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Sono trascorsi 32 anni dal giorno in cui Sante Caserio giustiziava in Lione il presidente della Repubblica Francese: Sadi Carnot.

Era un’epoca in cui gli anarchici perseguitati si difendevano coraggiosamente dagli attacchi spietati della reazione europea, che decimavano le loro file; giustiziava gli audaci che osavano ribellarsi, rinserrando nelle bastiglie gli apostoli; deportando nelle caienne gli agitatori.

Ma gli anarchici non disarmavano.

Dall’innumere anonima schiera dei ribelli sorgevano i vendicatori che audacemente sacrificando la propria vita compivano il sacro mandato della vendetta.

E questa esplodeva implacabile nei bagliori corruschi della dinamite, nel lampeggiare delle terse lame dei pugnali, nel rimbombo dei colpi di rivoltella.

In Italia, in Francia, nella Spagna dove più ferocemente infieriva la reazione rispondevano per tutti i perseguitati, per gl’imprigionati, per i sacrificati. Paolo Lega, Augusto Vaillant, Emilio Henry, Paolino Pallas. E caddero anch’essi.

Non invendicati; che un giovanetto ventenne venuto in Francia dalle fertili pianure lombarde assumeva, solo, il compito che i suoi compagni francesi avevano con Sadi Carnot.

E la sera del 24 Giugno 1894 quando le Rues e i Boulevards della città di Lione sfolgoreggiavano di mille luci, in mezzo ad una folla plaudente e pecorilmente servile, procedeva lentamente la carrozza presidenziale. Quando all’improvviso s’aderge; novello Armodio; assetato di giustizia e di vendetta, il biondo panettiere di Motta Visconti, pugnalando il tiranno di Francia.

Un fremito di terrore invase tute le sfere elevate della classe parassitaria che già s’adagiavano sui sonni dorati di un’ottimistica tranquillità; immemore e impreoccupata degli ultimi giustiziati.

Un altro vendicatore era sorto, a far cadere il castello fantastico delle illusioni, e più formidabile dei suoi predecessori in quanto che colpiva direttamente al cuore la suprema dignità della società borghese nella persona del suo rappresentante.

Un’ondata immensa di maledizioni si sollevò contro l’iconoclasta che aveva atterrato l’idolo della patria.

La stampa prezzolata, foraggiata dai fondi segreti delle cloache ministeriali, fu la prima ad innalzare il vessillo mercenario della santa crociata sterminatrice degli anarchici.

La pavida classe dirigente nel suo daltonismo politico e nel suo folle timore di nuovi e più terribili attentati, s’appellò a tutti i mezzi, a tutti i ricorsi, a tutte le vie: dagli umoristici congressi antianarchici, alla soppressione della stampa sovversiva; dagli esili alle perquisizioni domiciliarie; dagli arresti alle sorveglianze speciali; favorendo e incoraggiando denunzie e denunziatori.

Tutto è stato escogitato per porre termine a questi conati di barbarie (la frase gentile e cavalleresca ci viene regalata dal bandito di Rivera, Francesco Crispi l’autore ignobile delle leggi eccezionali di quel fosco periodo dell’anno 1894), mentre che gli psichiatri e gli arcadi, coadiuvando la tetra reazione, studiavano gli pseudo fattori psicologici della moderna delinquenza; consigliando timidamente i governi di adottare contro i ribelli la camicia di forza e il manicomio.


Di questo triste periodo conservo un ricordo personale.

Lo stesso giorno che Sadi Carnot cadeva a Lione, in Fabriano, i repubblicani del Circolo “Guglielmo Oberdan” esposero la bandiera abbrunata.

Questo fatto meravigliò alquanto gli anarchici locali che ne domandarono la ragione, e se l’esposizione del vessillo era motivata dal fatto della defunzione di qualche loro compagno, o se era stata esposta per il giustiziato presidente francese.

Risposero che effettivamente era stata esposta per quest’ultimo a cui essi s’associavano al lutto universale.

Fu replicato se la loro tanto decantata e auspicata repubblica era sullo stesso stile di quella francese; con le sue diseguaglianze economiche, i suoi amori vaticaneschi, le sue miserie sociali e la sua... ghigliottina.

Tacquero.

Facemmo ancora osservare loro che Caserio riuscì nell’intento — ciò che Oberdan s’era proposto di fare — cioè punire un tiranno.


Continuando: diremo che inutili riuscirono le misure repressive, improbi gli sforzi degli intellettuali.

La borghesia, i governi compresero alfine che non con mezzi inquisitoriali si sopprime un’idea, non uccidendo o imprigionando i suoi militi; perché non s’inceppa il fatale andare della palingenesi sociale.

L’anarchia intendetelo bene o dominatori dell’oggi ha troppo salde e profonde radici per essere divelta dal terreno filosofico sociale con una miserevolissima legge poliziesca.

L’anarchia è la verità, anzi la base di tutte le verità scientifiche, filosofiche, economiche, sociali che rinserra i più elevati principi di moralità, di giustizia, di verità.


L’atto di Caserio fu di giustizia e di vendetta.

Di giustizia perché egli insegnò al popolo come si puniscono i tiranni; di vendetta perché si volle crudelmente sopprimere un uomo, che non aveva ucciso nessuno ma scalcinato un po’ le pareti austere, ed intimorito i gaglioffi medagliettati del mercenario tempio di Temi.



[Culmine, anno II, n. 9, 9 giugno 1926]