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E maledetto il re! dei galantuomini

dei ricchi il re che viscere non ha!


È inteso: l’anarchismo è iconoclasta.

Coltivare sulle tombe dei precursori il culto d’una nuova fede, erigere sui patiboli gli altari e i simboli d’una nuova religione, elevare intorno alle urne dei martiri il te-deum della beatificazione, non è nei nostri desideri, nei nostri propositi, nelle nostre aspirazioni.

E se oggi ravviviamo nell’urna sacra dei nostri cuori la fiamma dell’olocausto di Gaetano Bresci, è per rispondere ad un più virile desiderio: quello di fugare dal tumulo del baldo giustiziere la nera coorte dei gufi che vi si raccolgono ad insultare la memoria di lui; quello di rivendicare l’eroico suo atto, che la bieca turba degli sciacalli insozza della sua lurida bava; quello di ricacciare in gola ai rigattieri della antropologia manutengola l’accusa maramalda che chiunque osi levar la mano sulla sacra ed inviolabile persona del re, non può essere che un criminale; quello di sbugiardare i rauchi menestrelli che dalle bigoncio coloniali, cantano le laudi bugiarde ai savoiardi dai rimorsi gialli.

Oggi più che mai: mentre la terza Italia profonde il sangue ed i sudori dei suoi giovani e vecchi figli; a maggior gloria dei Savoia, a maggior profitto degli avidi e sordidi pirati delle patrie banche; mentre il piccolo re smorza nei rivoli di sangue che scoscendono dalle vette inespugnate del Trentino, la riarsa sete di un più grande imperio; mentre le patrie galere inghiottono a cento a cento gli audaci che non vollero piegarsi contriti agli infingardi voleri dei pretoriani regi; mentre monarca e papa, negrieri e mercanti si preparano a ribadir sulla plebe spossata ed esangue, col più atroce dei disinganni, col più vile dei tradimenti, il giogo della secolare tirannide.


I giullari del socialismo dinastico, i paltonieri rossi scesi di dedizione in dedizione nel più schifoso melmaio delle viltà umane, i rossi buffoni di piazza che con un laccheismo ributtante cercavano di arrivare poi al posto di buffoni di corte, affidarono il giudizio dell’eroico vendicatore alle sibille dell’antropologia ufficiale.

Noi lo affidiamo alla storia.

E la storia, soffocata dalle regie mordacchie, dice oggi con flebile voce; ed infranta la fragile trama delle salariate apologie, stracciato il manto tenebroso che copre lo stuolo immenso delle vittime innocenti della nequizie sabauda, dirà domani con la voce di mille petti ai liberi cieli;

Che ossequienti alle codine tradizioni di famiglia, ladino ai morbosi desideri delle auguste sgualdrine, Umberto I portò la terza Italia ai piedi del Vaticano, per far dimenticare la balussada di aver aperto attraverso le sacre mura della città dei papi, un varco al libero pensiero;

Che sordo alle aspirazioni e ai propositi dei migliori fra i suoi sudditi, il re buono

e leale prostituì l’Italia rinata dal martirio e dall’eroismo di tre generazioni, alla libidine felina degli Hoenzollern e degli Asburgo, infeudò il bell’italo regno al nuovo impero, strappò mille volte le garanzie costituzionali, congiurò con la camarilla di corte il colpo di stato perla restaurazione dell’autocrazia militare;

Che i dilapidatori del pubblico denaro, i prevaricatori, i falsari, i bancarottieri, trovarono in Umberto I il complice necessario ed il fido manutengolo;

Che pel folle sogno della conquista etiopica, pei turpi appetiti di una banda di sciacalli, mandò a morir di tifo, di peste e di piombo, nelle aride dune dell’Africa infida, il più bel fiore della gioventù italiana insozzando il nome d’Italia con i tradimenti e le viltà dei generali da vedova allegra, con le paradossali rapine dei fornitori e dei proconsoli;

Che sui figli non degeneri di Mazzini e di Garibaldi, anelanti alla libertà e al benessere per cui i padri avevan invano lottato, si rovesciò spietata la rabbia caina dei nuovi tiranni;

Che i pellagrosi schiavi della risaia, gli smunti reclusi delle solfatare e delle fabbriche, vassalli dei feudi pugliesi, a Conselice, a Buggerru, a Milano, travolse il torrente di fuoco e di piombo vomitato dai cannoni di Bava Beccaris;

Che alla iena insaziata il re buono, donava, l’indomani della strage orrenda – di motu proprio e in segno di gratitudine e d’approvazione – la più alta commenda dello Stato, il più alto grado dell’esercito;

Dirà la storia che mai pagine così sanguinanti furono scritte negli annali della storia patria, come quelle che v’impressero i ventotto anni del bieco e fosco regno di Umberto I;

Che il gagliardo fuciliere della legione anarchica – custodita nell’eroica sua anima la dolorosa tragica passione di tutto un popolo – affidò il 29 Luglio 1900 al lampo della sua rivoltella la vendetta anonima delle innumerevoli vittime di un regno di sangue e di terrore.


Morte al re!

Riecheggi ancora il grido sacrilego, che or son due lustri, urlava nella morta gora del parlamento nazionale Leonida Bissolati – che oggi, purgato dei suoi peccati giovanili, contrito dei suoi antichi livori antidinastici, smacchiato del suo passato scarlatto, officia nel presidio monarchico, inneggia alla salute del rachitico reuccio.

Riecheggi dai petti nostri e dal cavo petto degli schiavi inconsapevoli, più forte e più sonoro che mai; perché ieri come oggi s’addensa sui reprobi fosca ed implacata la tempesta delle persecuzioni, mai come oggi imperversò sulle turbe dei pezzenti e degli ignavi la procella dello sterminio.


Viva Gaetano Bresci!

Viva nei cuori nostri più che nel dì lontano della sua vendetta, perché dura come allora ancor oggi, la regia confisca della libertà della gioia e del pane!

Viva nel cuore esulcerato degli iloti, spasimanti nell’atroce agonia, tra i lazzi dei pagliacci rossi e degli arruffianati versipelle della guerra regia.

Viva nei nostri liberi cuori, e nell’affranto cuore delle plebi, il bagliore dell’eroica vendetta di Bresci, e ci guidi e ci sproni verso le aurore fiammanti dell’anarchia.



[Cronaca Sovversiva, anno XIV, num. 31, 29/7/1916]