La distruzione randagia
Canenero
Una parola accanto all’altra. Un suono che va a perdersi in quel rumore continuo e assordante che ancora chiamano linguaggio. Parola diversa dalle altre. Un sibilo in mezzo alle urla. Un fiato di voce da cui muovere alla ricerca di nuovi significati in un mondo in cui tutto è stato detto.
Parola contro le altre, di un contro che è altro rispetto alle parole, che non abita lo spazio dell’opposizione tra concetti, ma quello del silenzio che lo precede e lo accompagna.
Parola, infine, che non rimandi a se stessa, ma faccia intuire quella regione in cui, nel silenzio dove libero può muovere il pensiero, cresce il senso della propria singolarità e il desiderio di rivolta contro tutto ciò che la soffoca.
Un giornale per tutti coloro che, in questa civiltà delle identità collettive e dell’appartenersi reciproco, vogliono affermare la propria natura di «stranieri ovunque», di refrattari ad ogni patria (il «mondo intero» compreso).
Randagio come il pensiero e la vita dei cinici, i filosofi greci che, sprezzanti verso la condizione regale di una filosofia rivolta verso il Potere, simboleggiavano se stessi con l’immagine del cane (kýon in greco), in segno di rifiuto della gerarchia, dei vincoli sociali e della pretesa necessità delle leggi. Ripagati, come si conviene a tutti gli spiriti liberi, con la censura e la mistificazione. «Cinismo» nel nostro linguaggio — che si spaccia per neutro, ma che non riesce a nascondere la propria natura cristiana — è diventato sinonimo di gaudente indifferenza alle sofferenze altrui; così quella polizia delle idee che percorre sotterraneamente i secoli ha liquidato un pensiero che sovranamente se ne infischiava degli dèi e della legge.
Demolitore, come suggerisce il simpatico gioco di parole (cane Nero significa in latino «canta, o Nerone»), anche questo vuole essere il giornale.
Perché il desiderio di estraneità non diventi mutilazione rassegnata, ma si armi contro ogni forma di autorità e di sfruttamento.
Perché dal Potere del dialogo (con cui si pensa di risolvere tutto) e dal dialogo del Potere (che invita tutti ad una ragionevole contrattazione) si passi ad un sentimento di radicale inimicizia verso l’esistente, di distruzione di ogni struttura che aliena, sfrutta, programma e irreggimenta la vita degli individui. Il nero del cane (questo animale cui generalmente si associa l’idea di sottomissione, di servile mansuetudine) è proprio la volontà di uscire dal gregge della servitù volontaria e di aprirsi alla gioia della ribellione. Non il nero in cui tutte le vacche sono uguali (sia pure nel loro essere contro o fuori), bensì quello in cui scompare il confine tra la demolizione e la creazione, tra la difesa oltranzistica di se stessi e la costruzione di rapporti di reciprocità con gli altri.
Un giornale — per ricomporre un mosaico dai mille possibili significati — di distruzione randagia, intendendo con ciò la possibilità di passare all’attacco dello Stato e del dominio in tutte le sue manifestazioni senza prestare giuramento, per usare una famosa espressione, ad alcuna bandiera, ad alcuna organizzazione.
Come singoli, sempre, anche laddove l’irrinunciabile desiderio dell’altro ci porta a scegliere la strada dell’unione.
[Canenero, n. 1, 28 ottobre 1994]