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È il caso di lottare per una causa il cui successo appare improbabile? Quando questo interrogativo viene posto, mi stupisco sempre nell’udir rispondere con una negazione. No, se si arrivasse alla convinzione dell’insuccesso, se non si potesse ragionevolmente fare affidamento sul trionfo delle idee per cui ci si batte, nonché sulla loro felice applicazione nel corso della propria vita, allora tanto vale sforzarsi di godere piuttosto degli anni che rimangono, alla larga dalle delusioni quotidiane ma immersi nei piaceri dell’edonismo. Io confesso disposizioni opposte. Le possibilità variabili, sempre soggette a scommessa, dell’attuazione del desiderabile non mi sembrano prevalere contro il desiderio che è la mia sola preoccupazione.

Insomma, l’istanza del fatto mi separa da chi, pur in preda alla passione, invoca la razionalità come se avesse bisogno di un avallo. Solo se i nostri programmi fossero ragionevolmente promessi a vedere la luce, la rivolta da cui traggono il loro sviluppo sarebbe ammissibile? Ben lungi dal possederne la stoffa, trovo quasi ammirevole questa disciplina della rovesciabilità: non esiste rivoluzione che valga, e che valga che si lotti per essa, a meno che essa non esca dall’aleatorio per farsi certezza. A questo punto, il primo compito di una critica rivoluzionaria coerente diventa quello di presentare l’oggetto di una scommessa come un’eventualità altamente probabile, e di costruire l’argomentazione positiva adatta a giustificare l’ottimismo senza cui non ci sarebbero rivoluzioni né rivoluzionari.

Le celebrazioni delle cosiddette «vittorie di movimento» fanno assistere, questa volta in maniera retrospettiva, ad una logica del tutto simile. Quando esplode la gioia per l’esito felice dei tentativi a cui ci si è dedicati, c’è sempre chi li interpreta come azioni utili il cui successo ne dimostra la fondatezza e giustifica lo sforzo. Al contrario, a me sembra che un eventuale insuccesso non apporterebbe affatto la prova contraria, che non avrebbe spento in alcun caso la ragione della protesta né alterato per poco che sia la sua giustezza. Non è il risultato a dare ragione, poiché con ancora maggiore ragione lo status quo ci appare uno scacco provvisorio che ci chiama imperiosamente a proseguire e moltiplicare i nostri tentativi per abbatterlo. «Vittorie» e «sconfitte» testimoniano l’efficacia o l’inefficacia del nostro slancio? L’esito è la diretta conseguenza delle nostre piccole azioni? Nulla lo dimostra. Mille fatti contingenti, tanto meno analizzabili in quanto a malapena conosciuti, sono determinanti nella loro sola coniugazione. In mezzo a tante forze che si compongono, nulla dimostra che il movimento che si tenta di sollevare pesi così fortemente, nemmeno dal lato buono della bilancia. Ma tutto ciò che si può affermare è che nell’ipotesi in cui i nostri atti si rivelassero impotenti, essi non hanno comunque ostacolato l’esito che si cerca con ostinazione. Desolante supposizione: davanti a sé si vede la storia venire sollecitata a farsi giudice e contabile e piegarsi, agevolmente a piacimento di ognuna delle parti, a mille dimostrazioni mobilitanti e contrastanti. E soprattutto a decretare l’innocenza del fatto di un desiderio che, in mancanza di tale fatto, resterebbe colpevole.

Ma i fatti sono assai meno testardi di quanto non si dica: nell’immagine che noi sappiamo darci, essi si prestano volentieri a giustficare i nostri atti, i nostri tentativi, le nostre passioni. In effetti occorre solo follia per amare senza speranza. Senza speranza? A questa condizione, nessuna possibilità può illuminare crudelmente un sole fatale, meglio l’oscurità di una forza arcana che oppone un rifiuto sotto forma di malgrado tutto. Malgrado tutto si pone la possibilità, poi si riprende le proprie analisi e si rivaluta le carte del gioco senza mai fermarsi lungo il percorso verso questo obiettivo reale indicato contro ogni verosomiglianza e la cui ricerca introduce un poco di realtà nel sogno, una speranza di attualità nell’utopia, una promessa di piacere nella passione. L’ultima parola, che è la felicità, viene fermata in anticipo e tutto il percorso del discorso, il seguito dei giorni nel racconto della nostra esistenza non tendono che ad affermarne la possibilità ed a farla sorgere in mezzo alla razionalità delle cose. Movimento senza cui forse non si avrebbe mai avuto amore smisurato poiché il cuore prova gioia solo nel far battere nella nostra tempia il sangue della possibilità.

Probabilmente nessuno fra noi è immune da questa singolare malattia che nasce sul grande schermo bianco del a che pro? e si sviluppa nell’aspro bisogno di considerarsi la causa di qualche indubitabile avvenimento in grado di accecare provvisoriamente l’abisso ontologico. Ma la distorsione a cui la passione sottopone il reale, sia che essa si rappresenti la sua immediata trasformazione come razionalmente plausibile, sia che essa si immagini aver determinato in virtù di un rapporto meccanico l’esito finale, ebbene solo un idealismo può rifiutarsi di vedere in questa distorsione un errore molto fecondo. I rigori della logica hanno cambiato il volto del mondo meno dei quiproquo della necessità personale e delle concatenazioni della causalità esteriore. Tuttavia, che prova definitiva può fornire la sfortuna contro la passione?

Ma, intanto, sono perlomeno sorpreso nel vedere le idee, i gesti, gli sforzi, altrimenti detto l’etica cadere ancora una volta sotto il maglio di una legge che condividere l’essere fra l’inferno del fallimento ed il paradiso del successo. Nuova, questa legge? Suvvia, andiamo! Nei secoli reputati più scuri, la giustezza delle cause veniva decisa in ultima analisi dal fatto. L’ordalia o la muscolatura dei campioni fornivano queste stesse dimostrazioni di giustizia che oggi si pretendono dall’avvenimento. Se non abbiamo trovato altro da sostituire all’infame giudizio di Dio che il giudizio della Storia, se nell’uno e nell’altro caso, ieri come oggi, il fatto è l’istanza finale, se i rapporti di forza che decidono dei fatti materiali rivestono ai nostri occhi valore di giudizio etico, allora non abbiamo nulla da invidiare ai tempi bui in cui i vinti subivano non solo la sventura, ma l’umiliazione. Allora Varlet ha avuto torto, Pisacane ha avuto torto, Ravachol ha avuto torto, Bresci ha avuto torto, Makhno ha avuto torto, Van der Lubbe ha avuto torto, Durruti ha avuto torto. Sappiamo fin troppo bene chi ha avuto ed ha ancora ragione contro tutti loro, in nome di questa consacrazione storico-religiosa che risulta dalla contaminazione del fatto interiore con il fatto pubblico, come se ciò che accade manifestasse una giustizia superiore illustrante la legge organica dell’evoluzione dei mondi in cui ogni fase diventa la sanzione morale dei nostri gesti.

Così non si tratta più di sapere se più o meno ignobilmente il fine giustifica i mezzi: si è costretti a constatare che, sotto questa legge che tende a piegarci, soltanto il successo giustifica lo sforzo. Così la mondanità mantiene le sue prerogative di alta e bassa giustizia, per esaltarli o condannarli, sui movimenti dell’etica. La felice conclusione della storia getta un velo di luce sulle tribolazioni del protagonista, fossero anche queste del tutto abiette. Tutta la letteratura del racconto, tranne poche eccezioni, tende solo ad affermare il regno di questo realismo adoratore della necessità materiale più pragmatica attraverso cui si esprime – ci viene suggerito – non solo la legge fisica dell’universo ma la sua vocazione finale. Ma la passione esiste e la sua imperiosità non fa meno parte del mondo di tutti questi determinismi il cui concorso assicura la sua soddisfazione o il suo scacco. Chi potrebbe allora credere che l’unica prospettiva aperta alla passione sia quella di venire vissuta senza speranza, di sorgere nella coscienza contemporaneamente alla certezza che essa resterà platonica e inappagata, nutrendosi ogni giorno della sua rinnovata delusione? Alla passione, al nome che l’antico Oriente prestava a questa pura sofferenza, io accordo ben altra portata. Al di là di un realismo persistente che la giustifica attraverso il suo successo e di un idealismo che la accetta in quanto stato di cose senza rimedio, mi sembra che la passione sia una energia assai interessata. La questione del successo, prima di porsi in termini oggettivi e di occuparsi del mondo, la occupa per intero ma non ne giustifica l’esistenza. Autonoma, sovrana, la passione resta non di meno l’autentica fondatrice dell’istanza del fatto.


Perché sono quello che sono? Questione permanente a cui nessuna formula definitiva risponderà mai, questione che attraversa l’esistenza e accompagna parole sussurrate e gesti sotterranei. Segni di una inquietudine latente, pronta ad esplodere quando la loro accumulazione prevale sulla valvola di sfogo delle fanfare attiviste e speculative. Si ritorna al chi sono io? attraverso i mille interrogativi sorti dalla propensione ad una certa visione inaudita della vita e dalla incapacità di osservarne esclusivamente quella più ordinaria, dall’appetito di emancipazione umana e dal rifiuto opposto alla condizione attuale o ancora dal disgusto che ispirano questi squallidi libri di ricette in cui sono vantati i meriti della minestra popolare quando viene condita con un po’ di politica, di cultura e di sport. Tuttavia, non dovrei rispondere a mio solo nome per ricordarmi un incrocio superato senza possibile ritorno tanti anni fa. Ciò che penso, non l’ho pensato da solo. Ciò che faccio, non l’ho fatto da solo. Ciò che sono, non lo sono stato da solo. Ma perché la mia scelta fu quella? Che resistenze bisogna superare per non rimanere confinati nelle azioni solitarie? Gli obiettivi ambiti sono raggiungibili? Lo sono più di ieri, meno di ieri, o parzialmente fuori portata? Possiamo ragionevolmente pensare che i fatti riusciranno a confermare il fondamento delle nostre idee come delle nostre azioni, accordando loro la piena realizzazione che perseguono, il risultato per cui vengono messi in moto? Questo è il riflesso del dibattito che, è vero, agita e attanaglia.

È per istinto acquisito che gli amministratori della vita ritagliano senza arrossire nella realtà alcune tragedie, suscettibili di rivestire nei loro discorsi le forme classiche, di assumere i tratti di punti di riferimento. La cronologia è buona figlia e assieme all’affabulazione del fatto permette di concludere sull’infondatezza di tale azione, sollecitando la necessità a redigere le constatazioni di fallimento nell’estetica del punto finale. Così impariamo che spetta ai bottegai aggiungere la punteggiatura alle poesie che sono pagati per vendere, come alla storia che si scrive di dividere per capitoli quella che si vive. Ancora una volta, perché si dice che i fatti sono testardi dato che si piegano così dolcemente a una dimostrazione secondaria chiamata in soccorso di una opinione prestabilita? Ecco il passato che ci viene servito. Che ne è quindi dell’avvenire?

Non so se si tratta di una disposizione generale della sensibilità uscita quasi indenne dall’alluvione del positivismo, ma a mio avviso la volontà di emancipazione sfida sempre i suoi fallimenti tanto quanto diffida dei suoi successi derisoriamente fugaci. La libertà è al di là di ogni vittoria, al di là di ogni sconfitta, al di là della loro bilancia truccata. Sul campo di battaglia passa la vittoria sempre alata e l’ombra indelebile della sconfitta, scendono coloro che sono consumati dal fuoco dell’azione e vi vengono ridotti in cenere, ma il cuore segreto della libertà rimane inaccessibile altrove. Cosa m’importa delle strategie di Clausewitz, cosa m’importa dei giudizi della storia, cosa m’importa della loro stessa realtà così come mi viene servita? A proposito delle possibilità auspicabili e delle disgrazie prevedibili, l’autonomia è solo relativa. Certo, per alcuni come me, la disperazione forgia la speranza in maniera più durevole e la muta in volontà. Della vita e del reale, è vero che ci siamo fatti una tale idea che nulla di quanto l’analisi oggettiva presentasse come probabile può costituire prova a carico contro ciò che siamo, contro una passione costitutiva del nostro essere il cui infortunio è una legge permanente perché il suo oggetto si trova in un luogo raggiungibile solo di sfuggita e impossibile da possedere. Tuttavia questo oggetto è reale e tutta l’immaginazione non va che a facilitarne l’accesso.

Non è mai tardi per accorgersi che né i mondi in cui la passione compie i suoi delitti, né quelli in cui l’ordalia detta i suoi giudizi, hanno realtà fuori dal loro rapporto. Non vi è nulla di reale se non i rapporti, il più delle volte generatori di ostilità, fra la necessità interiore e la necessità obiettiva. Ma tutto il reale resta ben lungi dall’essere stato annunciato poiché la poesia ha a malapena incontrato il mondo.