Non custodiremo la nostra merda nelle casseforti di Fort Knox.


Uno spaventapasseri è appeso al parabrezza delle grandi bolle d’aria che abitiamo.


Con specchi sulle suole, scivoliamo fra due lingue straniere.


Quando vedrete i cammelli in piombo delle stanze da bagno, diserterete.


La lista delle perversioni privilegiate come quella dei luoghi non può essere chiusa. Esistono anche tramonti bisognosi.


Tranquillamente seduti sui continenti migratori dei nostri bagagli, non abbiamo bisogno di facchini.


Le città s’ammucchiano incomparabilmente seduttrici. La neve del loro brusio finisce di ornarle.


Sollevando un coperchio d’acciaio, dita infantili vanno e vengono sulla rotondità di un sapone alle felci, mentre attraverso i vetri delle tempie le torri ancestrali scrutano le radure del corpo.


Abbiamo piegato bagagli così tanto che i nostri occhi dell’altro inverno color Colorado non ricordano più che il lieve vuoto delle impronte.


Noi non viaggiamo. Partiamo.


Le acque del Reno brontolano nelle fortezze vuote delle nostre valigie.


Le chiome delle donne servono da ciuffo per trascinare nella nostra traiettoria immensi arcipelaghi.


Per sfuggire al nodo scorsoio delle frontiere, adottate il passo del fox-trot delle cavallette.


Il vomere dei nostri bauli di marmo apre passaggi segreti che bambini sporchi di marmellata forse scopriranno dopo la pioggia.


Nel nero abbi timore delle gallerie, nelle gallerie abbi timore della notte, nella notte abbi timore delle tenebre.


Nel granito del sogno, i meridiani del corpo diventano le redini del tempo.


Al calar del giorno, orde di stazioni barriscono nel fragor delle pianure.


Troppe passioni stipate nel segreto delle valigie provocano incendi incontrollabili.


Spostarsi come vulcani, in silenzio.


La dura gomma nera dei Poli si allunga a poco a poco.


L’equatore s’aggira.


Gli armadi cercano la penombra, i bagagli sanno di belva.


Il bastone e la valigia: le due infermità, i due simboli.


Sbarazzarsi all’improvviso dei bagagli come fossero petali di margherita.


La sabbia è dolce come i pendii dell’inguine.


La slitta fila sulla pelliccia del sonno.


Ci confondiamo con le macchie violette dei deserti alla deriva.


La poesia si scrive con l’alfabeto dei vagabondi.


Preso appuntamento con l’emigrante dagli occhi di mica.


La lingua tutta rosa del gattino lecca il moderno.


Siamo soli come montagne.

Abbiamo complici ovunque.



[Parigi, 5 luglio 1972]