Anselme Bellegarrigue
Manifesto
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Che non mi si parli affatto della rivelazione, della tradizione, delle filosofie cinese, fenicia, egiziana, ebraica, greca, romana, tedesca o francese; al di fuori della mia fede o della mia religione di cui non devo render conto a nessuno, non so che farmene delle divagazioni degli antenati; io non ho antenati. Per me, la creazione del mondo è datata dal giorno della mia nascita; per me, la fine del mondo deve compiersi il giorno in cui restituirò alla massa elementare l’apparato e il respiro che costituiscono la mia individualità. Io sono il primo uomo, io sarò l’ultimo. La mia storia è il riassunto completo della serie dell’umanità; io non conosco, non voglio conoscere altro. Quando soffro, che bene mi viene dalle gioie altrui? Quando gioisco, che cosa ricavano dai miei piaceri quelli che soffrono? Cosa mi importa quello che si è fatto prima di me? In che cosa sono toccato da quello che si farà dopo di me? Non ho da servire né da olocausto al rispetto delle generazioni estinte né da esempio alla posterità. Io mi racchiudo nel ciclo della mia esistenza, e il solo problema che ho da risolvere è quello del mio benessere. Non ho che una dottrina, questa dottrina non ha che una formula, questa formula non ha che una parola: godere. Giusto chi la riconosce; impostore chi la nega.
Quella dell’individualismo crudo, dell’egoismo innato, non lo nego affatto, lo confesso, o constato, me ne vanto. Mostratemi, perché l’interroghi, quello che potrebbe dolersene e biasimarmi. Il mio egoismo vi causa qualche danno? Se dite no, non avete niente da obiettare, perché sono libero in tutto ciò che non può nuocervi. Se dite sì, voi siete un baro, perché il mio egoismo non è che la semplice appropriazione di me a me stesso, un appello alla mia identità, un’affermazione della mia individualità, una protesta contro tutte le supremazie; se vi ritenete lesi dall’atto che io faccio della mia propria presa di possesso, per la conservazione che io opero della mia propria persona, cioè a dire della meno contestabile delle mie proprietà, voi riconoscete che vi appartengo o come minimo che avete delle mire su di me; siete già uno sfruttatore o lo state diventando, un accaparratore, uno bramoso dei beni d’altri, un ladro.
Non c’è via di mezzo; o è l’egoismo che è di diritto, o è il furto; o è necessario che io mi appartenga, o è necessario che cada in possesso di qualcuno. Non si può affatto dire che io mi rinneghi a profitto di tutti, poiché tutti devono rinnegarsi come me, nessuno ci guadagnerà a questo gioco stupido che ciò che avrà già perduto, e resterà per conseguenza pari, cioè a dire senza profitto, ciò che renderebbe evidentemente questa rinuncia assurda. Dal momento dunque che l’abnegazione di tutti non può giovare a tutti, deve necessariamente giovare a qualcuno; questi qualcuno sono allora i padroni di tutti, e sono probabilmente quelli che si dorranno del mio egoismo. Ebbene, che incassino la giusta ricompensa che ho, appena sottoscritto in loro onore.
Ogni uomo è un egoista; chiunque cessa di esserlo è una cosa. Colui che pretende che non bisogna esserlo è un ladro.
Ah! sì, capisco. La parola suona male: l’avete applicata fino ad oggi a quelli che non si accontentano dei loro propri beni, a quelli che accaparrano i beni d’altri; ma quelle persone rientrano nell’ordine umano, voi invece non ci siete. Lamentandovi della loro rapacità, sapete cosa fate? Constatate la vostra imbecillità. Avete creduto fino ad oggi che ci fossero dei tiranni. Ebbene vi siete sbagliati, non ci sono che schiavi: laddove nessuno obbedisce, nessuno comanda.
Ascoltate bene ciò: il dogma della rassegnazione, dell’abnegazione, della rinuncia di sé è stato predicato alle popolazioni. Che ne è risultato? Il papato e la sovranità per grazia di Dio, da cui le caste episcopali e monacali, principesche e nobiliari. Oh! il popolo s’è rassegnato, s’è annullato, s’è rinnegato a lungo; è bene questo? Che ve ne sembra?
Certo il più grande piacere che possiate fare ai vescovi un po’ confusi, alle assemblee che hanno sostituito il re, ai ministri che hanno sostituito i prìncipi, ai prefetti che hanno sostituito i duchi grandi vassalli, ai sottoprefetti che hanno sostituito i baroni piccoli vassalli, e tutta la sequela di funzionari subalterni che fanno veci di cavalieri, visdomini e nobilucci della feudalità; il grande piacere, dico, che possiate fare a tutta questa nobiltà del bilancio, è di rientrare al più presto nel dogma tradizionale della rassegnazione, dell’abnegazione e del rinnegamento di voi stessi. Voi troverete ancora tra loro dei protettori che vi consiglieranno il disprezzo delle ricchezze col rischio di sbarazzarvene; troverete tra loro dei devoti che, per salvare la vostra anima, vi predicheranno la continenza, salvo a trarre d’impaccio le vostre donne, le vostre figlie o le vostre sorelle. Non c’è male. Noi non manchiamo, grazie a Dio, di amici devoti che si danneranno per noi se ci convinceremo a guadagnare il cielo seguendo il vecchio cammino della beatitudine, dal quale essi si tengono lontani cortesemente, al fine, senza dubbio, di non sbarrarci la strada.
Perché tutti questi continuatori dell’ipocrisia antica non si sentono più in equilibrio sugli scranni creati dai loro predecessori? Perché? Perché l’abnegazione se ne va e l’individualismo preme; perché l’uomo si trova assai bello per osar di gettare la maschera e mostrarsi infine tal qual è.
L’abnegazione è la schiavitù, l’avvilimento, l’abiezione; è il re, è il governo, è la tirannia, è il lutto, è la guerra civile.
L’individualismo, al contrario, è l’affrancamento, la grandezza, la nobiltà; è l’uomo, è il popolo, è la libertà, è la fraternità, è l’ordine.
[1850]