Pietro Gori
Più che le parole
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Sono esse, queste ventosità più o meno armoniche della nostra bocca sono — sono esse coteste contorsioni più o meno vuote della nostra penna, le sole, le vere, le prepotenti signore della vita contemporanea. Mai, come oggi, il folle e profondo Amleto avrebbe potuto ripetere la sua melanconica invettiva. La verbosità: ecco la caratteristica della tirannide borghese. Il parlamento, il giornale, sono gli organi nuovissimi del dominio di classe, nel campo politico, intellettuale, ed in quello economico. E la parola imperversa, per impaludarsi in leggi nelle assemblee rappresentative, per irrigidirsi in formule nei convegni autoritari per manipolare troppo spesso la pubblica opinione a fini obliqui nel giornalismo.
E la parola, fiorita nella evoluzione delle specie a coronare questa razza di scimmie sovrane che noi siamo — la parola infine, ch’è lo spontaneo vincolo ideale tra le stirpi umane, non è più mezzo, veicolo, strumento ad un alto lavoro fraterno; ma è divenuta la meta, lo scopo, il fine a se stessa.
Il trionfo della parola, in una società basata sul servaggio economico e politico, non può essere che il trionfo dell’inganno Quando ancora la laboriosità più facchina condanna alla indigenza integrale — dal pane, al libro, all’amore — le moltitudini dei bipedi somieri; e la frode più sfrontata, nei commerci e nelle industrie sotto la civile forma del salariato, consacra nelle mani dei capitalisti dominatori l’immenso cumulo della produzione proletaria, quando a dispetto delle pompose declamazioni, le menzogne religiose contrastano il passo alla ragione ed alla scienza, e le violenze governative pigliano il nome di tutela dell’ordine e il cosiddetto magistero punitivo è un macello di poveri e di imbecilli, mentre i grossi delitti incontrano la indulgenza dei giudici e l’entusiasmo delle folle, quando le ipocrisie si mascherano da principi e le rinunce da doveri — la dittatura delle parole diventa scherana d’ogni vituperio, e soffia nelle orecchie attonite tutta la procella delle follie sofistiche e delle contraddizioni forsennate.
Nel compenso e nella gloria, la fortuna — questa sgualdrina precoce — è pronta a saziare tutti gli appetiti d’un fabbricatore di frasi, ma getta scarso e sudato il pane a chi, dalle zolle riarse ai forni roventi, è artefice d’ogni alimento e d’ogni elemento di vita.
Dovranno esse dunque, queste ventose e sfrontate avventuriere di cenacoli umani, tenere in soggezione pur quelli che si fecero cavalieri d’ogni libertà più ardimentosa, che della più fiera indipendenza dei pensieri e delle azioni han fregiato i suoi simboli e le sue armi di combattimento?
Potranno i guerriglieri, che preferirono combattere in ordine sparso sotto a bandiere nere del dolore per il sovvertimento d’ogni reame di classe, o d’individui o di formule — e poi seppero attingere gl’impeti a lottare dall’intimo imperativo e non dal comando d’una tenda caporalesca —vorranno essi, i veramente liberi, o per dir meglio coloro che sono degni di divenirlo, tollerare più a lungo i tiranneggiamenti astuti di cotesta proconsolessa dei lettori e degli ascoltatori?
Giacché essa, colle trombe della voce e della stampa, scorrazza indisturbata il nostro campo, o libertari dell’una e dell’altra trincera. Tirammo a palle di fuoco, io per il primo come espiazione professionale — e poi ci accosciammo alle più lussuriose tresche verbali che si siano incrociate fra bocche e penne di uomini. Ed ascoltammo, come nuovissime insurrezioni della volontà razionale, le più barbine e barbute filosoficherie che sien capaci di fermentare nelle misteriose profondità corticali d’un ciarlone o d’un grafomane — e pensate intonare, o amici che vi reputate sugli spalti più arditi, la rapsodia eroica dell’io esasperato tra gli esasperati della terra, come dinamite morale contro l’appiattimento dell’individuo alle bestialità della maggioranza o della classe, giungendo inconsapevolmente (meno qualcuno ch’ebbe il coraggio di confessarlo) ad una specie di imperial politik del ciascuno contro tutti, che nella storia delle carneficine o delle teorie ebbe ben altri atleti e profeti — da Nerone ad Hobbes. Ma il delirio rosso dell’uno e dell’altro giunse al gesto politico o letterario della pandecapitazione attraverso le gemme dell’estetismo, o i sillogismi del ragionamento deduttivo. E l’una e l’altra, per quanto eleganti nel grande artista del massacro, e geniali nei metafisici del pessimismo, non furono che manifestazioni psico-patologiche.
Le realtà della vita e della lotta sono ben altre, quando si muova armati — individuo o falangi — di quella forza critica che osserva severamente i fenomeni per conquistarne il segreto, senza le gelide rabbie degli indignati di professione, ben lontane e ben diverse delle sublimi collere delle moltitudini, che riassumano nel grande atto abbattitore tutto quanto pulsava di verità, verità vissuta nelle parole e negli scritti, che illuminarono o infiammarono gli animi. Ed è allora, nella risultante storica della rissa immane, che si scopre la inanità delle dichiarazioni di principio (attenti ai mali passi o amici della prossima trincera!…) e delle declamazioni dottrinarie.
Oh la colonna di fuoco, senza motti, senza parole solenni, senza logaritmi rigidi — life and struggle standard labaro di vita e di lotta, fiamme sulla fronte dei risoluti a raggiungere la terra, deh! come vanamente promessa dalla tradizione — ed oh come lontana dalle parole dilaniantisi a vicenda, per amore di una premessa filosofica, nel seno stesso dei fratelli, pur doloranti e coraggiosi dall’uno a l’altro vallo!…
Invece la minaccia è quella di un bandierone — tanti cenci fruscianti a gloria sulla tragedia umana — un bandierone gravido del colaticcio delle filosofiche maccheronate al succo ego-acratico, o delle espettorazioni dottorali dei rigattieri della sociologia; la minaccia orrenda è ancora quella di fucilate, i cui proiettili sono nelle canne delle gole, o di esplosioni le cui capsule scricchiolano sulle punte terribili delle penne d’oca — con un epilogo atroce di barricate di parole… Hai ragione, fosca anima di Amleto: verba, verba, verba, praetereaque nihil.
E più di quelle nulla; tra noi che ci vantiamo uomini d’azione, come fra quegli altri ancora... è un morbo epidemico, che non risparmia nessuno. Non mi parlate dell’Enciclopedia. Prima di tutto ov’è Gian Giacomo — ove stride la sottile ed inesorabile lima di Rabelais, dove sta la mina del sorridente Voltaire?
Ma quelli d’allora, colle pagine degli scritti fecero lo stoppaccio ai fucili, e coi trattati sulla rivoluzione caricarono i cannoni epici che della rivoluzione furono attori tonanti dalla Senna a Valmy. E le schioppettate, che fecero tremare i consapevoli echi delle Tuileries, come ricordava il poeta del Ça ira, lanciavano sprazzi della tua anima, o Diderot!
[Cronaca Sovversiva, anno VII, n. 31, 31/7/1909]