Georges Lapierre
Introduzione al Millenarismo
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La veemente fuga dal mondo sulle vie di Compostela, il rifugio della preghiera, l’asilo della Chiesa, l’oasi di grazia della vita monacale non sono stati, per fortuna, i soli slanci degli uomini del Medio Evo verso la salvezza della vita eterna. Un’altra corrente, altrettanto potente, ha trascinato molti di loro verso un altro desiderio: la realizzazione sulla terra del paradiso, il ritorno all’età dell’oro. È questa la corrente del millenarismo, il sogno di un Millennio, mille anni di felicità, come a dire l’eternità instaurata, o piuttosto restaurata, sulla terra.
Contrariamente ai loro contemporanei, i millenaristi non hanno scambiato i propri sogni con la realtà, volendo realizzarli, cosa ben diversa e altrimenti spirituale: godere infine della ricchezza infinita dello Spirito. Al vile abbandono, hanno opposto il rifiuto, l’insurrezione, la rivoluzione.
Il credo millenarista si sviluppa sull’essenza dell’apocalisse. L’apocalisse è l’affermazione di un rinnovamento decisivo: la Gerusalemme celeste scenderà sulla terra. Il mito si carica di sogni rivoluzionari o, meglio, i sogni rivoluzionari portano in sé il mito millenarista. Il mito millenarista è la coscienza di sé di questi movimenti, che in esso trovano il proprio progetto, ne traggono il linguaggio comune, ne ricevono la propria ragione e, ancor più, il proprio fondamento.
Così come la critica dello Stato è rimasta troppo spesso sul terreno della politica, anche la critica del mondo della religione ha potuto essere religiosa. È il caso dei movimenti millenaristi che hanno cercato di realizzare la religione senza sopprimerla, così che realizzazione e soppressione sono rimaste dominio dell’immaginario. Questo ha permesso a molti storici, fra cui Le Goff, di regolare i loro conti con questi movimenti, con piena soddisfazione della buona coscienza borghese o stalinista: «Il desiderio lancinante che rivela il millenarismo di andare “in fondo all’ignoto per trovare il nuovo” non riesce ad immaginare un mondo veramente nuovo. L’Età dell’oro degli uomini del Medio Evo non è che un ritorno alle origini. L’avvenire era dietro di loro. Marciavano voltando indietro la testa».
Rigettarli così in una specie di arcaismo religioso, significa cercare di mettere questi movimenti al di sotto di ogni critica; cominciamo a immaginare perché. Invece noi pensiamo che essi furono un, se non il, momento essenziale della critica del mondo. Per noi, la critica da parte dei movimenti millenaristi si trova di fatto al cuore del pensiero critico moderno.
Alcuni elementi radicali, i Fratelli del libero spirito, i Rivoluzionari londinesi, i Piccardi di Boemia, gli Anabattisti di Münster, sono apparsi all’interno di questi movimenti che hanno tentato di costruire una pratica (e un pensiero) che ha messo in pericolo l’ordine del mondo. I loro limiti furono le loro sconfitte, non nel pensiero, ma nella morte.
Parlare dei movimenti millenaristi porta dunque a riconoscere la radicalità di cui erano portatori, interrogandosi sul potere delle rappresentazioni religiose che, nella maggioranza dei casi, non hanno potuto essere superate e soppresse.
L’interesse rivoluzionario dei movimenti millenaristi, in opposizione alle eresie e ad altre dissidenze religiose, consiste nel fatto che questi movimenti se la presero col mondo della religione e non semplicemente — come fu il caso dei valdesi, dei catari, dei calicisti e più tardi dei luterani — con la Chiesa cattolica, i suoi dogmi e le sue pratiche, vale a dire con la religione in quanto parte della società.
Per quanto abbia dovuto nella maggior parte dei casi restare religiosa, la critica rappresentata dai movimenti millenaristi superava il quadro ristretto e istituzionalizzato della teologia. Essi non proponevano né una riforma della Chiesa, né l’istituzione di un nuovo dogmatismo, per quanto ciò abbia potuto costituire il punto di partenza di certi movimenti, come nel caso degli ussiti ad esempio, ma la trasformazione radicale di un mondo in cui la religione «si presentava contemporaneamente come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione» (G. Debord).
In breve possiamo dire che la loro opposizione non era “formale” ma religiosa, nella misura in cui si trattava per loro di realizzare la religione, e che tale opposizione è rimasta religiosa perché questa critica abbozzata della religione è stata sconfitta dalle armi. Ciò che interessava loro non era la forma della religione ma la sua essenza, non era la forma che può assumere l’alienazione ma la sua verità.
La religione conteneva tutte le speranze degli uomini in una vita altra, essa si presentava adornata di bellezze sconosciute e misteriose, la sua attrattiva era quella dello Spirito, il suo fascino, irresistibile; gli uomini vi rasentavano l’idea d’un mondo. Se l’identificazione con la religione implicava l’accettazione del destino terrestre e la rimozione del desiderio di uscirne, la critica della religione doveva implicare la negazione di questo destino comune che stava per diventare allora qualcosa da non subire più. Notiamo che il nostro rapporto col mondo dello spettacolo si costruisce negli stessi termini e che l’identificazione con lo spettacolo implica l’accettazione della vita quotidiana e l’ignoranza della sua miseria; tuttavia con una differenza importante: questo rapporto non è più d’essenza religiosa ma di natura religiosa.
Con la religione lo spirito del mondo aveva un nome, era conoscibile, almeno se ne poteva ancora parlare e non ce ne si privava. Con la merce, lo spirito del mondo non ha più nome, è diventato l’esteriorità assoluta; Marx ha nel contempo torto e ragione a parlare di «feticismo della merce»: la merce contiene sì tutto lo spirito ma come esteriorità, lo spirito è ormai ciò che non può essere nominato. Lo spettacolo è la rappresentazione religiosa che si è oggettivizzata. Il mondo dello spettacolo, come il mondo della religione, è il luogo della coscienza separata e l’unificazione che lo spettacolo compie resta di dominio dell’immaginario, ma questa identificazione si effettua ormai nel silenzio più completo (in altri tempi la casta sacerdotale sembrava parlare dello Spirito con un linguaggio sapiente e misterioso che essa voleva inaccessibile ai comuni mortali al fine di trarne privilegio. Oggi, gli amministratori sono ridotti a tentare vanamente di trarre privilegio da una minuziosa analisi maniacale e ossessiva dei meriti di tale merce particolare).
Il sogno della religione era qualcosa di vissuto collettivamente mentre il sogno della merce, la sua promessa di felicità, è vissuta in solitudine. La merce si presenta, agghindata con tutte le attrattive del desiderabile, davanti alle folle solitarie. Con la religione l’alienazione era soggettiva, alla portata del pensiero di ciascuno, l’idea di Dio, o quella del paradiso, restava un’idea che si comunicava. La merce è alla portata dello sguardo di ciascuno ma definitivamente fuori dalla portata del pensiero, la sua idea perfettamente inaccessibile.
Il rapporto padrone-servo è direttamente vissuto, ed è giustamente ciò che non è vissuto, la risoluzione dialettica di questo rapporto, a trovarsi lontana in una rappresentazione spettacolare o religiosa. Lo spettacolo in generale, come la religione, si presenta come un’inversione concreta, o immaginaria, della vita. L’ineguaglianza direttamente vissuta trova la sua risoluzione fantastica nella religione dell’uguaglianza in Dio, come a dire nell’umanità. La miseria di un’attività separata dal proprio spirito trova la sua risoluzione fantastica nello spettacolo della ricchezza dove si attua la reciprocità tra il denaro e la merce.
In quanto conseguenza di un rapporto sociale e sua giustificazione, la religione non può essere separata dalla totalità del mondo, umanità immaginata in un mondo senza umanità, la religione è «il cuore dell’irrealismo della società reale» (G. Debord).
Voler fondare un’attività storica nel quadro di una rappresentazione religiosa della fine della storia, avrebbe significato correre il rischio di farsi fuorviare nell’ambito dell’immaginario e contare sul soccorso dell’Aldilà.
Se i movimenti millenaristi dipingevano sempre la salvezza come collettiva, i fedeli dovevano beneficiarne in quanto collettività; terrestre, la salvezza si realizzava sulla terra e non in un paradiso appartenente all’altro mondo; imminente, totale, doveva cioè trasformare completamente la vita sulla terra; e universale; veniva dipinta anche come miracolosa nel senso che doveva essere realizzata da agenti soprannaturali o con il loro aiuto. Questi movimenti si collocavano nell’ambito di una religione della salvezza che fu quella degli ebrei prima d’essere quella dei cristiani e che si definisce con l’attesa di un Messia o con l’attesa del suo ritorno.
Tutta una tradizione religiosa, ebrea (Il Sogno del Libro di Daniele, L’Apocalisse di Baruch, L’Apocalisse di Esdras) e cristiana (Il Libro delle Rivelazioni, il montanismo, gli Oracoli Sibillini di M. A.), va ad incrementare un mito sociale, quello della fine della storia. È questa tradizione che alimenta il pensiero della storia concepita come transizione temporale, meglio come passaggio iniziatico, necessario alla realizzazione dell’umanità, alla sua redenzione, prima del suo ritorno nel grembo di Dio (presso i “primitivi” l’iniziazione era concepita come un passaggio, in genere doloroso, da un mondo a un altro mondo, dall’innocenza alla conoscenza. Presso i cristiani l’iniziazione s’estendeva considerevolmente alla vita per l’individuo, alla storia per la comunità, il tempo della Sofferenza; da cui la concezione della vita come passaggio. Notiamo che per il cristiano è il desiderio della conoscenza ad aver cacciato l’uomo dal paradiso dove viveva in stato d’innocenza per gettarlo nella prova della storia). Possiamo parlare di mito sociale giacché si tratta proprio di una rappresentazione drammatica della fine della storia con l’intervento di eroi soprannaturali.
Esclusa dal dogma ufficiale, la credenza nel millennio sopravvivrà nel mondo sotterraneo della religione popolare. Questa credenza, cristiana ma critica, presenta una trasformazione importante del pensiero mitico “primitivo”. La vita della comunità sta per avere una storia, sta per conoscere un destino poiché resta aperta ad un intervento sovrannaturale che la trasformerà radicalmente, facendole compiere un salto qualitativo.
La storia concepita come Destino va a rivestire una forma mitica che si definisce con il ritorno, o con la possibilità di un ritorno, nel tempo degli eroi atemporali dei miti. Col pensiero giudaico-cristiano, l’eroe leggendario del mito fa, o può fare, la sua comparsa nella storia per incarnarsi in tale o talaltro personaggio storico al fine di compiere la sua missione salvatrice o escatologica.
«Le religioni monoteiste sono state un compromesso fra il mito e la storia, fra il tempo ciclico e il tempo irreversibile. Il tempo è orientato in blocco verso un unico avvenimento finale: “Il regno di Dio è vicino”. Queste religioni sono nate sul terreno della storia, e vi si sono stabilite. Ma anche là, si mantengono in opposizione radicale alla storia. La religione semistorica fissa un punto di partenza qualitativo nel tempo, la nascita del Cristo, la fuga di Maometto, ma il suo tempo irreversibile risulta di fatto invertito nel pensiero religioso come un conto alla rovescia: l’attesa, nel tempo che diminuisce, dell’accesso all’altro, vero mondo, l’attesa del Giudizio universale. L’eternità è uscita dal tempo ciclico. È il suo al di là». (G. Debord, La società dello spettacolo)
Il mito è una rappresentazione drammatica che si situa in un passato atemporale e che definisce l’organizzazione sociale presente. Con le religioni monoteiste abbiamo a che fare con una rappresentazione drammatica aperta il cui inizio si colloca in un passato atemporale, il dramma del peccato originale e della caduta, e la fine in un futuro atemporale, il dramma dell’Apocalisse e del giudizio finale, così che il tempo storico che si trova tra l’inizio e la fine è esso stesso un tempo drammatico, un tempo in attesa dell’avvenimento finale. È un tempo aperto sul mito, attraversato da miracoli, da segni e da premonizioni, in cui in ogni momento possono intervenire degli eroi soprannaturali.
La Chiesa cattolica si sforzerà di fare di questo tempo un tempo senza storia, dove nulla di sconvolgente può accadere, qualche cosa di finito tra due aldilà, ma è solo oggi che conosciamo un tempo puramente profano, un tempo senza spirito, irreversibile e monotono.
All’inizio del V secolo, Sant’Agostino spiegava ne La Città di Dio che l’Apocalisse deve essere interpretata come un’allegoria spirituale e che la Chiesa è la realizzazione senza pecche del Millennio. Essendo in quel momento la Chiesa cattolica istituzionalizzata, questa teoria assume valore di dogma. Quanto alla miseria sociale che risulta dalla caduta, non troverà la propria soluzione che in un futuro atemporale: situandosi il Regno di Dio in un al di là del tempo, della vita come della storia. La Chiesa che pretende d’essere la realizzazione del Millennio rappresenta di fatto l’ideale d’uguaglianza solo come ideale: tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio. Per contro essa riconosce ciò che esiste, l’ineguaglianza sociale, non soltanto come la conseguenza ineluttabile del peccato originale, ma anche come un rimedio ad esso, alla natura corrotta dell’uomo, come espiazione.
Le rivolte millenariste vogliono instaurare il “Regno di Dio” sulla terra e per questo devono distruggere ciò che esiste e dunque la Chiesa garante di ciò che esiste, garante dell’ineguaglianza nel nome dell’ideale d’uguaglianza che essa pretende di evocare.
Il movimento millenarista, in quanto movimento sociale, si dispiega nel mondo storico di cui intende realizzare la rivoluzione e ogni pensiero che riabilita la storia (Gioacchino da Fiore e la teoria dei tre stati ad esempio) verrà accolto con entusiasmo; in quanto movimento religioso, resta prigioniero di un mito, di una rappresentazione drammatica della storia e della sua realizzazione e accoglierà con fervore tutte le profezie concernenti la fine della storia.
«I millenaristi dovevano essere sconfitti perché non potevano riconoscere nella rivoluzione la loro propria operazione. Il fatto che essi attendano per agire un segno esteriore della decisione di Dio è la traduzione sul piano del pensiero della pratica per cui i contadini insorti seguono dei capi presi al di fuori di loro stessi. La classe contadina non poteva raggiungere una giusta coscienza del funzionamento della società, e del modo con cui condurre la sua stessa lotta: è perché mancava di queste condizioni di unità nella sua azione e nella sua coscienza che essa espresse il suo progetto e condusse le sue guerre secondo l’iconografia del paradiso terrestre». (G. Debord)
Noi ci proponiamo di confutare questa tesi nei seguenti punti: i millenaristi non si definivano in quanto classe, ma in negativo nel riconoscere lo stesso nemico. La guerra dei contadini tedeschi del 1525 alla quale sembra fare riferimento Debord era stata un’offensiva, attraversata da speranze millenariste, condotta contro i prìncipi per la salvaguardia dei diritti ancestrali minacciati. Obbligando i signori in qualche caso a prendere la loro testa, i contadini non facevano che richiamarli al loro dovere. Questa offensiva si apprestava a diventare chiaramente un sollevamento millenarista, che raggruppava contadini, minatori e operai, in Turingia con Münzer; il nemico venne allora definito senza la benché minima ambiguità.
La particolarità dei movimenti millenaristi è di toccare coloro che sono sul punto di essere esclusi dalla società: contadini indebitati, manovali, proletari urbani, uomini senza causa, ed è falso affermare che essi non abbiano avuto una giusta coscienza del funzionamento della società.
Ciò che Marx dice dei proletari moderni, potremmo ben dirlo dei tessitori di Bruges e di Gand, dei Ciompi di Firenze, dei contadini inglesi del 1381 o dei contadini tedeschi del 1525: «è una classe della società civile che non è più una classe della società civile».
Il mito dell’Età dell’oro ha dato una unità d’azione e di coscienza a queste insurrezioni che le rivolte moderne non conoscono più. Ha apportato a questi movimenti una forza di coesione, anche se essi talvolta non hanno potuto concepire la rivoluzione come la loro sola operazione.
Se Debord ha ragione a segnalare che si tratta «già di una tendenza rivoluzionaria moderna, alla quale manca ancora la coscienza di non essere che storica», egli resta tuttavia prigioniero di un’analisi “marxista” della storia e della lotta di classe. I millenaristi non si definivano in effetti, e con ragione, in quanto classe sociale. Rodney Hilton è costretto, con qualche difficoltà, a riconoscerlo: «Malgrado delle considerevoli differenze questi movimenti del basso Medio Evo possedevano un tratto che li accomunava: la nascita di una coscienza di classe. Si trattava di una coscienza di classe percepita negativamente in quanto essi non davano una definizione della propria classe ma di quella del loro nemico».
Essi si definivano ben più radicalmente poveri, gli esclusi di una comunità passata, e hanno saputo trovarsi un avversario, il mondo.
I movimenti millenaristi sono nati nelle regioni che subivano un rapido processo di cambiamento sociale dovuto all’attività mercantile e dove l’incremento della ricchezza si accompagnava ad una accresciuta pauperizzazione, all’esclusione delle antiche comunità contadine o urbane.
«Come non abbiamo cessato di vedere — scrive Norman Cohn nella conclusione del suo libro, I fanatici dell’Apocalisse — il millenarismo rivoluzionario non prospera che in certe precise situazioni sociali. Nel Medio Evo quelli che ne subivano maggiormente il fascino non erano né i contadini, né gli artigiani, solidamente integrati, gli uni nella vita del villaggio gli altri nella propria corporazione; essi potevano rivoltarsi o accettare la loro situazione, ma nell’insieme non erano inclini a seguire un profeta ispirato nella febbrile ricerca del Millennio. I profeti trovavano piuttosto i loro partigiani là dove esisteva una popolazione disorganizzata e atomizzata, rurale, urbana oppure rurale e urbana. Il millenarismo rivoluzionario traeva la propria forza da una popolazione che viveva ai margini della società». [...]
Sarebbe interessante determinare in quale misura sussista il mito dell’Apocalisse, così come il ricorso a un eroe soprannaturale, quando la rivolta dei poveri assume la dimensione, come fu il caso della crociata dei Pastorali, di un autentico movimento sociale.
Del resto Norman Cohn riconosce alla fine del suo libro che l’espressione religiosa alla quale hanno fatto ricorso i millenaristi non è che un aspetto o un momento di una critica sociale, la quale porta direttamente sull’organizzazione della società, di fatto sul solo rapporto sociale che effettivamente esiste, il rapporto padrone-servo.
«Quanto ai gruppi millenaristi anarcocomunisti che fiorirono verso la fine del Medio Evo, fu sempre in mezzo a un movimento sociale ben più esteso che vennero alla luce. È il caso di John Ball e dei suoi partigiani nella Rivolta dei contadini inglesi del 1381; dei Taboriti e degli Adamiti nel corso della rivoluzione ussita di Boemia nel 1419-1421; di Thomas Münzer e della Lega degli Eletti nella rivolta dei contadini tedeschi del 1525; lo stesso dicasi per gli Anabattisti radicali di Münster».
Come il mito, la religione nasce dalla vita sociale e in cambio la fonda, nasce dai rapporti sociali esistenti e in cambio li garantisce. La religione giudaico-cristiana nasce dal rapporto padrone-servo e in cambio fonda questo rapporto che è tutta la vita sociale, mentre per l’antichità, fino alla fine dell’Impero romano, tale rapporto non fu che un particolare aspetto della vita sociale. Criticare la vita sociale significa dunque criticare anche la religione e, inversamente, criticare la religione significa anche criticare la vita sociale. La radicalità dei millenaristi, che consiste nel dire che il mondo è di natura religiosa e che non si tratta di denunciare la natura religiosa del mondo ma di esaurirla, di realizzare la religione, ha potuto esprimersi fuori da ogni rappresentazione religiosa della fine del mondo, sia nel corso dei grandi movimenti sociali del basso Medio Evo, sia in modo più individuale con i Fratelli del libero spirito.
«Se generalmente si ammette che le tre grandi sollevazioni contadine del XIV secolo — Fiandra Marittima (1323-1328), Jacquerie del 1358, Inghilterra 1381 — si proponevano degli obiettivi limitati d’ordine sociale, si può tuttavia suggerire che delle speranze chiliastiche erano forse nascoste dietro alcuni aspetti secondari più sorprendenti della Rivolta di Londra come l’incendio del Palazzo Savoia e la distruzione di tutti i tesori che esso conteneva da parte dei londinesi che non vollero prendere niente per se stessi». (N. Cohn)
Sarebbe del resto più appropriato rovesciare i termini di questa frase e dire che dietro a rivendicazioni immediate e secondarie si sviluppava un pensiero radicale che si proponeva di cambiare il volto del mondo: «Dice di guardare! dice di guardare! Vergogna a colui che non converrà che tutti i gentiluomini devono essere distrutti». (I Jacques, discorso riportato da Froissart) È forse questo uno degli «obiettivi limitati d’ordine sociale» di cui parla N. Cohn?
Nel 1180 furono i Cappucciati, organizzazione rivoluzionaria dei poveri nel Massiccio centrale, a proclamare l’uguaglianza universale e a pretendere la libertà per tutti; dal 1360 al 1380, i Tuchini in Alvernia e in Linguadoca, le cui “prede” favorite erano gli uomini di chiesa, i nobili e i mercanti. Essi seppero sovente vendicarsi della sorte che avevano dovuto subire.
Ma è soprattutto il movimento taborita che, per la sua complessità e per la sua ampiezza, deve attrarre la nostra attenzione. In apparenza fu un movimento al tempo stesso nazionalista (lotta dei cechi contro la dominazione d’una minoranza tedesca), religioso (riforma della Chiesa che diventa una chiesa nazionale) e sociale (rivolta dei poveri e delle gilde contro i patrizi).
A mano a mano che procede il suo sviluppo iniziano a comparire delle divergenze sempre più importanti tra una tendenza riformista che cercherà un compromesso a tutti i costi e un nucleo che si radicalizzerà sempre di più. La guerra contro l’Impero permetterà alla tendenza riformista di prevalere, a proprie spese del resto, sull’ala radicale.
Nel luglio del 1419, la popolazione di Praga si sollevò, prese d’assalto il Municipio e scaraventò i nuovi consiglieri dalla finestra. Il radicalismo del movimento ottenne ben presto l’appoggio massiccio dei contadini.
A partire da questo momento, gli elementi radicali del movimento ussita cominciarono a separarsi dai calicisti (o utraquisti) e ad evolversi secondo la propria linea, si formarono delle comunità, embrioni di una società interamente esterna al mondo feudale: i Taboriti. Questi sembrano essere stati in stretta relazione con gli adepti del Libero spirito, benché all’inizio abbia dominato la tendenza valdese. Queste comunità si distinguevano per la messa in comune di tutto e per il rifiuto del lavoro.
I calicisti si unirono ben presto ai cattolici conservatori per perseguitare i taboriti, il cui movimento si radicalizzò per entrare in guerra aperta contro tutti coloro che non erano dalla loro parte.
Nel marzo del 1420 ebbe fine la tregua fra ussiti moderati e l’imperatore Sigismondo; un esercito cattolico invase la Boemia; il paese entrò in guerra sotto il comando di Jan Zizka, il quale battaglia dopo battaglia doveva respingere l’invasore. Zizka era taborita e furono i taboriti a sostenere gran parte della lotta.
Per i taboriti, il Millennio si apprestava a essere caratterizzato dal ritorno a una comunità perduta: «Tutti gli uomini vivranno assieme come fratelli, nessuno sarà assoggettato all’altro». E dalla restaurazione mondiale di questa comunità.
Ma allo stesso interno di Tabor si arrivò ad abbandonare l’esperienza della libertà assoluta e i Piccardi, che sostenevano la dottrina dei Fratelli del libero spirito, vennero espulsi. Essi si apprestavano a diventare celebri col nome che ricevettero dai loro nemici, gli Adamiti di Boemia. Zizka interruppe una campagna per disporre dei piccardi, i cui sopravvissuti si rifugiarono su un’isola del fiume Nezarka da dove avrebbero effettuato costanti sortite notturne: «Chi non è con noi è contro di noi». Vennero sterminati il 21 ottobre 1421.
L’anno seguente una controrivoluzione mise fine al movimento taborita e il potere effettivo si concentrò sempre più nelle mani della nobiltà.
Al di là delle frontiere, dappertutto, i ricchi e i privilegiati, clericali e laici, erano ossessionati dalla paura di vedere l’influenza dei taboriti estendersi e generare una rivoluzione che avrebbe sconvolto l’ordine sociale da cima a fondo. Si ritrova l’influenza dei taboriti nella regione dell’Alto Reno nei movimenti conosciuti sotto il nome collettivo di Bundschuh che raggruppavano i contadini e i poveri delle città. La rivolta Bundschuh scoppiò nella diocesi di Spire nel 1502, dove ogni autorità doveva essere rovesciata; sebbene il movimento sia stato represso, ci furono sollevazioni dello stesso tipo nel 1513-1517. (...)
L’incendio millenarista si appresta a spegnersi a poco a poco nello stesso tempo in cui si compirà il mondo della religione, non come lo volevano i millenaristi attraverso la sua realizzazione ma attraverso la sua mutazione in mondo dello spettacolo, non con loro ma contro di loro. Essi vennero prima schiacciati con le armi, poi nel pensiero dallo Stato e dalla Merce.
Quando la merce come rapporto sociale penetra in profondità il mondo feudale per — a partire dal XVI e XVII secolo — trasformarlo radicalmente, la religione diventa separata dalla nuova esperienza sociale che si instaura; essa scompare come coscienza di sé della società e dunque come strumento di unificazione. A partire dal momento in cui non è più il pensiero dell’esperienza del mondo, essa si trasforma nell’opposto in tutte le sue determinazioni. Allorché era portatrice di una verità sul mondo, essa non sarà più che un fattore d’oscuramento, quando non una semplice polizia del pensiero come ideologia o una semplice polizia dei costumi come morale. Da strumento d’unificazione qual era, diventa strumento di divisione: le guerre di religione si succedono alle rivoluzioni millenariste. Pensiero della separazione, essa diventa, come pensiero separato, agente della separazione. Le classi dominanti faranno della religione un uso politico.
Il senso delle parole si offusca. Lo Stato vi partecipa. Lo Stato si appresta a sostituirsi alla religione ma come realizzazione immaginaria dell’Essere generico: «In altri tempi il re non aveva altre feste che quelle dei suoi sudditi ma ecco che, con la costruzione dello Stato moderno e del suo apparato di rappresentazione, i sudditi devono celebrare le feste del loro principe». Fin dall’inizio del XVII secolo si opera il passaggio dalla «monarchia del diritto divino» alla «natura divina della monarchia». Luigi XIV è l’Essere generico che si dà a vedere; ciò che è assoluto in lui è la sua esteriorità. L’Essere non è più pensato, è visto. Ciò che è assoluto è l’amputazione nel pensiero dell’individuo e del genere. Lo spettacolo è sì l’erede della religione ma con una impensabile conseguenza funesta per i poveri.
Non di meno questa visibilità della natura divina dello Stato può dar da pensare, ed è ancora troppo. Si tratterà per la borghesia di organizzare la sua invisibilità, «la monarchia era l’espressione compiuta di questa alienazione, la repubblica ne è la negazione all’interno della propria sfera» (Marx). La separazione della Chiesa e dello Stato segna il passaggio della natura religiosa dello Stato nell’invisibilità: è così che la religione come parte della società è stata utilizzata per mascherare la natura religiosa dello Stato oltre che per negare la spiritualità della merce e del denaro.
Questo passaggio nell’invisibilità è stato di fatto consentito dal mutamento del ruolo dello Stato: lo Stato non era la realizzazione immaginaria dell’Essere generico che per il tempo necessario per permettere la generazione della merce. Alla spettacolare separazione della Chiesa e dello Stato corrisponde nella realtà la sostituzione dello Stato alla Chiesa in quanto mediatore tra l’attività generica della merce e gli individui.
L’essenza dell’uomo non appare più oggi come Essere generante l’Essere, come qualcosa di statico, come stato (Dio onnipresente e immobile). La merce circola, si trasforma in denaro, e il denaro in merce, che si modifica continuamente, l’immobilità per essa è paragonabile alla morte, essendo prima di tutto un’attività; l’essenza dell’uomo appare, ormai, come attività sociale che genera l’attività sociale, come comunicazione. I millenaristi hanno concepito la rivoluzione come l’unione dell’individuo e del genere, come accesso alla propria sovranità, alla coscienza di sé. Questa conoscenza doveva sfociare in un’attività sociale che era quella della riconoscenza reciproca; ma essi si sono trovati stranamente sprovvisti quando dovettero organizzare le condizioni pratiche di questa riconoscenza; non riuscirono a concepirla come comunicazione, come attività sociale che si costruisce razionalmente. Il fatto che essi si riconoscessero per la maggior parte del tempo come eletti doveva ben spesso isolarli nella società.
Nel Medio Evo, ci trovavamo di fronte a un pensiero razionale che si esprimeva in maniera irrazionale, ma è stata questa razionalità a far sì che questo pensiero si rivelasse — la qual cosa ci ha fatto dire che il mondo della Religione era alla mercé della sua verità. Oggi è tutta la nostra esperienza del mondo ad essere irrazionale, a non aver senso, dunque a non rivelarsi; semplicemente perché la sua razionalità si trova fuori di noi, fuori del campo del nostro pensiero, è propria dell’esteriorità. Quando l’impiego delle parole s’è perduto nelle cose, nel momento in cui le cose si servono delle parole, il loro significato è scomparso per noi. Quando le merci comunicano, lo Stato può allora impadronirsi della parola comunicazione senza timore, avendone noi perduto l’uso.
Lo Stato oggi svolge, nel pensiero, lo stesso ruolo che in altri tempi è stato della Chiesa, facendo in modo che il principio del mondo sia e rimanga incriticabile, ma con maggiore facilità, nella misura in cui esso ha avuto accesso all’oggettività: il denaro è il mezzo attraverso il quale il principio, il denaro, si realizza in quanto principio… Per nostra sventura.
[Diavolo in corpo, n. 2, maggio 2000]