Il 12 aprile 1904, a Barcellona, il capo del governo spagnolo Antoni Maura viene ferito con una pugnalata da un ragazzo di vent’anni. Il suo nome è Joaquín Miguel Artal e con quel gesto intendeva vendicare i contadini di Alcalà del Valle, che nell’estate precedente erano stati torturati per essersi ribellati. Dopo il suo arresto, Artal dichiarò di aver agito da solo. Due mesi dopo, l’11 giugno, verrà condannato a 17 anni di reclusione e inviato alla prigione di Ceuta. Quella che segue è la lettera di saluti inviata agli anarchici e pubblicata da un giornale libertario due settimane dopo la sentenza. Il sole non brillerà più su Artal, il quale non riuscì mai a raggiungere gli anarchici nella lotta contro il potere, come aveva sperato. Morirà infatti nel 1909 per mano degli aguzzini spagnoli.
Quando leggerete queste righe, amati compagni, sarò già stato trasportato al penitenziario di Ceuta, dove, per la durata di 17 anni, dovrò rimanere lontano da tutti, in totale isolamento dal mondo, per pagare il debito che la giustizia degli uomini ritiene che io abbia contratto con la società.
Così vuole la condanna che mi è stata inflitta: ma io non la temo. Tuttavia, non per paura, ma nella
previsione che, in sì lungo spazio di tempo, si eserciti su di me una così stretta vigilanza da impedirmi di comunicarvi, come desidererei fare, le mie impressioni, mi decido a scrivere queste poche parole con le quali, mentre voglio lasciare una franca dichiarazione delle mie convinzioni puramente anarchiche, mando nel partire l’amorevole saluto a tutti quelli che, come me, hanno fede nel meraviglioso ideale.
Siate certi che non ho mai odiato nessuno: in me non hanno avuto ricetto altri sentimenti che un amore grande e disinteressato per tutti gli uomini, che ho sempre considerato come fratelli, e una compassione profonda per tutti quelli che soffrono.
Se un giorno attentai alla vita dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, incoraggiato dai miei giovanili entusiasmi e trasportato da un ardente desiderio di giustizia, lo feci perché in quell’uomo si personificava il principio d’autorità ne!la sua più alta rappresentazione, perché in quell’uomo vedevo la mano destra d’una classe che fa spargere torrenti di lacrime; perché volli vendicare la miseria di coloro che stanno in basso; perché alle mie orecchie risuonavano le grida di dolore dei torturati di Alcalà del Valle, e i lamenti di coloro che in tutte le parti del mondo soffrono persecuzioni per difendere le loro libertà e sostenere la loro dignità davanti agli sfruttatori loro nemici.
Ecco le cause che mi determinarono a compiere quell’atto di cui sono soddisfatto, perché sento il piacere di aver fatto ciò che considero un dovere di coscienza.
Disprezzo tutti i miserabili di sentimenti fiacchi e vili che nella grande (ufficiale) stampa han preteso di formarmi attorno tutta una leggenda di pazzie immaginarie, per sviare la vera interpretazione che si doveva dare alla mia condotta e mascherare la loro codardia e riempire meglio i loro fogli da bassi adulatori.
Confesso che in nessun modo son pentito di quello che ho fatto, e che davanti alla severa condanna dei tribunali, ho sentito crescere le mie energie e rafforzarsi sempre più la mia convinzione e la mia fede nell’ideale anarchico.
E ora, diletti compagni, due parole d’addio anche a voi. Prima di entrare in carcere conoscevo l’Idea, ma non conoscevo gli uomini che la difendono con grande abnegazione.
Ora che comincio a conoscerli, la legge mi separa da loro.
So bene che 17 anni sono molto lunghi; ma 17 anni passano anch’essi e, quando saran passati, avrò il piacere di correre al vostro fianco per prendere il mio posto di lotta.
Vi saluto tutti con il vivo desiderio che sempre siate forti nella grande opera di redenzione che avete intrapreso.
Che le tremende ingiustizie sociali vi diano coraggio a combattere l’infame organizzazione attuale.
Che le lacrime dei miserabili vi stimolino alla lotta contro tutto ciò che significa oppressione e tirannia.
Io, se le mura della mia prigione non saranno tanto sorde e mute e lasceranno che qualche volta giunga sino a me la notizia di qualche vostro atto, godrò un’immensa soddisfazione nel contemplare l’avanzare dell’opera nostra; se, al contrario, il regime al quale sarò sottoposto impedirà ch’io conosca qualcosa di quello che riguarda la vita ed li mondo e il mio isolamento sarà assoluto, nel silenzio della mia clausura andrà aumentando la mia ansia di lotta e il mio affanno di libertà, preparando meglio il mio animo per il giorno in cui il sole tornerà a brillare per me. E, sia in un modo, sia nell’altro, sempre terrà di voi un affettuoso ricordo il vostro compagno
Dal carcere di Barcellona
[El Rebelde, 28/6/1904]