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«Resta inteso che ogni progresso scientifico

compiuto nell’ambito di una struttura sociale difettosa

non fa che lavorare contro l’uomo,

contribuendo ad aggravarne la condizione»

André Breton, Le Figaro littéraire, 12 ottobre 1946


«Paragonando lo stato delle conoscenze umane con gli stati precedenti, Fontenelle scoprì non proprio l’idea di progresso, che è solo una illusione, ma l’idea di crescita. Vide abbastanza bene che l’umanità, a forza di vivere, acquisisce esperienza ed anche consistenza. (...) Progresso inizialmente significava solo avanzamento, cammino nello spazio e nel tempo, con ciò che comporta di felice uno stato di costante attività. Più tardi si diede a questa parola il senso di miglioramento continuo (Turgot), indefinito (Condorcet) e divenne ridicola»

Remy de Gourmont, Sur Fontenelle. Promenades littéraires, Mercure de France, 1906



Ormai da decenni, se non da un secolo o due, alcune persone cercano la parola, ce l’hanno «sulla punta della lingua», sfugge loro, lasciandogli una viva e dolorosa frustrazione — senza la parola come dire la cosa? Coma dare e nominare la ragione dello sgomento, della rivolta, del lutto e per finire dello scoraggiamento e di una indifferenza senza fondo. Come se si fosse stati amputati di una parte del cervello: amnesia, zona bianca nella materia grigia. La politica, in ogni caso la politica democratica, comincia con le parole e l’uso delle parole; essa consiste per una parte preponderante nel nominare le cose e quindi nel nominarle con la parola giusta, con precisione flaubertiana. Dare un nome a una cosa è formare una idea. Le idee hanno conseguenze che si producono inevitabilmente. La maggior parte del lavoro di elaborazione della neolingua, in 1984, consiste non nel creare, ma nel sopprimere delle parole, quindi delle idee — cattive idee, idee nocive dal punto di vista del Partito —, quindi ogni velleità d’azione conseguente a quelle parole che formulano cattive idee. Questa parola l’abbiamo talvolta abbordata, abbiamo provato «rimpianto» (regret), era bello «rimpianto», una approssimazione che formava consonanze, pur appartenendo a un altro ramo etimologico. Un’altra volta, abbiamo usato «regresso» (régrès), credendo di coniare un neologismo, una declinazione di «regressione» che fa rima con «progresso», termine a termine. Ci eravamo quasi. Poco tempo fa siamo caduti su «regresso» (regrès), una buona e vecchia parola francese, «caduta in disuso» come si dice, buona per il dizionario degli obsoleti che è il cimitero delle parole. E delle idee. E delle loro conseguenze, buone o cattive.

Ovviamente è impossibile credere che il vocabolo «regresso», l’antonimo di «progresso» sia sparito per caso dalla lingua e dalle teste. Il movimento storico dell’ideologia in un qualsiasi momento del XIX secolo ha deciso che ormai ci sarà solo progresso, e che la parola regresso non avrà un maggiore utilizzo di quanto ne avesse la maggior parte del vocabolario sul cavallo oggi scomparso con l’animale e i suoi molteplici utilizzi che instauravano una familiarità fra lui e l’uomo di una volta. Così le vittime del Progresso, del suo prezzo e dei suoi danni, non avranno più parole per lamentarsi. Saranno solo degli arretrati e reazionari: il campo del male e dei maledetti votati alla spazzatura della storia. Se pensate che si sfondino delle porte aperte, avete ragione. La cosa sorprendente è che occorra ancora sfondarle.

Largo all’OnniProgresso, quindi. La parola stessa non aveva in origine una connotazione positiva. Indicava semplicemente un avanzamento, una progressione. Anche i più accaniti progressisti concederanno che l’avanzamento — il progresso — di un male, del caos climatico, di una epidemia, di una carestia o di qualsiasi altro fenomeno negativo non costituisce né un piccolo salto né un grande balzo per l’umanità. Soprattutto quando si considera da sé, per voce delle sue autorità scientifiche, politiche, religiose e morali, sull’orlo dell’abisso. Ciò che ha reso il progresso così positivo e imperativo, è la sua alleanza con il potere, enunciata da Bacone, il filosofo inglese, all’alba del pensiero scientifico e razionalista moderno: «Sapere è potere». Questa alleanza di cui la borghesia mercantile e industriale è stata l’agente e la principale beneficiaria ha conquistato il mondo. Il potere sta al sapere come il denaro sta al denaro. Il potere sta al potere. Alleanza del microscopio (della provetta, del computer, ecc.) e del Capitale. Contrariamente a quanto pretendono il socialismo scientifico ed i suoi innumerevoli postumi (dalla sinistra del PS alla «sinistra della sinistra»), i senza potere non possono «riappropriarsi» di questo potere. Non possono nemmeno impadronirsi dell’apparato scientifico-industriale e farlo funzionare a loro profitto, non più di quanto la Comune (1871) avrebbe potuto far funzionare a proprio profitto l’apparato di Stato borghese. Doveva distruggerlo. Ed è la lezione che ne trae anche Marx in La guerra civile in Francia. I senza potere non possono «riappropriarsi» di un modo di produzione che esige al tempo stesso enormi capitali e una gerarchia implacabile. L’organizzazione scientifica della società esige alla sua testa degli scienziati: non si gestisce questa società né una centrale nucleare in assemblea generale, con democrazia diretta e rotazione dei compiti. Quelli che sanno decidono, quale che sia la veste del loro potere. Contrariamente a quanto immaginava Tocqueville in una celebre pagina sul carattere «provvidenziale» del progresso scientifico e democratico, intrecciati nella sua mente, il progresso scientifico è anzitutto quello del potere sui senza potere. Certo, una tecnica ai comandi di un drone può sterminare un guerriero virilista, a distanza e senza rischi. Ma ciò non significa affatto un progresso nell’uguaglianza delle condizioni, quanto un progresso nella disuguaglianza degli armamenti e delle classi sociali. È questo avanzamento scientifico che ha eliminato popoli diversi là, classi diverse qua e prolungato l’impresa statale in tutti gli anfratti del paese, della società e degli (in)dividui con l’influenza digitale. Ogni progresso della potenza tecnologica si paga con un regresso della condizione umana e dell’emancipazione sociale. Ormai è un truismo che le macchine, i robot e l’automazione eliminano l’uomo dalla produzione e dalla riproduzione. Le macchine eliminano l’uomo dai rapporti umani (sessuali, sociali, familiari). Lo eliminano da se stesso. A che pro vivere? Le macchine lo fanno talmente meglio di lui.


Non solo la parola di «Progresso» — connotata a torto in maniera positiva — si è impadronita del monopolio ideologico dell’era tecnologica, ma questa coalizione di collaborazionisti della macchina, scienziati transumanisti, imprenditori high tech, pensatori queer e altri mutanti della French theory si è essa stessa impadronita del monopolio della parola «Progresso» e delle idee associate. Doppio monopolio quindi, e doppia truffa semantica. Questi progressisti sul piano tecnologico sono regressisti sul piano sociale e umano. In lingua comune si definiscono reazionari, partigiani della peggiore regressione sociale e umana. Questa reazione politica — ma sempre all’avanguardia tecnoscientifica — trova la sua espressione nel futurismo italiano (Marinetti), nel comunismo russo (Trotsky soprattutto), nel fascismo e nel nazismo, tutti movimenti di ingegneri di uomini ed anime, miranti a modellare l’uomo nuovo, l’Ubermensch «aumentato» del cyborg, l’uomo bionico, partendo dalla pasta umana, «ibridata» con impianti e interfacce. Il fascismo, il nazismo ed il comunismo non hanno ceduto che di fronte alla maggiore potenza tecnoscientifica degli USA (nucleare, informatica, missilistica, ecc.). Ma l’essenza del movimento, la volontà di potenza tecnoscientifica, si è reincarnata e amplificata attraverso nuovi involucri politici. Fin dal 1945 Norbert Wiener metteva a punto la cibernetica, la «macchina per governare» e la «fabbrica automatizzata», vale a dire il formicaio tecnologico con le sue rotelle e le sue connessioni, i suoi insetti social-meccanici, ex-umani. Il suo discepolo Kevin Warwick dichiara oggi: «Ci saranno persone impiantate, ibridate che domineranno il mondo. Gli altri, che non lo saranno, non saranno più utili delle nostre attuali mucche guardate a vista». Quelli che non lo credono, non credevano al Mein Kampf nel 1933. È questo tecnototalitarismo, questo «fascismo» dei nostri tempi che combattiamo, noi, luddisti e animali politici, e vi chiamiamo per aiutarci. Spezziamo la macchina.


Grenoble, 18 giugno 2014