André Prudhommeaux
Elogio del pudore
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Se si definisce «pudore» la tendenza a nascondere agli altri (e a se stessi) certi fatti, atti, impulsi o pensieri appartenenti alla nostra «dimensione privata», alla nostra «vita intima», si constaterà presto che ogni pudore è, in fondo, quello dell’anima.
Il pudore si manifesta attraverso la ricerca di luoghi chiusi o isolati, «dove sentirsi a casa propria» — con l’uso di indumenti che ci «proteggano» da sguardi e contatti indesiderati oltre che dalle intemperie — mediante la riserva personale del linguaggio e dell’azione osservata in ciò che attiene le fragilità animali e i sentimenti profondi della nostra vita. Questa dissimulazione fa incontestabilmente parte dell’«arte di vivere». Vivere conservando la propria integrità, la propria dignità e la propria indipendenza personali; e, lo aggiungiamo subito, rispettando quelle degli altri; ecco il pudore, virtù essenzialmente individualista.
Essendo nel contempo una virtù sociale (altruista per introiezione), ci scandalizziamo nel vedere altri mancare di pudore e ci sforziamo di non esercitare su altri uno choc affettivo dello stesso genere. In effetti è sconvolgente vedere un essere umano ostentare compiaciuto i lati sordidi o ripugnanti della sua natura, le sue pretese dominatrici, la sua insignificanza o la sua ignavia, il suo eretismo sessuale o sentimentale, la sua mancanza di rispetto per se stesso e per gli altri. La simpatia, questa sociabilità riflessa, esige che freniamo in noi stessi le tendenze all’esibizionismo e al voyerismo, che violano entrambe l’intimità altrui, sia imponendogli la nostra come spettacolo indesiderabile, sia sorprendendo la sua in modo offensivo per lui e per chi ha vicino.
Riflesso di difesa davanti a chi ci tratta come un mero strumento, un oggetto, una cosa al servizio dei suoi istinti — il pudore conserva il carattere distintivo della nostra umanità acquisita, e della nostra unicità individuale. Esso è un indumento vivo, un’epidermide mentale.
Gli si rimprovera d’essere una convenzione, un sentimento fittizio, un prodotto dell’educazione e della tradizione, un «pregiudizio», e si sottolinea a tale proposito che il pudore assume le forme più bizzarre e più contraddittorie a seconda dell’ambiente, del clima, del credo, della moda, delle circostanze della vita. A questo occorre rispondere anzitutto che la civiltà nel senso più ampio della parola è nel complesso un pregiudizio, un prodotto dell’educazione e della tradizione, un «artificio» aggiunto alla «natura»; tutta la questione consiste nel sapere se questo artificio sia una acquisizione valida oppure no. Ora, il pudore — che si presenta a noi sotto aspetti infinitamente vari — non è mai assente dalla psicologia umana, cosa che ci fa pensare che esso sia probabilmente un elemento costitutivo del «genio» della nostra specie, un appannaggio propriamente umano, che sarebbe vano o disastroso pretendere d’abolire.
È vero che il pudore è minacciato, ai giorni nostri, da parecchi nemici; ragione in più per difenderlo.
Esso ha come vecchia nemica la religione giudeo-cristiana, che pretende di esporre l’uomo, nella sua miserabile nudità e nella sua infermità, agli sguardi perennemente fissi su di lui di un Dio onnisciente, onnipresente, inquisitore e vendicatore perfetto delle nostre minime mancanze di perfezione. Ha come nemica la Chiesa, che pretende nel nome di quello stesso Dio di violare il segreto delle coscienze per mano dei suoi preti, guidarle mediante la confessione, la penitenza, l’esortazione, l’indottrinamento, la minaccia di castighi eterni, l’uso rituale dei sacramenti, ecc., ecc.
L’animo umano non viene trattato meglio dalla scienza. Contro di esso la psichiatria, la tossicologia, la chirurgia del cervello, la macchina della verità, l’ipnosi, l’elettrochoc, costituiscono un arsenale da stupro, un bordello-laboratorio, un giardino dei supplizi che assomiglia ai leggendari castelli di un Sade o di un Kafka. Per forzare l’anima, per strapparle il suo segreto, per decomporla in elementi omogenei classificabili, dosabili, etichettabili in vasetti, tutte le tecniche sono messe in atto.
I test, i questionari, i curricula vitae, la grafologia, ecc., altrettanti «controlli incrociati» che i suoi padroni, i suoi controllori, i suoi tormentatori realizzano per svelare, deflorare, sverginare Psiche. La loro «igiene» è simile alla «salvezza» dei teologi: non è che il pretesto rivestito da una sadica volontà di potenza per distruggere ciò che si oppone alla sua curiosità di asservimento.
E che dire dello Stato totalitario, con la sua riduzione di ogni esistenza alle categorie della polizia politica? Al suo servizio, la vecchia teologia e la scienza moderna gareggiano in zelo. Il suo ideale è la casa di vetro, il panottico di Bentham, la macchina per abitare di Jeanneret, dove il materiale umano sia costantemente nella penosa condizione di ostentazione in cui si trova nelle anticamere degli ospedali, negli anfiteatri e negli uffici di reclutamento. Questo stato d’ispezione ufficiale delle carni, con lavaggio del cervello, catetere e speculum, questa operazione senza fine che fa al tempo stesso da assistenza sociale, visita sanitaria delle prostitute e autocritica bolscevica — perdurerà dall’atto genesico all’autopsia, attraverso i mille episodi di nudismo amministrativo che consistono nel nascere, procreare, vivere e morire — «gli uni alla vista degli altri», come dice Pascal — nella spaventosa promiscuità di grida, odori, parole, gesti, funzioni, aliti e rantoli di un mondo concentrazionario, il cui motto va oltre l’Inferno di Dante:
«Lasciate ogni pudore, o voi che entrate». [...]
[L’Unique, n. 93-94, marzo-aprile 1955]