Mosche e boy-scout
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È un cruccio che regolarmente ci assilla. Aggirare un ostacolo è il metodo più efficace per superarlo, oppure le vie trasversali sono talmente piene di insidie che imboccandole non si fa altro che peggiorare la situazione? Certo, quando non si possiede la forza per rimuovere quanto impedisce di proseguire il cammino (e ciò avviene sempre più spesso), è spontaneo affidarsi all’astuzia che suggerisce di osservare gli spazi laterali al fine di individuare qualche possibile passaggio. Ma se la sola via percorribile è quella che dopo una serie di tornanti ci rimanda indietro o in tutt’altra direzione, questa scaltrezza è davvero sinonimo di intelligenza?
Facciamo un paio di esempi che, ahinoi, non corrono il rischio di risultare desueti.
Il primo ci viene fornito da quell’atteggiamento innocentista che si presume sia in grado di aggirare l’ostacolo della repressione. Davanti al macigno di una imputazione, resa magari più fosca e truce dai mass media, scatta immediata la tentazione di discolparsi, di esibire un alibi, di farsi passare per candidi boy-scout incapaci di far del male a una mosca (lasciamo qui perdere un’altra tentazione del tutto speculare che affiora in tali circostanze, quella di guasconeggiare crogiolandosi nelle accuse). Pare che questa tattica miri da un lato a prendere in contropiede il teorema degli inquirenti, dall’altro a guadagnare l’ambìto consenso popolare, incline a commuoversi per chi subisce un abuso. Bisogna ammettere che spesso e volentieri il vittimismo è una tattica che funziona, che riesce ad ottenere proscioglimenti, assoluzioni nonché ondate di simpatia. Ma a quale prezzo? L’ostacolo è stato sì aggirato, ma in tutto il suo perimetro, per cui la strada sgombra che si ha davanti agli occhi è quella che riporta ai luoghi comuni di partenza — dopo aver riconosciuto l’ambito del diritto, agitato a destra e a manca la bandiera della propria innocenza (scavando così la fossa a chi non può o non intende impugnarla) e annegato le proprie cattive intenzioni in un mare di ipocrisia (trasformando in virtù vincente un atteggiamento da sempre vergognoso). Quanto all’eventuale consenso ottenuto, nella sua effimerità esso è andato tutto alla povera vittima del potere e non certo al suo orgoglioso nemico. Per chi intendesse difendere la propria e l’altrui libertà dalle minacce della magistratura, non sarebbe meglio sbattere in faccia ai giudici la menzogna della giustizia piuttosto che il candore dell’imputato? Ora, è la stessa giurisprudenza ad insegnare che la migliore garanzia contro un eventuale arbitrio è la cosiddetta presunzione di non-colpevolezza. Detto in altri termini, l’onere della prova spetta all’accusa. Non è l’imputato a doversi difendere, a dover dimostrare la propria estraneità ai fatti, è la magistratura che deve essere in grado di dimostrare l’altrui responsabilità materiale nei fatti contestati. Ciò è quanto sostiene, o forse sosteneva, a livello puramente teorico, lo stesso diritto. Che nella pratica le cose vadano in ben altra maniera, è fin troppo scontato. Ma ciò significa forse che gli imputati debbano adeguarsi a questa situazione e seguire l’accusa passo dopo passo sul suo paludoso terreno? Ricordare che l’onere della prova spetta all’accusa significa dimenticare per sempre gli alibi da dimostrare o il buonismo da esibire. Si tratta di un oblio che per altro ha il pregio di non essere riservato a qualcuno a scapito di qualcun altro, ma a tutti indistintamente.
Vero è che appellarsi a questa sorta di obbligo da parte di chi indossa la toga ha meno possibilità di riscuotere qualche «successo» o risultato, essendo considerato più proficuo dichiarare la propria innocenza appena ci si siede sul banco degli imputati. Disvelare — indirettamente — il vero volto della magistratura, che incrimina e condanna senza prendersi la briga di trovare ed esibire prove, abitudine che mette a repentaglio la libertà di chiunque, rischia tutt’al più di suscitare qualche lieve imbarazzo momentaneo. Ma è sempre preferibile questa triste eventualità — che in fondo tocca a chiunque di noi scongiurare, trasformando i loro imbarazzi in altrettante sconfitte — all’allegra possibilità di barattare quel po’ di dignità che è rimasta all’essere umano con una presunta libertà (televigilata).
Il secondo esempio, invece, riguarda la cosiddetta libertà di pensiero e di parola. Anche qui, davanti agli ostacoli disseminati da imputazioni quali «apologia di reato» o «incitazione a delinquere» (magari con l’aggravante della «finalità di terrorismo»), si preferisce spesso e volentieri unirsi al coro della più sinistra pubblica opinione, oppure chiudersi in un accorto mutismo in attesa di tempi migliori che sembrano non arrivare mai. Ma davanti all’infamia quotidiana di una vita a senso unico, trascorsa tra massacri e passività di fronte ai massacri, siamo proprio certi che il silenzio sia d’oro? Laddove un controllo soffocante è riuscito a limitare a dismisura i movimenti più arditi, quella di espressione non è forse la sola libertà rimasta? Per cui, quando preferiamo morderci le labbra per non dare scandalo o non destare sospetti, quando davanti ad un atto che ci fa fremere di gioia non troviamo altre parole che quelle già reperibili sui mass media, quando pur di conservare la pubblica stima ci lanciamo all’inseguimento di patetiche legittimazioni, cosa stiamo facendo? Stiamo attuando una arguta strategia per superare l’ostacolo, oppure stiamo capitolando davanti ai nostri oppressori, rinunciando volontariamente ai nostri sogni più dolci?
Fra alcuni giorni, il 24 maggio, un anarchico di Genova sarà processato per aver pubblicamente criticato la pavidità di chi alcuni anni fa si era affrettato a mettere i puntini sulle i della parola dissociazione, in relazione ad un attacco contro il principale industriale dell’atomo in Italia. La procura ligure, evidentemente, non concorda né con filosofi illuministi come Condorcet (secondo cui non si può impedire di dire pubblicamente ciò che si pensa) o come Fichte (secondo cui la libera manifestazione delle parole è l’elemento intimo costitutivo della personalità umana), né con reazionari esperti di diritto come Filangieri (secondo cui se si fa delle parole un delitto, la società si ritroverà piena di delatori e di rei) o come Scalfaro (secondo cui la magistratura deve intervenire solo quando dalla parola si passa ai fatti).
Non potendo (ancora?) esercitare la vecchia e consolidata censura preventiva, lo Stato vuole per lo meno prendersi la soddisfazione della solita rappresaglia punitiva. Nonostante l’odierna trascurabilità di parole rese impotenti dalla cacofonia circostante, una voce stonata gli è comunque insopportabile. Intolleranza avvertita ed espressa non solo dalla ragione di Stato, ma anche dall’ortodossia militante. Chi critica troppo — in Italia la corrispondenza di amorosi sensi fra amici e nemici dello Stato, in Francia la religione preferita dai moderni dannati della terra,... — si ritrova osteggiato (talvolta con mezzi materiali) da qualche racket politico ghiotto di consenso.
Ma se, attraverso la repressione o l’intimidazione, si vuole ottenere l’obbedienza all’autorità o la fedeltà alla linea di partito, allora l’effetto ottenuto può essere assai diverso. Perché certi ricatti finiscono per incitare coloro che vengono presi di mira; invece di incutere timore, ispirano solo il disprezzo per leggi e slogan.
È la nostra rassegnazione ad aver permesso l’arroganza del potere (e del contro-potere). Più chiniamo la testa, più rinunciamo alle nostre idee singolari per ostentare solo comuni opinioni, e più facilitiamo il compito del boia, con o senza mannaia.
[11/5/16]