsene la luce dalla nostra vita, fratello mio...
Dentro le nostre palpebre allergiche
lentamente la vita preme con le unghie
sta’ a vedere che le scopriamo il gioco
si allontana si dilegua... guarda è diventata un puntino gira l’angolo... sparita.
Buuuuuio!
Guardo dei negativi fotografici e sembrano persone
tizzoni rossi nei loro occhi di lupi in trappola
unghie in prestito — come si sono ridotti così — dentiere straniere
sanguisughe si attaccano alla nostra laringe tirano i nostri bottoni
sta’ a vedere che tiriamo avanti ancora un po’.
Sono quelli del treno — li ricordo bene
che quando decidemmo il nostro primo sogno di metterci in viaggio
ci scaraventarono sulle rotaie dell’elettrificata
come sacchi vuoti in un passaggio incustodito
come peso superfluo.
Quelli che: «siamo vissuti» — scritto tra virgolette
con mille canne ci tengono sotto tiro
dalla terrazza della compagnia telefonica
freddo freddo e melò nelle nostre magliette di cotone
facciamo come se avessimo il cappotto
e un nervo viola — hai visto, tutti noi l’abbiamo —
colpisce ancora sotto il nostro occhio.
Quanto è cara la vita, fratello mio
quant’è scaduta la qualità, coraggio.
Parecchie volte — ma io non mollo
vanno in testa-coda gli antidepressivi
e la bilancia oscilla
davanti non c’è altro allora piego il collo e mi prendo tra i denti
il mio cervello sanguinante e vado indietro indietro torno indietro
per salvarmi
e poi non trovo la strada
perché anche là è tutta merda — come se non lo sapessi —
dappertutto cancelli sfondati e crateri di obice
mi spavento mi confondo per un nonnulla non ho dove andare
solo la porta del SUPERMERCATO è aperta
e mi ci piazzo dentro
come un avvoltoio guardo dove vanno a finire i soldi
e il valore d’uso
delirium tremens lo chiaman loro IO HO VOGLIA DI RUBARE
Allora mi metto davanti tutti gli stereo a suonare tutti insieme
ogni marca una musica diversa
e gli altoparlanti al massimo a spaccare le orecchie
e poi con una buona forbicina Singer
taglio in tondo le loro bocche le allargo
sopra ci incollo la mia anima bacio della morte
e ci svuoto dentro gli psicofarmaci
le loro farmacie e insieme i loro farmacisti.
Morte a Bisanzio e al diavolo le dinastie
il diaframma della mia etnia le pacifiche invasioni
le Kodak e le G. Stavru in vendita allettanti
che vadano a morire.
Morte agl’Immortali
bandiere nere e rossa la luce si apre
— SI APRIRÀ — la strada la bocca
gli occhi il cuore e il cervello.
Così si deve fare cadrà la porta.
E la macchina con l’antico rullino. No. No sempre e sempre gli uomini
negativi neri e noi BRUCIATURE DI SOLE.
*
9 anni
Quando la mattina ti sveglierai
e non troverai sul pavimento
pillole maglione e reggiseno
e busserai forte alla porta
senza sentire dietro te il mio isterico «piantala»
non scoppiare a piangere ma vieni a cercarmi
nella foto di me bambina che ti guarda.
Io non ho mai veduto.
Nemmeno nel mio stupido scrivere. Ti ho mentito.
Ti dicevo sempre com’erano belli gli uomini i colori e la musica.
Tu conteggia solo il cottimo che ho fatto
e con quello saprai come sono vissuta.
Conteggia poi l’affitto
mai ci bastavano a pagarlo.
E quanta luce ho bruciato
cercando un modo.
E va’ avanti, e va’ a chiedere a tuo padre
per l’ultima volta i soldi
e digli che sono in debito.
Poi sciacquati la faccia
e non lasciare che nessuno ti dica
cosa è successo a tua madre.
Solamente con queste
prove stupide
costruisci un sole di quelli che solo tu hai in mente
e sotto questo sole
scrivi con le tue divertenti lettere infantili
HA SALDATO! SALDATO! SALDATO! HA SALDATO!
*
Chiuso. Questo era.
Chiuso. Questo era.
Vedi, mi s’è perduta la vita
fra uomini gialli
vetri sporchi
e compromessi indicibili.
Comincio a invecchiare
come quel piccolo salice
che t’avevo mostrato all’angolo della strada.
E non è che voglio vivere.
È, cazzo, che non sono vissuta.
E che non ti rivedrò.
*
Antropogonia
Perché ombre sono gli dèi, inumani,
fra chi è sepolto.
Dentro le nubi e in monti e statue della notte
si conficcano
invidiarono l’uomo hanno, invidiano
e hanno paura.
E gli intermediari
goffi, zoppi e superbi
portatori d’acqua
in anfore bucate
con l’amore
e con i sogni
portarono ai mortali
il terrore
per follia o per morte
di voler essere immortali
alla terra inchiodati.
E incisero dovunque
in corpo, in anima e mente
con il mito
che malattia offensiva è la solitudine
e non libertà.
E sulla malattia in suppurazione
mentirono molto
perché imparassero a correre
così da smarrire la visione
dell’invisibile e della politica
perché è il tempo più veloce
che agisce immobile.
E ancora peggio
della pena e del nutrimento
della loro autodistruzione
con grande inganno chiamarono «eroi»
i nostri beneamati mortali
derivato dell’eroina.
E gli dei come sommo violento potere
resero onore ai cortigiani
chiamandoli con ironia semidei.
E gli intermediari — semidei
che si nascondono dietro le muse
e con alti calzari
definirono il nome
di sé poeti e consolatori
ma è sempre con loro la nostra guerra
e loro — se sono — sono utili
nelle pause di pace.
Tanto hanno sofferto i mortali
che al giacinto
avevano unito l’anima
e puri, belli e splendenti
non sapevano
il tradimento
e gli avevano creduto.
Ma ora muoviti
curiamo con calma
le nostre ali lucenti
cominciamo daccapo la strada
usciamo nella radura
non capiti che altri di noi
bevano un’acqua d’oblio
e così pur essendoci uguali
soffrano di grandi passioni
e così come noi maledicemmo
loro ci maledicano.
*
[Bianca]
Bianca è
la razza ariana,
il silenzio,
i globuli bianchi,
il freddo,
i camici dei dottori,
gli abiti dei morti,
l’eroina.
... Queste poche parole per restituire il nero.
*
[Ciò che temo di più...]
Ciò che temo di più
è di diventare «un poeta»...
Chiudermi in una stanza
ad ammirare il mare
e dimenticare...
Ho paura che i punti sulle vene possano cicatrizzare
e, invece di avere ricordi confusi sulle notizie alla televisione,
mi metto a scarabocchiare fogli e a vendere «le mie opinioni»...
Ho paura che quelli che ci hanno scavalcato possano accettarmi
in maniera da usarmi.
Ho paura che le mie urla possano diventare un mormorio
utile a far addormentare la mia gente.
Ho paura che potrei imparare ad usare la metrica e il ritmo
finendo intrappolata dentro di essi
desiderando che i miei versi diventino canzoni popolari.
Ho paura che potrei comprare binocoli per far avvicinare
le azioni di sabotaggio a cui non prendo parte.
Ho paura di diventare stanca — facile preda per preti e accademici —
e trasformarmi così in una «femminuccia»...
Loro hanno le loro maniere...
Loro possono utilizzare la routine a cui sei abituato,
ci hanno trasformato in cani:
ci guardano mentre ci vergogniamo di non lavorare...
ci guardano essere orgogliosi di essere disoccupati...
Ecco com’è.
Psichiatri entusiasti e schifosi poliziotti
ci stanno aspettando all’angolo.
Marx...
Ho paura di lui...
La mia mente va anche oltre a lui...
Quei bastardi... è loro la colpa...
Merda, non riesco nemmeno a finire di scrivere...
Forse... eh?... forse un altro giorno...
*
[n. 17]
Ero un albero che si è spezzato
Hanno spezzato tutti i miei rami
Perché tutti i bambini perduti vi trovavano rifugio
Per giocare all’impiccato
*
Difendo ANARCHIA
Non mi fermare. Sto sognando.
Abbiamo vissuto a capo chino secoli di ingiustizia.
Secoli di solitudine.
Ora no. Non mi fermare.
Ora e qui, per sempre e ovunque.
Ho un sogno di libertà.
Facciamo sì che la bellissima unicità
di ciascuno
ripristini
l’Armonia dell’Universo.
Avanti, giochiamo. Conoscenza è gioia.
Non è una mobilitazione scolastica.
Io sogno perché amo.
Grandi sogni nel cielo.
Gli operai delle fabbriche occupate
produrranno cioccolata per il mondo.
Io sogno perché SO e POSSO.
I banchieri generano i «rapinatori»
Le prigioni i «terroristi»
La solitudine gli «emarginati»
Il prodotto il «bisogno»
I confini gli eserciti.
La proprietà tutto.
Violenza genera violenza.
Non domandare. Non mi fermare.
È il momento di ristabilire
la sublime prassi dell’etica.
Facciamo della Vita una poesia.
E della Vita una prassi.
È un sogno possibile possibile possibile.
TI AMO
e non mi fermare, non sto sognando. Sto vivendo.
Tendo le mani
all’ Amore alla solidarietà
alla Libertà.
Quante volte sarà necessario e sempre dal principio
Difendo ANARCHIA