Manca l’aria

C’è una questione sulla quale i cittadini, al di là delle chiese politiche di appartenenza, paiono concordi: il pianeta, il cui suolo essi calpestano ogni giorno, è seriamente minacciato dalle opere del mondo tecnologico-industriale. A questa consapevolezza si accompagna la volontà di consegnare un ambiente vivibile, quando non migliore di quello attuale, alle future generazioni. Sfortunatamente il proposito di «bonificare» l’ambiente, fino a far scomparire i nefasti prodotti della civiltà, fa a pugni con le reali condizioni di quest’ultimo, da decenni ormai simile ad un malato terminale colpito da un morbo degenerativo chiamato Progresso; una peste di cui l’umanità e il suo modo di vivere sono gli untori. E, sentite un po’, i medici investiti del difficile compito di alleviare le sofferenze della Terra sono gli stessi responsabili delle sue miserie. È buffo, no? E così si organizzano vertici internazionali sul clima, protocolli d’intesa, leggi e leggine per tenere a bada gli ambientalisti più agguerriti. Ma come possono i governanti decidere di distruggere impunemente la Terra e i suoi abitanti? Appunto, come possono?
È stato Barack Obama a prendere la parola in questi giorni presentando il nuovo piano USA per il clima che entro il 2030 dovrebbe ridurre notevolmente le emissioni di carbonio delle centrali elettriche.
Le dichiarazioni pronunciate da politici e industriali sulle questioni connesse ai veleni del mondo che amministrano non sono affatto frequenti, arrivano di tanto in tanto, in occasioni particolari: un summit, una manifestazione di cittadini o la campagna elettorale. Quando, cioè, le loro parole sono in grado di fare da catalizzatori di consenso, il solo che interessi ai succitati.
Da parte loro, la maggioranza di coloro che si mobilitano — e questo non solo negli Stati Uniti — lo fa con l’obiettivo di esercitare pressione sui decisori politici, affinché pongano un freno ad un’auto lanciata a tutta velocità verso un inevitabile schianto. Per questo organizzano marce e petizioni, come quando, il 21 settembre 2014, alla vigilia del vertice d’emergenza Onu sui cambiamenti climatici, circa un milione di persone sono scese in piazza in molti paesi del mondo per mandare forte e chiaro il messaggio della società civile: un messaggio di delega e sottomissione. In fondo, è molto più ragionevole farsi sentire dalle istituzioni sperando in qualche (improbabile) concessione che prendere in mano la propria esistenza e fare da sé oltre ogni accomodamento col potere... Sappiamo che altre kermesse pacifiche e raccolte di firme verranno ancora democraticamente presentate a coloro che ingrassano le proprie tasche grazie all’ecocidio in atto; conosciamo l’imbecillità umana e i prodotti del suo ventre.
Di quali prove necessitano ancora i nostri occhi ciechi? Quali, oltre a Cernobyl, Fukushima, Bhopal, Seveso (e l’elenco potrebbe continuare)? Il 6 agosto si celebrano i 70 anni dal bombardamento atomico di Hiroshima ad opera dell’esercito degli Stati Uniti al termine del secondo conflitto mondiale; gli stessi Stati Uniti di quel Barack Obama per cui la salvaguardia del pianeta sarebbe un dovere morale.
Annunciare la distruzione del pianeta come inevitabile o, al massimo, come conseguenza di una cattiva gestione della macchina economica: ecco l’artificio del potere per dirottare la rabbia verso una natura presentata come ostile evitando così che la ragione che la calpesta sia messa in discussione. Già, è tutta una questione di volontà politica e di funzione sociale. Per arginare le modificazioni naturali occorrerà quindi un cambiamento sociale, da ottenere mediante la politica. Ma non era proprio la volontà politica degli organismi di governo l’obiettivo della pressione democratica di tanti? E il bello è che non ci sarà concesso affatto contestare questo stato di cose finché accetteremo di barattare la nostra volontà di distruzione con lo spettacolo della rappresentazione.
Il pomeriggio dell’8 luglio tra i comuni veneziani di Mira e Dolo, situati lungo la Riviera del Brenta, si abbatte una tromba d’aria che causa un morto, trenta feriti e oltre cento sfollati. Una catastrofe per chi è costretto a rassegnarsi alla perdita di casa e proprietà spazzate via dal tornado. E mentre i malcapitati applaudono il sindaco e il presidente della regione vantarsi davanti alle televisioni dell’impeccabile gestione dell’emergenza, eccoli versare fiumi di lacrime al microfono di un giornalista a caccia dello scoop e della prima occasione utile a ricordare a tutto l’uditorio che quella appena consumatasi è a tutti gli effetti una catastrofe naturale. Egli volutamente dimentica che concepire la natura come qualcosa di avverso all’umano, significa celare le cause sociali di terremoti, alluvioni, inondazioni. La logica è chiara: parlare di disastri naturali per mantenere l’ordine sociale. L’essere umano che dispone della Terra a proprio uso e consumo, disseminandovi ovunque nocività, come può pensare che un giorno non gli venga presentato il conto? Con quale faccia ci permettiamo di lamentarci delle conseguenze imprevedibili di tale attività?
La civilizzazione ha dichiarato da secoli guerra alla natura e a tutti i suoi abitanti. Le sue armi sono quelle dell’industria, delle tecnologie, della deforestazione, della cementificazione, del nucleare. Anche noi vogliamo armare le nostre mani, ma contro la società, reale produttrice di miseria, morte e veleni. Una società cui acconsentiamo ogni qual volta, recandoci alle urne, edifichiamo il trono che innalza i furfanti e i mediocri. Ogni volta che deleghiamo volontà e abdichiamo dalla libertà.
E se forse la selvatichezza è ormai irrimediabilmente perduta, i suoi nemici sono sempre di fronte a noi, più longevi che mai. Essi ci ricordano in ogni momento l’urgenza di rivoltarsi contro i valori del vivere civile, attaccandone le arterie. Dovunque, all’improvviso o come preferiamo.
Immaginare un’esistenza all’altezza dei nostri desideri, nella ricerca indefessa della vita, può fornirci lo stimolo per farla davvero finita con la politica e con tutti i suoi figuranti.
[da qualche parte nel veneto, 4/8/15]