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Quando si osserva il complesso della società attuale, sbarazzandola di tutti gli elementi artificiali creati dalle forme politiche e governanti, si constata che realmente non vi sono che due classi di uomini: i capitalisti — i detentori cioè del capitale sociale, in tutte le sue forme (terra, materie prime, utensili, macchine, merci scambiabili (1), ecc.); e i non-capitalisti — ossia coloro, che non posseggono che la loro persona, o forza di lavoro, intellettuale e muscolare, — in una parola, i salariati.

Qualunque altra classificazione è arbitraria, fittizia o accidentale.

Per giustificare questo stato di cose, gli economisti borghesi rispondono, che ciò è il risultato della libertà del lavoro — principio essenziale, che non si può violare sotto pena di uccidere il lavoro stesso e ritornare alla barbarie.

Vi domandate subito se questa «libertà del lavoro» che ha per risultato di spogliare gli uni a profitto degli altri, e di condurre alla concentrazione delle ricchezze prodotte dal lavoro di tutti, nelle mani di un piccolo numero di persone, rassomiglia allora alla «libertà di brigantaggio», poiché le sue conseguenze sono esattamente le stesse.

Effettivamente, che mi si spogli, in un bosco, del mio orologio, della mia borsa e del mio soprabito, — in nome di un coltello e di una pistola, — o che mi si spogli dei miei strumenti di lavoro — in nome della «libertà del lavoro» — che differenza ci trovate?

Ma, rispondono ancora gli economisti, il capitale non è che lavoro accumulato.

Ora, i capitali essendo prodotti dal lavoro, il capitalista ne è legittimo possessore, poiché egli ne deve il possesso alla sua energia, alla sua intelligenza ed alla sua attività. Una volta che li ha così conquistati col sudore della fronte, non è forse naturale che se li tenga, ne usi a suo piacimento, li dia a prestito o li trasmetta a chi gli piace meglio, con o senza condizioni?

D’altronde, comunque ne disponga, purché non li sotterri nella sua cantina, se li mette in circolazione, sia che li impresti ad usura, sia che li collochi in una industria, sia ancora che li lasci ai suoi figli, che li faranno valere a loro volta, i capitali ritorneranno ad alimentare il lavoro, dal quale sono stati prodotti; per conseguenza produrranno nuovi capitali che andranno ad aumentare la ricchezza nazionale, e così di seguito fino alla fine dei secoli.

Tale, credo, è il ragionamento in tutta la sua semplicità.

Si dice che il capitale sia lavoro accumulato. Nulla di più esatto e di più evidente.

All’infuori delle ricchezze naturali, come l’aria, la luce, l’acqua corrente dei fiumi e dei torrenti, la terra primitiva, gli animali allo stato selvaggio, le forze misteriose che cambiano il grano in spiga, fanno di una ghianda una quercia e presiedono alle leggi della fisica, alle affinità chimiche, ogni ricchezza sociale, o valore scambiabile e produttivo, è opera del lavoro dell’uomo e delle sue forze, siano esse intellettuali o muscolari (2).

Di queste ricchezze e forze naturali che abbiamo enumerate, ve n’è solo un numero ristrettissimo che possa contare, propriamente parlando, come ricchezze e forze sociali prima d’essere state appropriate, cioè prima d’aver subito quella parte di collaborazione umana o di lavoro che lo rende utile ai nostri bisogni.

L’elettricità, senza il lavoro dell’uomo produce il fulmine; col lavoro dell’uomo essa diviene il telegrafo.

La terra non appropriata, allo stato vergine, è bensì un capitale assoluto, una ricchezza sociale, poiché, senza essa nulla esisterebbe, e poiché produce i frutti selvaggi e nutre la selvaggina; ma le miniere che racchiude nel suo seno, le foreste dalle quali è ricoperta, le facoltà germinative che possiede, hanno bisogno per divenire utilità dirette, positive, del lavoro dell’uomo.

È necessario il lavoro dell’uomo per estrarre dalle miniere il ferro ed il carbone; occorre il lavoro dell’uomo per tagliare i boschi e trasformarli in calore, in mobili, in vascelli; occorre il lavoro dell’uomo affinché la fecondità naturale del terreno giunga a produrre i legumi ed i frutti saporiti che ci nutrono; e così di seguito.

Dunque ogni ricchezza sociale, o utilità, o valore, come si vorrà chiamarle, di consumo, o di scambio o di produzione — salvo, ripeto, le ricchezze naturali che, non avendo richiesto e non richiedendo alcun sforzo, appartengono a tutti (l’aria, la luce, ecc.) e per conseguenza il Capitale che non è se non la parte di ricchezza sociale accumulata per la produzione — è il prodotto del lavoro umano. Dunque è vero che il capitale è «lavoro accumulato».

Dunque è il lavoro che crea il capitale.

Bisogna forse concludere che il lavoro crea il capitalista?

A tutta prima ciò sembra logico; ma osserviamo più attentamente.

Ecco un padrone di officina che occupa trecento operai a fondere e fucinare il ferro per farne gli utensili e le macchine più complesse.

Questo capo di officina lavora, non già come i suoi operai, poiché non adopera la pala e il martello, ma si occupa della contabilità, delle compere e delle vendite, oppure, se lo credete più esatto, dei rapporti per lo scambio dei prodotti fabbricati nell’officina, sorveglia, distribuisce il lavoro, ecc., sia solo, sia con un certo numero di individui che lo aiutano in questa parte speciale ed essenziale del lavoro comune. Finora noi non vediamo che un gruppo di lavoratori identici, separati solamente nelle funzioni dalla legge della divisione del lavoro.

Ritornate dieci anni dopo. L’officina funziona sempre coi suoi trecento operai, o più o meno, poco importa; si lavora sempre il ferro.

Non vi è che una sola differenza: il padrone dell’officina è milionario, gli altri sono restati quello che erano.

Lui, va in carrozza, può vivere dei suoi redditi, e morrà in un palazzo.

Essi, ancora malvestiti, ancora malnutriti, ancora male alloggiati come il primo giorno, continuano a sudare al fuoco della fucina, e a penare all’incudine. Quando le loro forze saranno esaurite, cadranno a carico della carità pubblica e moriranno all’ospedale.

Eppure, il lavoro di questi uomini ha creato questa ricchezza, «ha fabbricato questo capitale». Ne è prova il fatto che il padrone dell’officina, con questo lavoro, ha potuto accumulare sia in materie prime, sia in prodotti appropriati, sia in terreni, in fabbricati, in macchine, sia come moneta in seguito a scambio di merci, i milioni che assicurano a lui ed ai suoi figli un’esistenza felice, provvista di tutto il necessario e di tutto il superfluo.

Perché gli altri non hanno accumulato nulla?

Perché, di questa ricchezza, creata dal lavoro comune non è rimasto nelle loro mani altro che la piccola parte detta salario, appena sufficiente, quando lo è, ad assicurare presso a poco il rinnovamento, in ciò che più strettamente è indispensabile, delle forze del lavoratore col fornirgli di che nutrirsi male e grossolanamente, vestirsi non meno male e non meno grossolanamente e alloggiare peggio e più grossolanamente ancora?

Vi sono dunque due sorta di lavoro: uno che produce il capitale e l’altro che produce il capitalista.

Se interrogate il padrone dell’officina, vi risponderà orgogliosamente, pavoneggiandosi, col sorriso sulle labbra, mentre i ciondoli della sua catena saltellano sul suo ventre impinguito: «Il mio lavoro mi ha arricchito, la mia intelligenza ha fatto la mia fortuna, la mia attività mi ha reso milionario!».

Il suo lavoro? Vediamo un po’.

Abbiamo ammesso che il capo dell’officina lavora quanto i suoi operai, d’un altro lavoro, imposto dalla divisione del lavoro e dalla diversità delle attitudini; che il suo lavoro personale fosse l’equivalente del lavoro degli operai, poiché se il capo dell’officina non può fare a meno degli operai, questi hanno ugualmente bisogno di qualcuno che compia funzioni analoghe.

Quanto guadagnano al giorno i suoi operai? Prendiamo una media: cinque franchi; dunque anche la sua giornata di lavoro produce nell’officina per 5 franchi, vale cinque franchi.

Ma supponiamo che il capo sia di gran lunga più intelligente, e più attivo dei suoi collaboratori; supponiamo anche che egli renda un utile doppio, triplo di ciascuno dei suoi operai. Ebbene, allora la sua giornata varrà al massimo, dieci o quindici franchi.

Potrebbe forse su questi quindici franchi economizzati, accumulare cinque milioni in dieci anni?

Evidentemente no.

Ciò non ostante questo valore è stato prodotto (3) — Da chi? — Dal lavoro di tutti. — Nulla tocca agli altri, ma tutto a lui.

Non è dunque col suo lavoro personale, col suo lavoro proprio, colla sua intelligenza, colla sua attività, che questo plus-valore, di cui gode solo, è stato creato; ma col lavoro dei trecento operai, unito al suo.

Egli non è dunque divenuto milionario in base al principio della libertà del lavoro.

Ciò che l’ha arricchito è semplicemente il lavoro accumulato degli altri.

Per conseguenza, se è giusto dire che il capitale è lavoro accumulato, bisogna però aggiungere: il capitalista è il prodotto del lavoro accumulato degli altri; il che lo rende — bisogna confessarlo — infinitamente meno rispettabile e meno sacro.



(1) La moneta non è altro che una merce di scambio, come tutte le altre, ma più comoda, più facile a trasportarsi, e generalmente ammessa come equivalente comune di tutte le altre merci.

(2) Non parlo qui di «valori d’uso» i quali, destinati al consumo e da questo distrutti ogni giorno, non potrebbero accumularsi e, per conseguenza, entrare in conto nel capitale sociale, tale come noi qui lo consideriamo, sebbene essi vi partecipino, mantenendo le forze del produttore.

(3) All’infuori delle spese di produzione, e ciò che resta si chiama «plus-valore».



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