Titolo: Perché siamo intempestivi
Argomento: Brulotti
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«Gli anarchici sono stati sempre individui fuori dal loro tempo»

(Il Libertario, 25/11/1915)


Quando ci guardano, gli abitanti di questo mondo scuotono la testa. Che siano soddisfatti o tristi, felici o arrabbiati, non ci capiscono. Ai loro occhi appariamo folli, insensati, patetici, inefficaci. Comunque colpevoli. Gli uni ci accusano di non muovere un dito per fare carriera all’interno di quanto ci circonda, trascorrendo la nostra esistenza ai suoi margini. Gli altri ci rimproverano che proprio quando un mondo in rovina reclama la nostra presenza, noi ce ne estraniamo. Perché ci ostiniamo ad andare alla deriva, ovvero da nessuna parte, anziché organizzarci per arrivare? Per entrambi, non facciamo altro che sprecare i nostri giorni.

Evidentemente, la nostra prospettiva non è quella degli abitanti di questo mondo. Loro, in questo mondo, vogliono prendere posizione. Lo osservano da vicino, sempre più vicino, ne respirano l’aria, ci sguazzano dentro, vi prendono parte e partito. A noi, questo mondo, fa talmente ribrezzo che lo vogliamo solo sconvolgere. Lo osserviamo a distanza, ma solo per scoprire dove sia il punto migliore per attaccarlo. Non è esattamente la stessa cosa.

Individui senza mondo, in esilio presso gli uomini, alieni in terra straniera, siamo prigionieri del carcere della vita quotidiana. I problemi della sua gestione, della sua amministrazione, della sua ristrutturazione, della sua organizzazione, che tanto riempiono gli impegni di tutti, non ci riguardano. Nemmeno quando il loro dibattito, la ricerca della loro soluzione — ci viene assicurato con le migliori intenzioni — avviene in maniera “orizzontale”, “dal basso”, “autogestita”. No, grazie. La nostra testa ha bisogno di tempo e spazio per pensare a come creare il nostro mondo, non a come far andare avanti quello in cui siamo reclusi.

Affermare radicalmente la rottura: ciò vuol dire che siamo in ostilità contro ciò che è, ovunque e sempre, senza alcun rapporto conciliante con una società i cui valori, le cui verità, il cui ideale, il cui linguaggio, le cui abitudini, i cui privilegi ci sono estranei; non negati, e quindi da bramare con rancorosa invidia, ma proprio estranei. Non ci riconosciamo in nulla di quanto caratterizza gli abitanti di un mondo (siano essi funzionari, siano essi ribelli) tanto più temibile in quanto apparentemente compiacente, con il quale deve restare inteso che mai in nessuna forma scenderemo a patti, neanche per ragioni tattiche.

Questa estraneità desta sospetto e viene spesso scambiata per indifferenza. Indifferenza, sì, ma alla maniera di Stirner: «Io non sono l’indifferenza nel senso del vuoto, bensì l’indifferenza creativa, il nulla in cui io stesso divento un creatore e do vita a tutto». Il nichilismo passivo, questo canto ad un tramonto privo di aurora, lo lasciamo volentieri ad altri. Se rifiutiamo tutto quello che è, se vogliamo fare tabula rasa dell’esistente, è perché vogliamo cessare di essere ospiti indesiderati in un mondo altrui per diventare creatori di noi stessi. Gli abitanti di questo mondo, a furia di viverci o di adeguarvisi per sopravvivere, ne hanno introiettato le mura. Pensano davvero che questo sia il loro mondo, il mondo di tutti, l’unico mondo possibile. Ecco perché ci considerano folli, insensati, patetici, inefficaci. Ecco perché pensano che la nostra estraneità sia solo indifferenza, che il nostro astensionismo sia solo impotenza. Pensano che con la nostra deriva non facciamo altro che aggirarci nella marginalità di questo mondo. Ma se andiamo alla deriva verso l’assoluto, è per superare la soglia di un mondo altro.

Più volte si è detto che solo una rottura della normalità può dare la possibilità di sperimentare forme di vita diverse. Allo stesso modo e per le identiche ragioni solo una rottura del discorso può dare la possibilità di sperimentare un linguaggio diverso. Ciò che è in gioco è qualcosa di completamente altro: un movimento senza misura, lo slancio di una parola esorbitante, che parla sempre al di là, che supera, sconfina e così minaccia tutto ciò che confina e che limita. Una parola che trasgredisce, non che blandisce. Assolutamente non assimilabile alla procedura del “dialogo” che la stupidità e l’ipocrisia liberale propongono come il massimo della libera comunicazione, mentre invece il dialogo, nella sua struttura binaria, è destinato all’adeguatezza di uno scambio di compromesso e tende a livellare nella banalità una parola plurale che deve restare sempre differente, parlando a partire dalla differenza, fino alla rottura, e ciò senza sosta, sempre di nuovo.

Essere intempestivi, controtempo. Laddove un mondo intero sollecita ad optare fra Coca o Pepsi, Cristo o Maometto, destra o sinistra, la libertà inizia con il silenzio ai suoi appelli, con l’assenza ai suoi appuntamenti, condizione necessaria per riuscire ad immaginare altro, a desiderare altro, a realizzare altro.

Una diserzione premessa di sedizione.


[20/10/12]