d-f-1f8f1bf3c245eb0c712cf916582263c52d74f3d3-m-jpg.jpg


«Vi ho avvisato… Non ho nulla di molto eroico da raccontare,

nulla per la penna di uno scrittore»

Arkadi Filine, liquidatore di Chernobyl


La catastrofe di Fukushima non esiste. La catastrofe di Fukushima non ha avuto luogo. Quale catastrofe?

La frequentazione assidua di disastri ce ne fa perdere la realtà. A malapena un’ombra passa ancora sulle nostre anime abituate all’orrore. L’immaginazione si inaridisce e l’empatia si copre con una patina di fronte a reattori in fusione, di fronte all’imperizia ridicola delle risposte tecniche, di fronte all’incommensurabile inquinamento del paese, in poche parole, di fronte al naufragio di un mondo. Il clamore delle crudeli notizie dal Giappone, se ci affligge, assorda soprattutto la nostra percezione della realtà materiale e politica dei fatti.

Perché l’evidente necessità di farla finita con il nucleare non ci colpisce tutti alle viscere?

Dopo Hiroshima e Nagasaki, la guerra fredda ci aveva abituati a vedere le cose in grande. La minaccia permanente della Bomba ci preparava al peggio. Quando all’improvviso, nell’aprile del 1986, bang, scoppia la centrale di Chernobyl. Trattenendo il respiro, tutti hanno alzato timidamente gli occhi verso l’incubo realizzato. E cosa si è visto? Nulla, o quasi nulla. Quando i media hanno avuto accesso alla scena del crimine sovietico e hanno svelato i segreti mal custoditi dal Cremlino, si sono visti dei pompieri tragicamente grandguignoleschi sul tetto della centrale mentre tentavano di spegnere un incendio. Tutto qui. È così che la catastrofe che ha avuto luogo non è accaduta in un certo senso per il resto del mondo. «È stato tanto tempo fa e non è vero», ci diceva Anatoli Saragovet, liquidatore bielorusso, quando morì per questa battaglia infinita alcuni anni più tardi. Come commuoversi della lenta agonia dei liquidatori e dei milioni di abitanti toccati per sempre dalla contaminazione, questo male invisibile? Ed oggi, cosa c’è di meno spettacolare della contaminazione di terre e mari, città e campagne giapponesi? Cosa di meno wagneriano della morte lenta degli abitanti del Giappone in un quotidiano apparentemente immutato?

Il tempo della catastrofe si allunga inesorabilmente, impossibile da abbracciare per la comprensione dei mortali.

La vera catastrofe nucleare non è che tutto si fermi, ma che tutto continui. La Bomba non ha distrutto il mondo, ma ha aperto un nuovo periodo del dominio. Il terrore provocato dalla minaccia dell’apocalisse nucleare produce solo un effetto: fissare l’ordine delle cose. Bisognerebbe preservare la specie, e magari salvarsi la pelle. Per perfezionare questo programma di glaciazione sociale del dopo-guerra, bisogna civilizzare l’atomo: la Bomba partorisce fabbriche di elettricità. Presa nella morsa fra l’incubo della distruzione totale e il sogno di una energia illimitata, vedrà il giorno una nuova umanità. Una umanità confinata nel reparto elettrodomestici e perennemente incatenata a un regime di sopravvivenza economica. In mancanza del possesso sulla propria vita, si avrà possesso dappertutto sulla propria cucina. Diventato indispensabile, il nucleare non ha di conseguenza più bisogno di grandi discorsi per continuare ad imporsi.

«Anche se ci fosse un incidente come questo tutti gli anni, considererei il nucleare come una energia interessante», ci dice Morris Rosen, direttore della sicurezza nucleare dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA) quattro mesi dopo Chernobyl.

Non è il cinismo di un solo uomo ad esprimersi qui, ma il credo di una società nuclearizzata che ci fa condividere la responsabilità del disastro. Ed oltre ad essere spossessati delle nostre condizioni di esistenza, dovremmo accettare sessanta anni di sfrenata copulazione fra Stato e nucleare. Il nucleare ci assegna un posto: quello di prigionieri di un mondo chiuso dove ogni fottuta aspirazione alla libertà urta contro i muri delle installazioni nucleari, e si perde nel tempo infinito delle scorie. Ben presto, impregnati di fatalismo, saremo costretti a vedere nel nucleare solo un’energia fra le altre.

Dovremo accontentarci di contare i morti.

Alla fine degli anni ottanta, per l’ultima volta in questo paese, intere comunità percepirono il nucleare così com’è: una bomba travestita da fabbrica di nuvole, la fine di un rapporto con il mondo, una ultima perdita di autonomia. Queste lotte di massa contro l’installazione di centrali sono state sepolte nelle urne nel 1981. La nuclearizzazione prosegue senza ostacoli nella tetraggine degli anni rosa. La giovane burocrazia verde nata sul cadavere delle lotte finisce col fare del nucleare una questione separata, tecnica, ambientale, che spazza via la questione sociale.

Alcuni dei nostri antenati hanno rifiutato di allineare il nucleare nel reparto delle energie.

Nel 1986 essi hanno fatto «la scommessa che il disastro di Chernobyl farà vacillare la rassegnazione del fatto compiuto». Persa. Tuttavia hanno dimostrato a che punto la catastrofe era diventata uno dei motori della burocratizzazione del mondo, portando avanti così la critica del nucleare come gestione sociale. Siamo eredi di questo sguardo disperato ma non rassegnato. Non si esce dal nucleare come si fa uscire la propria spazzatura.

Non è la promessa di una vittoria contro questa società nuclearizzata a sostenerci, ma la necessità della lotta. Sappiamo ciò che si guadagna lungo il cammino.

Lo stupore di fronte alla catastrofe di Fukushima non basterà in sé a rilanciare una opposizione conseguente contro questo mondo nuclearizzato. Tanto più che il rullo che comprime le urla dei giapponesi è già passato da Chernobyl. Venticinque anni di gestione sociale delle conseguenze di questa catastrofe hanno preparato gli strumenti della burocrazia degli anni 2000. Essa lo sa: fare scomparire la realtà sociale di una catastrofe è innanzitutto faccenda di ripartizione di tempi, una questione di agenda. Catastrofare, liquidare, evacuare, riabilitare, banalizzare, altrettanti episodi di un feuilleton destinato a farci dimenticare Fukushima.

Del Giappone non conosciamo granché, bisogna ammetterlo.

Incollata ai cartoni animati degli anni 1980, la generazione Chernobyl ha incrociato solo qualche estremità della sua cultura di massa. Non sappiamo che il videoregistratore della nostra infanzia era della stessa marca della centrale di Fukushima Daiichi. Poi alcune parole di giapponesi che scoprivano la nuda violenza dello Stato si sono aperte un varco attraverso la nebbia dell’informazione digitale. Per quanto siano parziali e talvolta contraddittori, questi resoconti dimostrano in maniera eclatante fino a che punto il nucleare ostruisca l’orizzonte.

Cosa possono fare i giapponesi se non esigere di misurare la contaminazione? Cosa possono sperare mentre agonizzano in attesa di curarsi? Quale libertà può esplorare un bambino in un mondo in cui non può toccare il ramo di un albero? Come raccontarsi una vita per quanto poco sia libera con un dosimetro in tasca?

La catastrofe in cui si dibattono i giapponesi agisce come uno specchio ingrandente. Noi riconosciamo nel destino che viene preparato a quelle persone laggiù il destino che ci viene preparato qui. Vi percepiamo il disprezzo dello Stato, i rapporti sociali alienati, lo sfruttamento dei lavoratori sacrificati, la medicalizzazione rampante della vita, l’economia sempre conquistatrice... e la misura come rimedio all’angoscia provocata da un mondo diventato d’un tratto estraneo.

Come far intendere a un fratello partito a vivere laggiù che andarsene non denota conoscenza in radioprotezione? Come contribuire a far riscoprire una rabbia comune?


[Oublier Fukushima, textes et documents, 2012

11/03/2015]