Titolo: La peste della mediocrità
Autore: Armel Guerne
Argomento: Brulotti
l-p-etienne-une-jpg.jpg


Il mondo intero è scivolato fuori dal pensiero degli uomini. Adesso continua, senza più controllo, il suo mostruoso percorso di automa, di robot. Continua il suo progresso. E gli uomini, il cui pensiero non contempla ormai che dettagli, non trovano più cibo ed esercizio autentici, gli uomini, svuotati della loro sostanza, non sanno più, non possono più, non vogliono più quello sforzo di riconquista che è forse il più violento che sia mai stato loro richiesto. Si adagiano al di sotto di se stessi, si crogiolano nella loro rinuncia. Cercano solo distrazioni, passatempi, galletti e chicchirichì all’altezza di quel sonno inferiore.

La peste della mediocrità che li rende tutti così rassomiglianti e intercambiabili, questo impecorimento incoerente e stupido delle masse, è quel carattere «sociale» al di fuori del quale per loro non esiste niente. Incapaci persino di riempire la propria vita, di essere qualcuno all’interno della loro piccola persona, trovano continuamente conferma nell’illusione che è la società a dover essere, a dover esistere per loro; che è la società, che sono le istituzioni sociali ad avere l’incarico e la responsabilità (diffusa) di riempire la loro esistenza e realizzare la loro vita.

Nascite anonime, vite anonime, morti anonime: è la storia della società americana, della collettività sovietica e ben presto tale sarà tutta la storia contemporanea. Essere non un uomo, ma una cosa senz’anima, una cosa plastica e molle, e questo su tutti i piani morali; rifiutare la propria anima e la propria persona per essere solo un ammasso di carne a malapena sufficientemente forte, interiormente, da proibirsi qualche emozione individuale e ogni singolarità; ereditare scrupolosamente una vita spenta, grigia, opaca e soffocarla ulteriormente se possibile, renderla e volerla più conforme alla mediocrità, codarda, fiacca, sorda, cieca, indifferente; tali sono sia l’illusione che la speranza di perfezione democratica.

Ai giorni nostri chiamiamo virtù la banalità e l’inferiorità. Tutti gli uomini sono uguali, sì, ma al livello dei piedi. Col pretesto del realismo, l’uomo ha perso ogni realtà nel suo cuore, ai suoi stessi occhi. Col pretesto dell’oggettività, ha posto la realtà al di fuori e non ne fa più parte. Definisce realtà, infatti, un insieme confuso di apparenze e di cose morte che gli viene imposto: tutto ciò che ha una forma nello spazio e se ne sta là, davanti a lui, stupidamente, come una mucca su un prato. Sono i «fatti del giorno» di cui si parla, i «fatti», gli «avvenimenti», quella ghirlanda quotidiana di lucciole e lanterne, quelle cose esteriori, oggettive, attorno alle quali una lingua estranea ad ogni pensiero intreccia gli imperituri arabeschi dei suoi commenti.

Tutti parlano di tutti (aprite un giornale), chiunque giudica e critica qualunque cosa; si ha un parere su tutto, un’opinione preconfezionata per ogni cosa. E lo si può fare legittimamente perché non c’è mai nessuno, da nessuna parte. Nessuno dietro a nulla di quella realtà estranea all’uomo che si fa e si disfa al di fuori di lui, sulla carta, sugli schermi o nei ruggiti provenienti dagli altoparlanti. Nessuno in questa realtà deserta e disumana su cui tutti fissano gli occhi, si ostinano, con l’ossessione di fare come fa il vicino, pur di non sentire il proprio vuoto interiore.



[Le Verbe nu, 2014]