Luigi Fabbri
«I diritti dell’Uomo e del Cittadino»

Ciò che sta avvenendo ora in Francia contro gli stranieri è qualche cosa che sarebbe parso impossibile qualche anno fa e parrebbe pur oggi incredibile a molti, se i fatti non parlassero anche troppo. Episodi isolati di malevolenza se ne sono sempre avuti, specialmente sotto la spinta di qualche sordido interesse particolare; ma il fenomeno xenofobo sta prendendo da qualche tempo un carattere di generalità, per lo meno apparente, che non può non preoccupare.
Si tratta, è vero, d’una montatura in gran parte artificiosa, perché lo spirito collettivo francese vi è ancora alieno. Ma le grandi maggioranze, che prima avrebbero reagito, ora lasciano fare, preoccupate egoisticamente dei casi loro, che non sono neppur essi molto rosei. La crisi economica, benché meno acuta che negli altri paesi, aumenta il malessere e il malumore generale. La crisi politica, la crescente insicurezza del domani, i timori di guerra fanno il resto. E si attribuisce genericamente, senza ragionare, la causa di molti mali agli stranieri, così come in altri paesi ed in Francia stessa in altri tempi la si attribuiva agli ebrei. I più sanno che è una sciocchezza, ma trovano comodo che il malumore dei più incoscienti si sfoghi contro gli stranieri.
Fra i lavoratori la campagna contro gli stranieri è fatta con l’accusare questi come concorrenti nel mercato del lavoro. C’è la disoccupazione perché ci sono troppi stranieri, si dice. L’accusa si varia col presentare gli stranieri come disorganizzati, come crumiri, come sgobboni che fanno una concorrenza sleale agli operai francesi. Ma in realtà, almeno per la mano d’opera qualificata e in generale per quella proveniente da paesi occidentali (spagnoli e italiani, soprattutto) l’accusa è infondata o riguarda una percentuale irrilevante.
La disoccupazione tra gli stranieri è grande, superiore a quella degli operai francesi. Da molti anni a parità di condizioni, anche per pressione governativa, gli operai francesi sono preferiti. E se v’è molta mano d’opera straniera occupata, è soprattutto nei mestieri e lavori in cui la mano d’opera francese è troppo scarsa, e gli stranieri sono difficilmente sostituibili. Questo dar la colpa agli stranieri della disoccupazione è dunque, se non del tutto una falsità, per lo meno una grossa esagerazione.
Dal punto di vista della stessa economia borghese si può sostenere che per la Francia il lavoro straniero è, in specie in certe sue specializzazioni (agricoltura, arte muraria, ecc.), una risorsa ed un vantaggio enorme. E poiché gran parte di questa mano d’opera è costituita da gente radicata in Francia da anni, con le sue donne e i suoi figli, essa spende sul posto ciò che guadagna e costituisce quindi una massa di consumatori a tutto vantaggio del commercio francese. Senza di essa il capitalismo francese dovrebbe importare dall’estero o prodotti, o mano d’opera stagionale (e il fascismo italiano preferirebbe inviare quest’ultima) che alla partenza si porterebbe con sé in patria il frutto del suo lavoro.
Ma ragioni così logiche e semplici sono trascurate e calpestate, dai più per noncuranza, dato il prevalere di altre preoccupazioni immediate, e dalla minoranza attiva fatta di reazionari e fascisti (ora c’è un variopinto fascismo attivo anche in Francia) per interesse e calcolo politico. Questi ultimi, che in fondo s’infischiano della patria francese e del suo avvenire, e altro non vogliono che afferrare il potere per comandare loro e fare bottino, cercano d’intorbidire le acque in tutti i modi. Soffiano sulle peggiori passioni, incoraggiano tutti gli egoismi più sordidi individuali e di categoria, alimentano i più stupidi pregiudizi e sfruttano l’ignoranza dei molti con le più ciniche menzogne.
Di qui la furibonda campagna contro gli stranieri di certi organi di stampa della destra e di qualcuno più equivoco sedicente di sinistra o informativo.
Qualche giornale della Francia meridionale, fra gli altri, è arrivato ad eccessi tali di xenofobia che erano una vera propria istigazione a delinquere. Costoro, si capisce, si scagliano specialmente contro le immigrazioni politiche, contro i rifugiati in Francia dai vari paesi dominati da dittature; e non v’è infamia che non sia inventata contro di loro.
E il governo repubblicano — che sempre ha cercato di sbarazzarsi degli elementi sovversivi più avanzati, espellendone in ogni tempo gran numero — in questi ultimi momenti ha intensificato il suo rigore in modo indescrivibile. Esso ha confessato il suo programma inumano: rimpatriare tutti gli operai stranieri sostituibili nel loro lavoro con operai francesi; ed espellere tutti i rifugiati politici che non abbiano mezzi propri per vivere o che svolgano una qualsiasi attività politico-sociale in contrasto col regime francese e con quello degli altri governi amici.
Il trattamento inumano con cui s’incrudelisce in generale contro tutta la mano d’opera straniera meriterebbe un esame particolare, che ci porterebbe troppo lontano. Ci limitiamo a denunciare per brevità, soltanto l’infamia del fatto. Sono decine, centinaia di migliaia, forse milioni i lavoratori di tutti i paesi chiamati espressamente in Francia o incoraggiati in mille modi a recarvisi fin dal termine della guerra, i quali han dato alla Francia l’energia lavorativa di quasi venti anni, hanno ricostruito città intere, scavato miniere, fecondata la terra col loro sudore. Ebbene, oggi si dice loro: «Non abbiamo più bisogno di voi. Andatevene!». E se non se ne vanno da loro, si cacciano fuori con misure di polizia, a forza.
Quello che avviene coi profughi politici — di cui più specialmente qui ci occupiamo — non è meno scandaloso.
Chi scrive queste righe fu anch’egli espulso dalla Francia qualche anno fa. Nonostante questo conservò la sua serenità, ed ha sempre reagito contro altri amici che da episodi disgustosi del genere giungevano a generalizzazioni secondo lui ingiuste. «No, non è vero — egli diceva — che sia la stessa cosa in Francia, che in Italia o in Germania». Ma lo spettacolo odierno, se non arriva a dargli torto del tutto, poco ci manca.
Certo, se tollerano ancora certi profughi più conosciuti (purché non siano anarchici, si capisce), intellettuali, di condizione agiata, o che, pur essendo nemici al regime del proprio paese, si sbracciano a ossequiare il regime francese e ne levino alle stelle la «generosa ospitalità». Se le rose fioriranno, anch’essi ne sentiranno le spine a suo tempo, non v’è dubbio. Intanto servono per lo meno a salvare le apparenze. Ma gli altri, quelli che non hanno mezzi o notorietà sufficiente, che devono lavorare per vivere e insistono a pensare con la loro testa, non solo i militanti attivi, ma anche i più inattivi, che però non possono tornare al loro paese, dove li aspetta il carcere o il confino e peggio, vengono espulsi senza pietà.
C’è proprio da meravigliarsi che fino ad oggi la disperazione non abbia spinto qualcuno, o più d’uno, a qualche cieco e impulsivo atto di violenza, di quelli che si deplorano tanto «dopo» ma che «prima» nessuno prevede né, fra coloro che possono, pensa di prevenire nell’unico modo umano possibile, che consisterebbe nell’evitare almeno che l’ingiustizia arrivi ad estremi di crudeltà e di provocazione così gravi.
Al contrario, v’è stato chi — nel paese dei «diritti dell’uomo e del cittadino» — ha pensato di risolvere il problema dei profughi politici, minacciandone la deportazione forzata in lontane colonie africane!
[Studi Sociali, anno VI, n. 40, 15 maggio 1935]