Paolo Schicchi
I barbari
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Una volta, nel periodo delle persecuzioni cieche e violente, non c’era vilipendio, non c’era falsità, non c’era calunnia a cui la borghesia non ricorresse per renderci spregevoli, ridicoli, odiosi agli occhi di tutti.
Anarchia era sinonimo di delinquenza selvaggia, di delirio sanguinario, di brutale malvagità, di fanatismo stolto ecc.; e anarchico significava brigante, ladro, assassino, pazzo morale, isterico, epilettico, più o meno ignorante, più o meno grottesco, più o meno scellerato.
La maggior parte, anzi tutti i nostri persecutori, nemici ed avversari, tranne qualche rara eccezione, non si pigliavano nemmeno la briga di conoscere le teorie anarchiche, neppure superficialmente; né si curavano in alcun modo di sapere chi fossimo e che cosa volessimo.
Parlavano, insomma, di noi e delle cose nostre nella stessa guisa, nello stesso tono e colla stessa supina ignoranza con cui parecchi secoli or sono le donnicciuole e i buzzurri favellavano di Turchi e di Turchia, di Cina e di Cinesi, di streghe e di versiere, di lupi mannari e di draghi.
Questo, per altro, è un fatto che si ripete sempre al sorgere di ogni nuovo sistema religioso, politico, sociale o scientifico che porti seco un principio qualsiasi di innovazione tra i ruderi ed il marciume del passato.
Le medesime fandonie, storielle, denigrazioni, calunnie, maledizioni, hanno salutato il sorgere del Buddhismo e del Cristianesimo, dell’Islamismo e della Riforma, della filosofia socratica e dell’epicureismo, dell’Enciclopedia e della teoria darwiniana, della Rivoluzione francese e delle guerre d’indipendenza, del socialismo e dell’anarchia, dell’Internazionale e della Comune di Parigi.
Leggete ciò che i Brahmini, gli adoratori di Giove, i custodi della Kaaba, i corvi della corte papale latravano e gracchiavano contro Buddha e i buddhisti, Cristo e i cristiani, Maometto e i maomettani, Lutero e i luterani; leggete quel che i sostenitori del passato e i gufi delle tenebre vomitavano contro le nuove idee e i loro seguaci, e v’accorgerete che tutti hanno suppergiù lo stesso frasario con invettive, declamazioni, insulsaggini, ammonimenti, invocazioni, scongiuri, che si somigliano come tante gocciole d’acqua.
Tutti parlano, in nome del cielo, della morale, del sacro suolo della patria, della santità della famiglia e delle ombre degli avi, della civiltà, della libertà, ecc., ecc. E anche oggi a distanza di migliaia e migliaia d’anni, si ripetono punto per punto come l’eco.
Finito il tempo delle persecuzioni per la mirabile forza di resistenza nostra e per l’eroismo dei migliori, l’Idea anarchica non solo è stata ammessa alle aperte manifestazioni della vita; ma, grazie al valore ed al genio dei nostri scrittori scienziati, oratori e propagandisti, è entrata a bandiere spiegate nel dominio della scienza, studiata e discussa come qualsiasi altro sistema politico, sociale e filosofico.
Nel campo della scienza ufficiale però, s’intende studiata e discussa ad usum sbirrorum.
Talmente che oggi non si parla più sistematicamente di delinquenza e d’epilessia; non s’inventano più storielle e favolette medievali la notte per ricantarle poi il giorno. Ciò nondimeno restano sempre la pazzia e il disordine, o quanto meno l’utopia e la barbarie.
A sentire la malnata genia dei gaudenti e dei pagnottisti, dei servi e degli scherani, l’anarchia è una concezione barbara che ci farebbe ripiombare nel più tenebroso e torbido medio evo, e gli anarchici non sono altro, se non dei barbari.
Barbari? Ebbene sia!
Noi siamo i barbari, la nova gente, che giovane, libera e forte d’animo, di mente, di corpo si leva e marcia alla conquista del mondo.
Siamo i Franchi, gli Eruli. i Rugi, i Goti, i quali, sì come la nuova alba li chiama, calano al pari di un’immensa irrefrenabile onda procellosa per spazzar via la putredine del basso impero borghese.
Siamo i nuovi Saraceni usciti fuori come il Simun dai deserti afosi, all’assalto dell’alcove persiane e dei circhi equestri di Bisanzio.
Siamo i Vikinghi che, rotto il cerchio dei fiordi ghiacciati, passano i mari in cerca di templi per celebrarvi la messa delle lance.
Siamo gli Unni, i Mongoli, i Tartari che, dove corrono, del passato non lasciano più alcuna vestigia e portano i loro destini sulla punta d’una spada e sul dorso d’un cavallo.
Siamo i novelli cavalieri, schierati senza tregua in battaglia contro tutto e contro tutti.
Tutto ciò che è barbaro è grande, disse Giambattista Vico. L’irrompere di una gente nuova e d’una nuova idea è simile allo straripare di un gran fiume: lì per lì sembra che esso faccia il deserto, abbattendo e coprendo tutta quanta la vecchia vegetazione esausta, isterilita, tarlata, fradicia; ma poi al ritirarsi delle acque e al sopravvenire della primavera novella si vede una vegetazione più fresca, più rigogliosa, più bella, più forte rinascere dal limo fecondatore deposto sui campi ringiovaniti.
Senonché questa volta i barbari non verranno da plaghe lontane, non varcheranno mari e frontiere: essi sbucheranno di sotto ai nostri piedi.
I deserti, le steppe, le foreste, i fiordi in cui essi si annidano oggi si chiamano tuguri, capanne, officine, campi, navi, in ogni angolo della terra, dovunque vi sono oppressi ed oppressori, gaudenti e diseredati.
Nulla di meno che una nuova opera di barbari più universale, più terribile, più implacabile ci vuole per rinnovare questa società che da un capo all’altro del mondo sembra l’insieme di tutte quante le bolge dantesche. Una società in cui ogni cosa, dal cibo al vestito, dalla casa alla bottega, dal tribunale alla scuola, dall’ospedale all’officina, dalla piazza al campo, dalla scienza all’arte, è volgare, convenzionale, falsa, abbietta, corrotta, deleteria. Una società nella quale tutto, dal vivere al pensare, dal vegliare al dormire, dall’amare al parlare, è una perpetua ignobile menzogna, un succedersi ininterrotto d’infamie e d’ignominie, d’inganni e d’ipocrisie, d’iniquità e di dolori.
Un uomo con intelletto e animo veramente ribelle, uno che comprenda e senta le nuove idee di rivendicazione sociale, per quanto abbia la voglia e la volontà di mostrarsi remissivo e mite, per quanto si proponga di diventare civile (sic!) e conciliante, non riuscirà mai ad adattarsi ad una concezione fiacca, legale, rassegnata, dell’esistenza. Gli spettacoli mostruosi che di continuo si svolgono sotto i suoi occhi irresistibilmente lo spingeranno verso l’anarchismo; poiché, al dire d’uno scrittore borghese non sospetto, l’anarchismo è l’unica forma eroica della scienza e della vita moderna; esso solo dà una concezione poderosamente integrale delle umane attività e degli umani bisogni; esso solo può offrire sana, potente e nuova ispirazione all’arte. Solo l’anarchismo è rimasto a rappresentare il divenire delle folle nella rivoluzione e colla rivoluzione, e le libere e forti manifestazioni dell’individualità umana.
Tutto il resto è armeggio di cavalieri d’industria, impostura di politicanti, ripiego d’istrioni, accomodamento di schiavi, esercitazione di bizantini, vaneggiamento di rammolliti.
Mentre tutti gli altri, uomini e partiti, volgono al tramonto per confondersi coi ruderi del passato, l’idea anarchica si affaccia all’oriente, come l’aurora grandeggiante dell’inno vedico, che sembra divori il mondo nell’atto che lo illumina. E si affaccia sola come il leone.
Noi anarchici, soldati di quell’idea, non vogliamo compromessi di nessun genere, non vie traverse, non alleanze equivoche, non connubi ibridi, non aiuti di consorti, non ripieghi di cialtroni. Scendiamo in campo da soli senza contarci e senza contare i nemici, senz’altra forza che non sia la nostra.
O con noi o contro di noi.
Checché altri ne pensino, noi non conosciamo crisi. Possono, sì, notarsi degli abbattimenti, delle degenerazioni, degli inquinamenti; possono esserci giorni di sconforto e periodi d’apatia; ma si tratterà sempre di fenomeni passeggeri, perché tutto ciò che sotto qualsiasi forma e nome potrebbe esser causa di cancrena e morte, l’anarchismo presto o tardi lo rigetta. Non avendo palestre per farabutti, mangiatoie per arrivisti, baracconi per commedianti, chiesuole per preti, botteghe per merciaioli, non può rimanere a lungo avvelenato da elementi tossici.
Caduto un momento, esso si rialza più forte e più temuto di prima.
Noi non riconosciamo che una sola autorità: la scienza; non abbiamo che una sola legge: la forza; non miriamo che ad un solo ed unico fine: alla rivoluzione sociale. E non deporremo mai le armi finché non avremo vinto.
[Cronaca Sovversiva, anno VIII, n. 22 del 28 maggio 1910]