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Prima di qualsiasi ricerca o riflessione sul lavoro nella nostra società, bisogna rendersi conto che in essa tutto è dominato dall’ideologia del lavoro. In quasi tutte le società tradizionali, il lavoro non è considerato né un bene né l’attività principale. Il valore eminente del lavoro appare nel mondo occidentale nel XVII secolo, in Inghilterra, in Olanda, poi in Francia e si sviluppa in questi tre paesi contemporaneamente alla crescita economica.

Come si spiega, all’inizio, la trasformazione mentale e morale che consiste nel passare dal lavoro come pena, punizione, o inevitabile necessità, al lavoro come valore e bene? Occorre constatare che questa reinterpretazione che ha portato all’ideologia del lavoro si verifica con la convergenza di quattro fatti che modificano la società occidentale.

In primo luogo, con lo sviluppo industriale il lavoro diventa sempre più penoso e apparentemente più disumano. Le condizioni di lavoro peggiorano significativamente nel passaggio dall’artigianato, e anche dalla manifattura (già dura, ma non disumana) alla fabbrica. Ciò produrrà un nuovo tipo di lavoro, più spietato. E siccome con la necessità dell’accumulazione del capitale lo stipendio è inferiore al valore prodotto, il lavoro diventa più invasivo, ricoprendo tutta l’esistenza umana. L’operaio è nel contempo costretto a far lavorare la moglie e i figli per riuscire a sopravvivere. Il lavoro diventa più inumano di quanto lo sia per gli schiavi, e più totalitario, non lasciando spazio a nient’altro nella vita, nessun gioco, nessuna indipendenza, nessuna vita familiare. Agli operai appare come una sorta di fatalità, di destino. Da qui la necessità di compensare questa situazione disumana con una sorta di ideologia (che del resto appare qui corrispondente esattamente alla veduta dell’ideologia in Marx) per far recepire il lavoro come una virtù, un bene, un riscatto, una elevazione. Se il lavoro fosse considerato ancora una maledizione, sarebbe del tutto intollerabile per l’operaio.

Ora, questa diffusione del «bene-lavoro» è tanto più necessaria in quanto la società di quest’epoca ha abbandonato i suoi valori tradizionali, e questo è il secondo fattore. Da un lato le classi dirigenti cessano di credere profondamente al cristianesimo, dall’altro gli operai che sono contadini sradicati, perduti nella città, non hanno più alcuna relazione con le loro vecchie credenze, la scala di valori tradizionali. Pertanto bisogna creare rapidamente una ideologia sostitutiva, una rete di valori in cui inserirsi. Per i borghesi, il valore diventerà ciò che è la fonte della loro forza, della loro ascesa. Il lavoro (e in seconda battuta il denaro). Per i lavoratori, abbiamo appena visto che bisogna fornir loro anche la spiegazione, o la valorizzazione, o la giustificazione della loro situazione e, contemporaneamente, una scala di valori in grado di sostituire quella vecchia. Così l’ideologia del lavoro nasce e cresce nel vuoto di altre credenze e valori.

Ma c’è un terzo fattore: viene ritenuto un valore il bisogno di crescita del sistema economico, diventato fondamentale. L’economia assumerà un ruolo essenziale nel pensiero solo fra il XVII e il XVIII secolo. L’attività economica è creatrice di valore (economico). Nella mente delle élite, non solo della borghesia, essa diventa il fulcro dello sviluppo, della civiltà. Allora, come non attribuirle un ruolo chiave nella vita morale? Ora, il fattore determinante di questa attività economica, la più bella dell’uomo, è il lavoro. Tutto si basa sul lavoro indefesso. Sebbene non sia ancora chiaramente formulato nel XVIII secolo, sono in molti già a comprendere che il lavoro produce valore economico. E si fa in fretta a passare da questo valore all’altro (morale o spirituale). È inevitabile che un’attività così essenziale materialmente sia giustificata anche moralmente e psicologicamente. Creatrice di valore economico, si usa la stessa parola per dire che è fondatrice di valore morale e sociale.

Infine, un ultimo fattore assicura questo predominio. L’ideologia del lavoro appare quando esiste una maggiore separazione, decisiva tra chi comanda e chi obbedisce all’interno di uno stesso processo produttivo, tra chi sfrutta e chi è sfruttato, corrispondenti a categorie radicalmente differenti di lavoro. Nel sistema tradizionale, c’è chi non lavora e chi lavora. C’è una differenza tra il lavoratore intellettuale e quello manuale. Ma non vi è opposizione radicale tra i compiti organizzativi, o anche di comando, e quelli di esecuzione: al lavoratore manuale viene lasciata una maggiore iniziativa. Nel XVIII secolo, chi organizza il lavoro e chi sfrutta è egli stesso un lavoratore (e non un non-lavoratore, come il signore), e tutti sono parte del circuito del lavoro, ma con una opposizione totale tra esecutore sfruttato e dirigente sfruttatore. Ci sono categorie totalmente diverse di lavoro in campo economico.

Penso siano questi i quattro fattori che portano alla elaborazione (spontanea, non machiavellica) dell’ideologia del lavoro, che svolge il ruolo di tutte le ideologie: da un lato oscurare la situazione reale trasponendola in una zona ideale, attirando tutta l’attenzione sull’ideale, il nobile, il virtuoso, dall’altro lato giustificare tale situazione dipingendola con i colori del bene e del significato. L’ideologia del lavoro è penetrata ovunque, dominando in gran parte la nostre mentalità.

Quali sono quindi le componenti principali di questa ideologia? Innanzitutto l’idea centrale, diventata un’ovvietà, è che l’uomo sia fatto per il lavoro. Egli non ha altra possibilità per vivere. La vita può essere soddisfatta solo attraverso il lavoro. Ricordo una lapide che, sotto il nome del defunto, recava una sola iscrizione: «Il lavoro è stato la sua vita». Nient’altro da dire sull’intera vita di un uomo. Allo stesso tempo, nella prima metà del XIX secolo si è affacciata l’idea secondo cui l’uomo si sia differenziato dall’animale, diventando veramente uomo, perché fin dall’inizio ha lavorato. Il lavoro ha fatto l’uomo. La distanza tra il primate e l’uomo viene stabilita dal lavoro. Fatto significativo, mentre nel XVIII secolo l’uomo preistorico veniva chiamato in genere «homo sapiens», dall’inizio del XIX secolo a prevalere sarà l’«homo faber»: l’uomo costruttore di strumenti di lavoro (naturalmente so che questo era legato ad effettive scoperte di strumenti preistorici, ma questo cambiamento di enfasi resta indicativo). Essendo il lavoro all’origine dell’uomo, è il lavoro a dare un senso alla vita. Questa non ha alcun significato in se stessa: l’uomo gliene conferisce uno attraverso le sue opere e la realizzazione della sua persona nel lavoro che, di per sé, non ha bisogno di essere giustificato e legittimato: il lavoro ha senso in quanto tale, e determina la propria ricompensa, non solo per la soddisfazione morale del «dovere compiuto», ma anche per i benefici materiali che ognuno trae dal suo lavoro. Esso contiene in sé la sua ricompensa, e inoltre una ricompensa aggiuntiva (denaro, reputazione, giustificazione). Labor improbus omnia vincit. Questo motto è diventato la massima del XIX secolo. Perché il lavoro è il padre di tutte le virtù, come l’ozio è la madre di tutti i vizi. I testi di Voltaire, uno dei creatori dell’ideologia del lavoro, sono molto illuminanti a questo proposito: «Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno», oppure: «Costringete gli uomini a lavorare, li renderete persone oneste». E non è un caso che sia proprio Voltaire a mettere in primo piano la virtù del lavoro. Perché questa virtù diventa giustificatoria. Si possono commettere molti errori di tutti i tipi, ma se si è buoni lavoratori si viene perdonati. Un altro passo e arriviamo all’affermazione, che non è moderna, secondo cui «Il lavoro è libertà». Questa formula possiede oggi un suono tragico poiché ci ricordiamo l’insegna all’ingresso dei campi nazisti: «Arbeit macht frei». Ma nel XIX secolo veniva spiegato seriamente che in effetti solo il lavoratore è libero, al contrario del nomade che dipende dalle circostanze, e del mendicante che dipende dalla buona volontà degli altri. Il lavoratore, come tutti sanno, non dipende da nessuno. Solo dal suo lavoro! Così la schiavitù del lavoro viene trasformata in garanzia di Libertà.

E di questa morale troviamo due applicazioni più moderne: l’uomo occidentale ha visto nella sua capacità di lavorare la giustificazione e al contempo la spiegazione della propria superiorità nei confronti di tutti i popoli del mondo. Gli africani erano pigri. Era un dovere morale insegnare loro a lavorare, e la conquista è stata legittima. Era impossibile entrare nella prospettiva che si potesse smettere di lavorare quando si aveva abbastanza da mangiare per due o tre giorni. Innumerevoli sono stati, tra il 1900 e il 1940, i conflitti tra imprenditori occidentali e lavoratori arabi o africani a questo proposito. Fatto notevole, la valorizzazione dell’uomo attraverso il lavoro è stata adottata dai movimenti femministi. L’uomo ha tenuto la donna in inferiorità, perché solo lui compiva il lavoro socialmente riconosciuto. La donna viene oggi valorizzata solo se «lavora»; rassettare casa e crescere i figli non è lavoro, poiché non è un lavoro produttivo che porta denaro. Gisèle Halimi ha affermato ad esempio: «La più grande ingiustizia è che la donna sia stata scartata dalla vita lavorativa ad opera dell’uomo». È questa esclusione ad impedire alle donne di accedere alla piena umanità. O ancora, a far sì che vengano considerate l’ultimo popolo colonizzato. In altre parole, il lavoro, che nella società industriale è effettivamente la fonte del valore, che diventa l’origine di ogni realtà, si ritrova trasformato dall’ideologia in una sovra-realtà, investito di un senso definitivo a partire dal quale tutta la vita assume il proprio significato. Il lavoro viene così identificato con l’intera morale e sostituisce tutti gli altri valori. È portatore di avvenire. Questo, sia che si tratti dell’avvenire individuale o di quello della comunità, si basa sull’efficacia, la generalità del lavoro. E a scuola si insegna prima di tutto al bambino il valore sacro del lavoro. È la base (con la Patria) dell’insegnamento primario dal 1860 al 1940 circa. Questa ideologia penetrerà totalmente le generazioni.

E ciò porta a due conseguenze molto visibili, tra le altre. In primo luogo, siamo una società che ha messo progressivamente tutti al lavoro. Chi viveva di rendita, come una volta il nobile o il monaco, entrambi oziosi, diventa un personaggio spregevole verso la fine del XIX secolo. Solo l’operaio è degno del nome di uomo. E a scuola si mettono i bambini al lavoro, dato che mai in nessuna civiltà si sono fatti lavorare i bambini (non parlo del terribile lavoro industriale e minerario dei bambini nel XIX secolo, che era accidentale e legato non al valore del lavoro, ma al sistema capitalistico). E l’altra conseguenza attualmente significativa: non si capisce più che vita sarebbe quella di un uomo se non lavorasse. Il disoccupato, anche qualora riceva un’indennità adeguata, rimane fuori posto e come disonorato dalla mancanza di attività sociale remunerata. Il tempo libero troppo prolungato è inquietante, accompagnato da cattiva coscienza. E bisogna ancora pensare ai numerosi «drammi della pensione». Il pensionato si sente frustrato dall’essenziale. La sua vita non ha più produttività, né legittimazione: non serve più a niente. È una sensazione assai diffusa determinata unicamente dal fatto che l’ideologia ha convinto l’uomo che il solo uso normale della vita sia il lavoro.

Questa ideologia del lavoro è di particolare interesse nella misura in cui è un perfetto esempio dell’idea (che non bisogna generalizzare) secondo cui l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante. O che questa imponga la propria ideologia alla classe dominata. Infatti, l’ideologia del lavoro è, con l’espansione dell’industria, una creazione integrale della classe borghese. Questa sostituisce ogni morale con la morale del lavoro. Ma non per ingannare i lavoratori, non per portarli a lavorare di più. Perché è la stessa borghesia a crederci. È per se stessa che pone il lavoro al di sopra di tutto. E le prime generazioni borghesi (ad esempio i capitani d’industria) sono costituite da uomini attaccati al lavoro, che si danno da fare più di tutti. Questa morale non viene elaborata per costringere gli altri, ma come giustificazione per ciò che si fa da sé. La borghesia non credeva più ai valori religiosi e poco alle morali tradizionali: ha sostituito il tutto con questa ideologia che legittima al tempo stesso ciò che fa, il modo in cui vive, e anche il sistema stesso che organizza e mette in atto. Ma, naturalmente, abbiamo già detto che, come ogni ideologia, essa serve anche a coprire, a nascondere la condizione del proletariato (se lavora, non è per coercizione ma per virtù). Ora, è appassionante constatare come questa ideologia prodotta dalla borghesia diventi l’ideologia profondamente cruda ed essenziale della classe operaia e dei suoi pensatori. Come la maggior parte dei socialisti, Marx si fa intrappolare da questa ideologia. Lui, così lucido nel criticare il pensiero borghese, entra in pieno nell’ideologia del lavoro. I testi abbondano: «[Il lavoro] È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo» (Engels).

Ed ecco dei bei testi di Marx:

«Nel tuo uso del mio prodotto, io avrei immediatamente il godimento, tanto nella coscienza di aver soddisfatto nel mio lavoro un bisogno umano, quanto di aver oggettivato l’essere umano e quindi aver procurato il suo oggetto corrispondente al bisogno di un altro essere umano. Di essere stato per te il mediatore tra te e il genere, dunque di essere conosciuto e sentito da te stesso come un complemento del tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso, quindi di sapermi confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. Di aver creato immediatamente nella mia individuale esteriorizzazione di vita, dunque di aver immediatamente confermato e realizzato nella mia attività individuale il mio vero essere, il mio umano, comune essere». (Karl Marx, Appunti su James Mill).

«Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra quindi realmente come un essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie. Mediante essa la natura appare come la sua opera e la sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato». (Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).

E uno degli attacchi spietati di Marx contro il capitalismo riguarderà proprio questo punto: il capitalismo ha degradato il lavoro umano, ne ha fatto un avvilimento, una alienazione. Il lavoro in questo mondo non è più lavoro. (Dimenticava che è questo mondo ad aver costruito l’immagine nobile del lavoro!). Il capitalismo deve essere condannato, tra l’altro, affinché il lavoro possa ritrovare la propria nobiltà e il proprio valore. Su questo punto Marx attaccava nel contempo gli anarchici, i soli a dubitare dell’ideologia del lavoro. Infine: «In sostanza il lavoro è la manifestazione della personalità umana. L’oggetto prodotto esprime l’individualità dell’uomo, il suo prolungamento oggettivo e tangibile. È il mezzo di sostentamento diretto, e la conferma della sua esistenza individuale». Così Marx interpreta tutto attraverso il lavoro, e la sua celebre dimostrazione che solo il lavoro crea valore si fonda su questa ideologia borghese (del resto erano proprio degli economisti borghesi che, prima di Marx, avevano fatto del lavoro l’origine del valore...). Ma non solo i pensatori socialisti entreranno in questa ottica, anche gli operai ed i sindacalisti. Durante tutta la fine del XIX secolo si assiste allo sviluppo della parola «lavoratori». Solo i lavoratori sono giustificati e hanno diritto ad essere onorati, al contrario degli oziosi e di chi vive di rendita che sono vili di natura. Inoltre per «lavoratore» si intende solo il lavoratore manuale. Intorno al 1900 ci saranno aspri dibattiti nei sindacati per verificare se sia possibile accordare a funzionari, intellettuali ed impiegati, il nobile titolo di «lavoratore». Allo stesso modo tra il 1880 e il 1914 nei sindacati non si smetterà di ripetere che il lavoro nobilita l’uomo, che un buon sindacalista deve essere un operaio migliore degli altri; diffondendo l’ideale del lavoro ben fatto, ecc. Infine, sempre nei sindacati, si chiede in primo luogo la giustizia nella ripartizione dei prodotti del lavoro, oltre all’attribuzione del potere ai lavoratori. Possiamo così affermare, in linea generale, che sindacati e socialisti hanno contribuito a diffondere questa ideologia del lavoro ed a rafforzarla, cosa che d’altronde è assai comprensibile!



[Foi et Vie, n. 4, 1980]