Roger Gilbert-Lecomte
Il signor Morfeo

Questo saggio è una messa a fuoco del problema degli stupefacenti: non fa onore ai legislatori e ai giornalisti che hanno sudiciamente eluso tale problema.
«State attenti, perché avete la malattia di cui sono morto».
Maurice Rollinat
«La morte... è lo scopo della vita».
Charles Baudelaire
Se Claude Farrère — e possa non pentirsi mai di ciò che di meglio ha fatto nel corso della sua lunga, troppo lunga carriera — se Antonin Artaud e, soprattutto, magnificamente, Robert Desnos, hanno di volta in volta, soli fra tutti, trattato del problema delle droghe senza tabù fin dalla promulgazione della poco intelligente legge proibizionista (luglio 1916), non tutto è stato detto e la protesta non deve tacere: mai sarà più attuale di adesso, allo scopo di rispondere alla diarrea giornalistica documentario-moralizzatrice e soprattutto poliziesca sui «paradisi artificiali» (sic et resic et resic). Quotidiani e settimanali, illustrati o meno, non smettono di scarabocchiare le loro colonne sotto forma di roboanti servizi partoriti da scrivani d’ogni opinione e sesso, il cui solo carattere comune è una spiccata impotenza ad affrontare in maniera adeguata un problema senza fare l’eco ai volgari pregiudizi dei loro lettori. Che si faccia avanti il Petronio da due soldi a riga, che «bolla i vizi» con intento meno abietto rispetto a quello di condire il suo testo con descrizioni truccate delle cosiddette turpitudini. La presente protesta, sicura dell’inefficacia del suo procedimento, non mira ad alcun risultato: fa semplicemente appello alla giustizia disinteressata dello spirito. Coloro che in questo caso come in altri fanno professione di fuorviare l’opinione (1) e di estendere ogni giorno i confini dell’idiozia, trovino qui l’espressione sincera di tutto il mio disprezzo.
Seguendo l’asse dell’alto cilindro nero e brillante, le visioni sfuggenti della coda dell’occhio giocano a nascondino e volteggiano; la paura dagli occhi di lepre vi insegue le lepri orecchiute della paura. Sotto il gigantesco cappello il signor Morfeo dissimula una quasi assenza di volto. È giorno, è notte, ma è sempre notte quando passa il signor Morfeo. Tutte le polizie del mondo lo cercano e non lo troveranno mai, proprio per via del suo passo così strano da renderlo invisibile. Per colmo di audacia, egli minaccia: «Quando passeggiavo tutto nudo nei paesaggi mitologici, mi si erigevano pochi altari, è vero, ma almeno il rispetto circondava la mia carcassa a riposo sotto la mia chioma immensa e cespugliosa come la paglia di ferro — siete voi che mi avete reso calvo, stronzi! Quando chiudevo gli occhi turbinanti di mondi, così come si richiudono dopo l’uso gli strumenti di precisione nella loro custodia, mi si lasciava contemplare in pace la nascita delle meteore in fosfeni nel fragore del tuono dei sogni. Ahimé, ultimo detentore del segreto della vita, ora anche l’Oriente muore — ah! celebrate regalmente i suoi funerali, prima che rinasca e vi salti alla gola; perché il suo risveglio sarà terribile sulla crosta del mondo. Con i miei piedi storti non posso che essere con il cuore tra le orde sotterranee dei bambini lividi della notte che presto calpesteranno la vostra sporca civiltà. Almeno faccio il loro gioco all’interno del posto. Rosicchio lentamente, come un milione di topi, l’Occidente che mi nega e non sarò del tutto estraneo al crollo di questo colosso dai piedi di burro e dalla testa di bue.
Poiché mi avete sempre conosciuto come un bonario mercante di nanna, forse vi domandate quale nuova ditta io rappresenti. Ma non fosse che per l’atmosfera deleteria che mi circonda e che fuoriesce principalmente dalle mie orecchie di vampiro, presto sentirete intensamente e oscuramente il principio più vasto che propago. Quanto all’esprimerlo, vi costerebbe certo fatica. Al limite potrei presentarmi come il genio industrioso della Morte-nella-vita. Sono il padrone di tutti gli stati naturali o provocati che «prefigurano», simboleggiano la morte e, pertanto, partecipano della sua essenza. E questi stati occupano nella vita umana un posto molto più importante di quanto non si creda. Per prima cosa vi ricordererò, dopo Gérard de Nerval, questa constatazione così vera, così evidente, così importante, così essenziale e misteriosa da essere regolarmente dimenticata da ogni coscienza moderna: l’uomo trascorre almeno un terzo della sua vita dormendo. Il fatto di non tenere conto di questa semplicissima verità basta per falsare totalmente l’attuale concetto di «vita umana». Questa incresciosa dimenticanza costituisce una delle cause più efficienti dei mali presenti e del Cataclisma futuro — e prossimo. Probabilmente è per fornirmi un esempio come sostegno che ogni giorno si chiudono negli ospedali psichiatrici, come bottoni da calzoni, uomini il cui solo delitto consiste nel dare all’attività del sogno un valore pari a quello con cui si gratifica così generosamente l’attività della veglia, e che di conseguenza eseguono gli ordini del sogno nella veglia. È per questa equa concezione della vita doppia che Nerval stesso fu maledetto nel suo secolo.
Ma sappiatelo, facce pallide, oltre al sonno spettano di diritto ai miei territori fantasmi tutti gli altri stati umani che costituiscono dei rifiuti d’agire, dei crampi della volontà, delle paralisi improvvise del divenire individuale, degli arresti del flusso metaforico della coscienza superficiale, delle aperture verso le zone notturne, i climi proibiti dove regna colui che dice «no» alla vita: «Sé» l’impassibile.
E adesso notate questa definizione di universalità che sottopongo agli zoologi: ciò che differenzia meglio l’uomo dall’animale è la pipa.
Quanto all’ultimo termine di questo aforisma, mi si scusi di sacrificare alla necessità di abbellire, di «concretizzare» secondo la moda del giorno, se aggiungo questa spiegazione semplice e chiara: secondo un’immagine retorica molto nota, che dà il contenente per il contenuto, per pipa io intendo tutti i prodotti che servono, più o meno, a provocare artificialmente l’attività onirica. Ecco un’altra verità banale e molto chiara alla quale non si pensa mai, ovvero che tutti gli uomini di ogni epoca storica o preistorica, quali che fosse la loro morale, la loro religione o il loro grado di civiltà, hanno sempre fatto uso di questi prodotti che la farmacologia chiama tossici: dai filtri dei maghi antichi e dei medicine-men di tutte le tribù primitive, le erbe sante degli Incas, la coca e il peyote del Messico, il betel da masticare degli Oceanici, l’oppio cinese e indù, l’hashish e tutte le varietà di canape asiatiche e africane fino ai moderni veleni d’Europa: etere, tabacco, morfina, eroina, cocaina ed il più universale: l’alcol, in tutte le sue forme metropolitane e coloniali.
È abbastanza comprensibile e logico che tutte le droghe, destinate come sono a provocare più o meno rapidamente e più o meno a lungo questo incidente di coscienza che ho vagamente classificato tra i rifiuti di agire, ma che ho posto indubbiamente nel mio regno della Morte-nella-vita, siano per contraccolpo nocive agli strumenti dell’azione, cioè agli organi del corpo umano.
È basandosi su questa constatazione alquanto semplicistica che, in tutti i tempi, un certo numero di uomini, che da una parte, per ragioni approfondite in seguito, non sentono per niente il bisogno di usare questi prodotti tossici, e che dall’altra, essendo legalmente muniti del potere di attentare alla libertà privata dei loro concittadini, hanno rinunciato una volta per tutte ad applicare il principio politico del Non-Agire preconizzato da Lao-Tze, un certo numero di uomini, dicevo, ha creduto possibile bloccare del tutto il consumo di droghe, proibendole.
Tali proibizioni hanno sempre scopi apparenti molto decorosi, per esempio il bene pubblico, e scopi meno apparenti un po’ sporchi, per esempio il ripopolamento.
La proibizione dell’alcool negli Stati Uniti, quella dell’oppio, della cocaina, ecc., ecc., in quasi tutti i paesi deriva da un modo di pensare comune non solo a tutti i legislatori, ma anche a tutti gli uomini «benpensanti», cioè alla maggior parte di tutti i paesi detti civili.
Quanto a coloro che la pensano diversamente, essi rispondono ai divieti con la frode o con l’invenzione di surrogati. Ma tutti gli uomini di tutti i paesi continuano a provocare artificialmente in se stessi lo stato della Morte-nella-vita con un mezzo di loro scelta.
D’altronde conviene notare che grazie alla demagogia delle nostre fottute democrazie e a seconda dei loro interessi, le sostanze tossiche più usate sono state raramente proibite. Il tabacco non lo è mai stato da nessuna parte, l’alcool quasi mai, il consumo dell’oppio infine è raccomandato in India e in Indocina. La parzialità di queste proibizioni non è mai stata determinata dal carattere più o meno nocivo delle droghe, come soprattutto i due primi esempi dovrebbero provare se il giudizio del lettore non fosse completamente falsato dalle chiacchiere della stampa a proposito degli stupefacenti vietati, capri espiatori degli igienisti e delle loro carte igieniche.
Quindi, io, Morfeo & C, che attualmente detengo il trust delle droghe proibite nel vasto mondo, tengo a rispondere ai giornalisti pagati dai miei concorrenti per denigrare la mia merce. E la difenderò con imparzialità.
Sì, signori della Continenza, su questo argomento, come d’altronde su tutti gli altri, viene steso il velo dei malintesi più funesti, dai più rozzi ai più sottili. A cominciare da questa osservazione, e cioè che, restando la maggior parte dei miei stupefacenti appannaggio di una infima minoranza, la stragrande maggioranza che li ignora si fa delle loro devastazioni un’idea del tutto leggendaria, mantenuta d’altronde con sapienza dai cronisti che sono sempre alla ricerca dell’orrore romantico a buon mercato. È così che nelle vostre regioni dove tutti consumano alcool in quantità più o meno abbondante, non vi è nessuno, se non qualche vecchia zitella piena di buone intenzioni, che creda agli imbonimenti della Lega antialcoolica. Ognuno conosce nella sua cerchia di amici degli ubriaconi incalliti ed eccessivi, sfolgoranti di salute e dieci volte centenari. Allo stesso modo si può ridere sottilmente paragonando i grotteschi manifesti su cui viene dipinto l’«Inferno dei drogati» (sic et risic et risic) — e il pubblico, in mancanza di maggiori informazioni, ricalca la propria opinione su queste caricature — alla inoffensiva realtà.
Quante volte, visitando i miei fedeli, ho seguito con i miei passi zoppicanti quelli molto più larghi e lunghi dei giornalisti più famosi e mi sono avventurato nelle fumerie, cafarnai male illuminati e decorati con cianfrusaglie falso-asiatiche, dove bravi e gaudenti ragazzi raccontavano storielle audaci e nemmeno sadiche dandosi manate sulle cosce. Quali amare delusioni rinfrescherebbero i vostri spiriti abbrutiti da previsioni sepolcrali qualora scopriste autentici intossicati da lunga data, incalliti ingoiatori di formidabili stupefacenti tanto (ma non più) imbecilli e buontemponi quanto la media dei loro contemporanei, grassi, cicciottelli, rosei, paffuti, amanti del buon vivere e del buon vino e, colmo d’abominio, spesso provvisti di rampolli altrettanto imbecilli, buontemponi, grassi, cicciottelli, rosei, paffuti e prosperi dell’autore dei loro giorni e delle loro notti. E se viveste per un periodo a contatto con quei galeotti del male sareste rapidamente portati ad accorgervi che la loro vita è ben regolata, che badano alle loro piccole faccende, che hanno le stesse preoccupazioni degli altri mortali, e che il loro «vizio» insomma non svolge nella loro esistenza un ruolo più ampio, devastante e nefasto di qualsiasi altro tra i meno fantasmagorici, per esempio la masturbazione. Anzi, per rendere più irrimediabile la vostra delusione, osservandoli sareste ben presto costretti ad ammettere — per quanto straziante sia una tale constatazione — che gli effetti delle droghe ritenute più virulente sono incomparabilmente meno violenti di quelli dell’alcool; poiché non solo sotto il loro cranio arrotondato non ci sono mai deliri allucinatori, ma per di più spingono l’impudenza fino a non essere mai veramente ubriachi fradici. Per loro tutto si limita in generale all’espressione di una vaga euforia. La terrificante polvere bianca è appena un po’ eccitante.
E sfido chiunque a contraddirmi su ciò che affermo. Che l’abuso dei miei prodotti abbia talvolta portato con sé i due temibili fantocci, le mie cugine Pazzia e Morte, è magari esatto, ma certo molto meno frequentemente di quanto abbia potuto farlo l’abuso di alcool. Perché l’alcool è la mia sostanza tossica migliore e i drogati in generale non sono altro che individui dal temperamento troppo delicato per sopportare a lungo l’ebbrezza alcolica.
Se questa parte del mio impero manca un po’ di lirismo, se tutti i miei sudditi sono carini, la colpa è della vostra stupida umanità.
— Ma se per caso ciò che voi qui dichiarate è vero (siate educato!), — mi si obietterà intelligentemente — le terribili proibizioni di cui avete appena parlato certo sono forse un po’ ridicole (toh, un punto a mio favore), ma l’errore non è molto grave; evita ai predisposti incresciose abitudini, se non molto pericolose, per lo meno idiote!
— Ehilà, smettetela, disgraziati! Chi è il miserabile che pronuncia queste parole afone? Lo maltratterei ferocemente per la temerità del suo giudizio se non mi accorgessi che questo infelice, attraverso un artifizio retorico usato fino all’estremo, sono ancora io stesso. Dunque smettetela, disgraziati, dico, poiché non sapete il motivo per cui i drogati si drogano.
Nella notte sporca di fango e di sangue in cui l’umanità trascina, come fa uno scorticato con la sua pelle, la propria vita miserabile e intrisa di sofferenze secondo dopo secondo, montagna fatta di elitre d’insetti agglomerati, nella notte sporca di fango e di lava in cui nessuno riconosce se stesso, io, Morfeo-il-Fantasma, io, Morfeo-il-Vampiro, regno, tutelare e pieno di sarcasmi, sulle mie greggi maledette, come il re-condor volteggiante tra le nuvole sopra di un’orda di lepri possedute dalla piccola paura attraverso una steppa arida, immensa e senza buche come la rappresentazione geografica della rotondità del globo terrestre.
E tranne Maldoror, faro del male desto sulla notte della terra, cadono all’indietro tutte le lepri umane affascinate dai cerchi concentrici che descrivono rapidamente i miei sguardi morfeici, la figura staccata da quello del loro doppio nei torrenti sotterranei del sonno che vanno a gettarsi nel lago della morte. Ma solo per qualche privilegiato, disseminato nel tempo e nello spazio, io moltiplico l’orgasmo e ne completo l’immagine fino a renderla asintoto del più autentico trapasso, facendogli dono del pulviscolo stellare che mi ricopre le ali, dei pungenti parassiti che le popolano, dei vapori che queste sollevano e delle cannucce delle loro piume diventate pipe. (2)
Ma questi esseri eletti dalla mia maledizione notturna sono e rimarranno relativamente rari: il mio impero è, ahimé, sottoposto alle leggi biologiche. Delle statistiche dimostrerebbero facilmente che — ad eccezione di alcune personalità superiori abbastanza evolute per sfuggire alla maggior parte delle contingenze sociali (quantità se non qualità trascurabile) — i miei sudditi, i Morfeici, diventano maggioranza, legione, unanimità nelle razze al loro declino, nelle tribù invecchiate che muoiono. Pensate all’alcolismo degli Indiani dell’America settentrionale. Al contrario, essi sono la mostruosa eccezione tra i popoli che vivono la loro fase d’espansione conquistatrice. In ogni caso, mai miserabili leggi di proibizione potranno impedire queste gigantesche e fatali reazioni etniche.
Nelle vostre moribonde città d’Europa, dove si consumano nei loro ultimi contatti tutte le razze e tutte le loro fasi, vedete uno accanto all’altro tutti i miei sudditi, le vittime di fenomeni etnici e quelle di drammi individuali, di cui finora ha potuto render conto solo la «psicologia degli stati» ancora sconosciuta nell’insieme della sua teoria e che Gilbert-Lecomte opporrà, quando sarà giunto il momento, a tutte le vecchie asinerie derivate dalla «psicologia delle facoltà» che imputridiscono nelle Sorbone in rovina.
Certo alla mia influenza sfuggono una maggioranza di individui che hanno di fronte alle droghe una vera e invincibile repulsione appena rafforzata dagli imperativi morali. Sono esseri la cui gioventù organica non ha niente a che vedere con l’età, ma è come se questa facesse prevalere l’istinto di conservazione, fonte dell’agire, sull’«istinto di autodistruzione», di cui non si osa mai parlare e che tuttavia occupa un posto eguale nella maggior parte delle coscienze umane.
Ma di fronte a questi uomini detti sani — per cui il riposo d’ogni notte, anche se ridotto allo stretto necessario, costituisce un peso ancora troppo gravoso e di cui non auspicherebbero altro che di liberarsene per poter infine agire di più — ve ne sono altri, gli amanti dei lunghi sonni senza sogno, quelli che un male sconosciuto spossa e per cui la felicità è la «Morte-nella-vita». E soprattutto vi sono, pesanti e senza pietà, nel campo chiuso del corpo oscuro, le lotte tra i nemici immortali, voler-vivere e non-agire, voluttà di potenze e voluttà più perfide del volere che muore in funebri tramonti, in declini di vertigine.
Tra gli uomini tre volte marcati dal mio segno, scoprirete i risultati di questa antinomia in ogni grado della scala dei valori, da una maggioranza di rammolliti ereditari per i quali l’inclinazione alle droghe è solo una reazione animale contro il non-senso costituito dalla loro vita tarata, fino a qualche grande forzato, maledetto dalle tempeste e dagli uragani che sono sempre le terribili voci dello spirito che soccombe al disonore di essere uomini.
Per un certo numero di esseri dalla sensibilità acutissima, esiste infatti una coscienza di volta in volta intensamente esaltante e dolorosa di stati opposti. E i segni di queste crisi vengono esagerati in alcuni predestinati, mostruosi per il solo fatto di portare in fondo a se stessi, come loro propria condanna, un elemento sovrumano che supera e contraddice la loro epoca, folgorazioni dello spirito o gigantesca energia fisica. Tali elementi bastano a scardinare magnificamente una vita umana. Dapprima per il loro carattere antisociale: essi provocano delle azioni irriducibili al giudizio universale dell’uomo comune, che si vendica tracciando intorno al maledetto il cerchio magico che lo isola, l’incomprensione odiosa e le costrizioni livellatrici che lo forzano all’amarezza della solitudine chiamata anche pazzia. In seguito e d’altra parte, per il loro carattere antifisiologico sul piano individuale: la pura violenza, che è la loro natura, in pochi anni ha ragione dei più robusti macchinari umani.
Ed ora, vogliate riconoscere questo principio che è la sola giustificazione del gusto degli stupefacenti: ciò che tutti i drogati chiedono coscientemente o incoscientemente alle droghe, non sono mai queste voluttà equivoche, questo formicolio allucinatorio di immagini fantastiche, questa iperacutezza sensuale, questa eccitazione e altre scempiaggini di cui sognano tutti coloro che ignorano i «paradisi artificiali». È unicamente e molto semplicemente un cambiamento di stato, un nuovo clima in cui la loro coscienza di essere sia meno dolorosa.
Non potranno mai capire: tutti i miei nemici, la gente dall’umore sempre eguale e dai sensi raffermi, i francesi medi, i burocrati dell’intelligenza, tutti coloro il cui spirito, strumento primitivo e rozzo ma infrangibile, è sempre pronto ad applicarsi ai propri usi giornalieri, senza mai conoscere né la notte solida dell’abbrutimento pietrificato né l’agilità miracolosa della folgore che uccide Dio. Non si rendono conto che, per opposizione ai pesci dalla bocca rotonda che sono chiamati ciclostomi, gli psichiatri hanno battezzato con il vocabolo «ciclotimici» un certo numero di «malati» la cui vita trascorre così nell’alternarsi infernale e regolare di stati ipo e di stati iper, di depressioni e di entusiasmi spirituali. Molto spesso chi conosce il lancinante dolore di queste depressioni preferisce il suicidio.
Ancor più incomprensibile per loro sarà lo stato dell’uomo che soffre di una coscienza spaventosamente chiara. Si tratta del dolore poco comune ai mortali di ritrovarsi improvvisamente troppo «intelligenti». È inutile tentare di far nascere in una mente che non l’ha ancora sperimentato l’approssimazione di questo stato che, secondo un determinismo sconosciuto, in un attimo improvviso sprofonda un essere nell’orrore freddo e tenace del velo squarciato degli antichi misteri. È, davanti alla più assoluta disponibilità della coscienza, il brusco richiamo dell’inutilità dell’atto in corso, diventato simbolo di ogni Atto, davanti allo scandalo di essere, e di essere limitati, senza conoscenza di se stessi. Essenza dell’angoscia in sé che rende pazzi, che rende morti.
E non è l’offuscamento ritrovato dello stato di coscienza normale e interessato della vita quotidiana a poter guarire un uomo dal ricordo di questa luce assoluta che ucciderebbe un cieco vivente. Benché sia sempre solo intravista nello squarcio d’un lampo, lascia nella testa umana un cancro immortale. Poiché non si può contrapporre uno stato consueto, che sarebbe la norma, ad altri stati che battezzeremmo patologici, allorché sono immediatamente percepiti come inferiori o superiori a quest’ultimo. Esistono soltanto stati più o meno dolorosi, e il naturale comportamento dell’uomo consiste nel cercare di provocare in sé lo stato di minore sofferenza. Così il ricordo di uno stato superiore (in quanto più luminoso) rispetto allo stato detto normale basta per rendere quest’ultimo intollerabile. Non si tratterebbe dunque che di cambiarlo il più spesso possibile e il più a lungo possibile. Sfortunatamente per la chiarezza della nostra esposizione, non è questo purtroppo il luogo di considerare i diversi mezzi capaci di far cambiare una coscienza di piani, che in linea di massima vanno dall’incoscienza assoluta alla coscienza totale e onnisciente: questo è il principio di tutta un’etica dinamica e immediata. Ma per il caso che ci riguarda, basta sapere che l’uso degli stupefacenti, presi in quantità adeguata, è innegabilmente uno di questi mezzi. Perché ogni droga genera uno stato specifico: ebbrezza dell’alcool, beatitudine dell’oppio, più generalmente euforia degli alcaloidi, ecc. E se per il momento è impossibile considerare il valore morale di questi stati, viceversa bisogna ben ammettere che essi permettono, a chi si rifugia in essi, di sfuggire agli stati più dolorosi, altrimenti inferiori o superiori. È così che le droghe hanno salvato certamente molte vite.
Del resto mi basti dire che gli stupefacenti sono considerati moralmente da certi mistici, per quanto possa sembrare paradossale, come mezzi di ascetismo. Non sarebbe mai il caso, beninteso, di considerarli come genitori di estasi, i cui stati specifici sono agli antipodi, o anche soltanto come favorevoli alla contemplazione, ma solo come antidoti. In particolare nella vostra civiltà moderna dove il corpo umano è degradato dall’eccesso di cibo, dalla febbrile iper-attività e dalle deformazioni delle usanze tecniche, l’assunzione di certe droghe può lottare contro questi elementi di disordine e restituire allo Spirito impersonale un terreno adatto alla sua visita (il fanatismo religioso è d’altronde anch’esso spesso mantenuto dalle droghe: giacché l’incenso liturgico ne è indubbiamente una).
Se si considera d’altra parte l’uso regolare e progressivo delle droghe, l’intossicazione, dal punto di vista degli stati di coscienza che provoca, sostituendo a poco a poco in un individuo predisposto gli stati di Morte-nella-vita, cioè preminentemente di disinteresse nei confronti dell’atto, a quelli necessari al sostentamento della vita, si arriva presto a considerarla non solo dal punto di vista fisiologico, ma anche dal punto di vista psicologico come un mezzo di lento suicidio, cioè del solo suicidio moralmente lecito. Poiché allora non si tratta più di scommessa, di scelta tra la vita e uno stato sconosciuto contrapposto alla vita e che si chiama morte, ma bensì di una lenta evoluzione non reversibile di tutto l’essere che s’incammina, sia attraverso la rovina del suo organismo sia attraverso l’oblio e il disgusto progressivi di tutto ciò che caratterizza una vita umana, verso la cessazione di questa vita sfigurata, poi dimenticata dolcemente in lontananza, a beneficio di un’autentica esperienza anticipata della morte per il tramite di stati di sogno profondo sempre più simili ad essa.
Possano queste considerazioni rapide ed incomplete suscitare in qualche spirito questa conclusione: Per un certo numero di individui le droghe sono necessità ineluttabili. Certi esseri possono sopravvivere solo distruggendo se stessi. Le leggi non potranno fare mai nulla contro di ciò. Togliete loro l’alcool, e berranno petrolio; l’etere, e si asfissieranno con il benzolo o il tetracloruro moschicida; i loro coltelli per mutilare, e trasformeranno i loro sguardi in lame.
Imbavagliate invano dalle vostre leggi sociali, dormono fra voi delle energie distruttrici tali da far saltare il mondo. Dai loro sguardi che appiccano incendi, io riconosco nei cantieri deserti: Attila, Gengis-Khan, Tamerlano. L’ebbrezza dell’alcool è per gli operai la più nobile protesta contro la vita sordida che è loro predisposta. Infine nell’attesa della morte del pensiero d’Occidente, nell’attesa del cataclisma futuro, cinto dall’aureola delle rivoluzioni, io, Morfeo, tempero le orde future con la mia rude igiene. Aspettando il momento, è su esse stesse che le costringo ad esercitare la loro forza distruttrice. E le mutilazioni volontarie, gli avvelenamenti terribili dell’alcool che fanno rotolare l’essere ansimante sulle rive della morte, le testate contro il muro, tutte le sofferenze inflitte a se stessi sono i soli criteri che mi assicurano degli uomini fisicamente abbastanza disperati, abbastanza morti nella propria persona da mostrare sul loro volto il sarcasmo impassibile del disinteresse davanti alla vita, unico pegno di tutti gli atti sovrumani.
E mentre, frenetico, Morfeo-il-Vampiro scompariva divorando se stesso, i suoi fedeli gridavano:
«Rendici duri e mordi a morte!».
(1) I recenti ed innumerevoli ditirambi partoriti durante le pietose pagliacciate che furono i funerali nazionali del Faresciallo Moch sono là come corpi di reato.
(2) Queste oscure metafore alludono rispettivamente alla cocaina, alla morfina, all’etere e all’oppio.
[Bifur, n. 4, dicembre 1929]