#title Idi e oblii #topics Intempestivi #pubdate 2015-04-09 #lang it #cover i-e-9fd345e6a91f7300306ba8f238c26efcc3349e7a-m-jpg.jpg È successo lo scorso 12 marzo a Ferguson, nel corso dell’ennesima manifestazione di protesta per la morte di un giovane nero — Michael Brown — avvenuta la scorsa estate per mano della polizia. La manifestazione era stata indetta dopo che il capo della polizia locale, Thomas Jackson, aveva rassegnato le dimissioni in seguito alla diffusione di un rapporto che mostrava il profondo razzismo all’interno delle forze dell’ordine. Un centinaio di manifestanti stavano stazionando davanti alla sede del Dipartimento di Polizia, battendo tamburi, intonando slogan («Se noi non avremo giustizia, loro non avranno pace!») e bloccando a singhiozzo il traffico stradale. Quando a un tratto, si presume dalla cima di una collina, qualcuno ha fatto fuoco contro gli agenti schierati in tenuta antisommossa, seminando il panico fra i presenti. Nonostante sia scattata subito una caccia all’uomo, chiunque sia stato è riuscito poi a dileguarsi. «Non facevano nulla di speciale e gli hanno sparato per la sola ragione che sono poliziotti», ha detto incredulo Jon Belmar, capo della polizia della Contea St. Louis, dopo che due dei suoi agenti sono rimasti a terra, feriti dai colpi d’arma da fuoco. Pare che persino fra i soliti pompieri di sinistra, onnipresenti in simili circostanze, ci sia chi non è riuscito ad emettere parole di condanna. Dopo mesi e mesi di civili proteste — presidi, petizioni, manifestazioni, veglie — che non hanno fatto altro che accompagnare mesi e mesi di ulteriori continui omicidi polizieschi nei confronti di afro-americani, beh, questa «imboscata» è davvero il minimo che potesse accadere. Già, ma qui il piacere della vendetta si scontra con un sapore piuttosto amaro: quante volte questo minimo non si è affatto verificato? Festeggiamo le idi di marzo per meglio piegare la schiena nei suoi oblii. Un anno fa, nella notte fra il 2 e il 3 marzo, Riccardo Magherini moriva a Firenze sotto il peso dei carabinieri che lo avevano fermato. In occasione dell’anniversario della sua morte, è stato ricordato con una messa e una fiaccolata. Va bene, si dirà, era solo un ex calciatore imbattutosi la sera sbagliata nella pattuglia sbagliata. Ma allora, che dire del trentennale della morte di Pedro, l’autonomo latitante ammazzato a Trieste il 9 marzo 1985 dagli agenti che lo stavano braccando? Fra chi scrive c’è chi ricorda bene quei giorni bollenti, con le due manifestazioni svoltesi prima a Trieste e la settimana successiva a Padova, i vari incontri che si tennero, il video che girò subito all’epoca con la registrazione della telefonata fatta in cerca di informazioni alla Questura di Trieste e la beffarda e tonta risposta dello sbirro centralinista («Ma allora quando devo chiamare per sapere cosa è successo?», «Chiami più tardi, più tardi», «Sì, ma quando?», «Più tardi, guardi, più tardi lei chiama e meglio è!»). Un anno dopo, in occasione del primo anniversario, si era ancora lì, davanti a quel maledetto portone di via Giulia 39, con una selva di pugni alzati al cielo e la rabbia nel cuore; si era ancora lì a sfilare per le vie della città con gli slogan di sempre. Ma hanno davvero pagato caro e pagato tutto? Al celerino figlio di puttana, gliela insegniamo davvero noi la guerriglia urbana? Ai compagni latitanti glielo diciamo davvero noi che «dietro agli striscioni c’è posto anche per voi»? Chissà dove saranno adesso lo 007 Maurizio Nunzio Romano e i tre agenti della Digos triestina Guseppe Guidi, Maurizio Bensa e Mario Passanisi, che quel giorno prima abbatterono Pedro e poi ne ammanettarono l’agonia. A godersi la meritata pensione? All’epoca a capo della Questura di Trieste c’era Antonino Allegra, già diretto superiore del commissario Calabresi nel 1969 in qualità di capo dell’ufficio politico della Questura di Milano. Gli anni passano, i boia di Stato restano. Amnistiati e premiati. A trent’anni dalla sua morte, il ricordo di Pedro è ancora vivo. Quello dei suoi carnefici assai meno. Ma va già bene così, perché il prossimo anno quasi nessuno ricorderà Marco Valerio Sanna, l’anarchico di Roma impiccato in cella nella notte fra l’11 e il 12 febbraio 1986, dopo essere stato arrestato perché giocava a tirare palle di neve ed aveva preso di mira la persona sbagliata (un carabiniere).
Domani è il 16 marzo e davanti al tribunale di Rennes, in Francia, inizierà il processo contro i due poliziotti che dieci anni fa erano all’inseguimento di Zyed Benna e Bouna Traoré, 17 e 15 anni, costringendo i due adolescenti a nascondersi all’interno di una cabina elettrica dove rimasero fulminati. La loro morte, avvenuta il 27 ottobre 2005, fu la scintilla che incendiò per settimane l’intero paese. I due agenti compariranno davanti ai giudici con l’accusa di «non-assistenza a persona in pericolo». Rimasero a guardare mentre le loro prede morivano. Noi, invece, rimaniamo a guardare mentre i nostri cacciatori vivono e proliferano. Lo sa bene Robert Broussard, l’assassino di Jacques Mesrine, ritiratosi ad Andrésy a fare politica, occuparsi di sport e rilasciare interviste. Il prossimo 24 aprile spegnerà 79 candeline. Chissà se batterà il generale Pinochet, morto a 95 anni nel proprio letto a casa. Ci sono giorni in cui non è facile guardarsi allo specchio al mattino.
[15/3/15]