Ricordati di celebrare le feste
... ma vorrei farti una domanda:
quando avrai quel tuo posticino in Val di Susa...
immagino che vorrai toglierti
la tua inelegante uniforme da delatore...
è vero?... è quello che pensavo...
ecco, questo non lo sopporto!
... insomma, se facessimo a modo mio
porteresti questa uniforme
per il resto della tua vita da succhia-magistrati...
ma mi rendo conto che non è pratico
e a un certo punto te la toglieresti...
così ti darò una cosetta che non ti potrai togliere!
Bastardi senza popolo e senza gloria quali siamo, abbiamo pensato di fare una raccolta di testi a proposito della lotta No Tav in Val Susa pubblicati nel corso di questi ultimi quattro anni sul sito finimondo.org. Vi abbiamo aggiunto alcuni testi più teorici, apparsi sul medesimo sito, che abbordano la spinosa questione della partecipazione nelle lotte sociali da parte di chi ha aspirazioni non riducibili a un qualsiasi rivendicazionismo. Chiudono il libro tutti i documenti apparsi dopo che i portavoce «di Movimento» di tale lotta hanno pubblicamente indicato alla polizia, dalle pagine dei loro siti (notav.info e infoaut.org), i redattori di Finimondo quali autori di alcuni sabotaggi avvenuti nel presente e di altre azioni illegali avvenute nel passato. Pubblica delazione poi corretta, nascosta, negata, in mezzo all’imbarazzo generale. In effetti non si erano mai visti dei “leader rivoluzionari” mostrarsi palesemente al servizio della polizia. Noncuranti degli insopportabili stridii di specchi su cui si arrampicavano, gli infami capipopolo valsusini hanno cercato di seppellire questa vicenda sotto una montagna non di amianto, bensì d’oblio.
Ma adesso, è anche la carta a cantare.
La lettura dei testi apparsi su Finimondo mostra chiaramente quali siano la prospettiva e la critica formulate. Dato per scontato che le lotte sociali odierne non possono certo porsi obiettivi esplicitamente rivoluzionari, si avanza la possibilità di intervenire nelle stesse per cercare di spingerle oltre i loro limiti immediati. Contrariamente a quanto sostiene un certo «nichilismo», le lotte sociali non aprono inevitabilmente un baratro di compromessi dentro cui si precipita (idea che porta alla scelta logica di evitarle sempre e comunque, chiudendo l’azione anarchica in un solipsismo autoreferenziale). La rinuncia alle proprie aspirazioni più radicali non è affatto ineluttabile, anzi. Tutto sta nei metodi con cui si sceglie di agire. Infatti, contrariamente alla pretesa di un certo pragmatismo cittadinista, un intervento può anche avvenire in maniera critica.
Il nodo della discordia ruota attorno al rapporto da instaurare con gli altri, ovvero con coloro che sono mossi dalle esigenze più elementari e ragionevoli. Va evitato in quanto sirena che porta alla perdizione, oppure va inseguito e blandito in quanto garanzia di vittoria? Né l’una né l’altra cosa. L’incontro con gli altri, per quanto agognato — che un’insurrezione non la possono fare i soli anarchici — non può mai essere forzato. I possibili complici vanno cercati diffondendo le proprie idee, le proprie pratiche, la propria visione del mondo, nella maniera più estesa possibile e che si reputa migliore. Non ha senso prendere a prestito idee, pratiche e visioni del mondo altrui, solo per apparire più presentabili. Perché altrimenti, a furia di voler stare ad ogni costo in mezzo agli altri, a furia di nascondere ciò che si ha nel cuore per essere più accettati, a furia di mimetizzarsi nell’ambiente come camaleonti, si finisce col perdersi strada facendo.
In questo senso l’esplosione della lotta No Tav in Val Susa ha avuto effetti micidiali sull’insieme del movimento anarchico, diffondendovi una mentalità politica che nel giro di pochi anni ha fatto piazza pulita di quella alterità che caratterizzava buona parte del movimento fino all’inizio di questo millennio. Anarchici che volevano arrivare ai ferri corti con l’esistente hanno abbandonato d’un tratto il pugnale per impugnare l’uncinetto con cui tessere rapporti basati non più sull’affinità, bensì sull’amicizia politica. In questa zona grigia ogni collaborazione è diventata possibile, ci si è baloccati fra ambientalisti di Stato e periti scientifici passando attraverso personaggi televisivi e giornalisti. Questo possibilismo ha naturalmente avuto bisogno di una relativizzazione della teoria e di una giustificazione della mutazione avvenuta (apologia del fare scollegato da ogni pensare, revisionismo della progettualità insurrezionale fino a un certo punto espressa, addirittura teorizzazione della non-orizzontalità decisionale in ambito anarchico). Ciò spiega il dilagare di uno spontaneismo movimentista, se così si può chiamare, che esalta la mera presenza a scapito di ogni progettualità, attivismo sfrenato che non dà il tempo di pensare e di guardare dove si sta andando. Come se l’esperienza diretta, feticcio da brandire per dimenticare la propria mancanza di consequenzialità (relazione tra mezzi e fini), possa esistere senza un pensiero proprio da parte di chi la sta vivendo, come se ogni azione non implichi un pensiero ed una teoria. Rinunciare a questo proprio pensiero, a questa propria teoria, pur di aumentare il numero di esperienze da consumare, può solo portare acqua al mulino del pensiero e della teoria altrui. Dall’agire autonomo si passa al fare coatto.
Questo rischio non si scongiura con la mitopoiesi delle lotte, linguaggio incantatore che attraverso mille faconde acrobazie riesce a far immaginare cioccolato ciò che è merda. In questa maniera si soffocheranno i primi dubbi, si troverà una giustificazione momentanea ai passi falsi che si stanno accumulando, ma la questione in sospeso prima o poi tornerà a galla. Non si arriva alla libertà con mezzi autoritari. Non si distrugge la politica attraverso la politica. Un possibile intervento libertario non può consistere nel ripetere teorie autoritarie e nell’usare pratiche di delega. Lascia piuttosto perplessi vedere tanti ammiratori del vecchio volontarismo anarchico accontentarsi di fare presenza, di esserci nelle situazioni, senza porsi troppo la questione del significato della loro agitazione, cadendo nelle braccia di un determinismo secondo cui il seme della rivolta germoglierà nonostante e sotto la gelida neve della politica. Pensare che dal letame del potere possano nascere i fiori della libertà, significa riprendere pari pari la vecchia illusione di un meccanismo esterno, storico e oggettivo, che lavora al nostro posto rendendo così superflua la nostra volontà e la nostra progettualità.
Ciò può avere un senso per gli autoritari, i quali volendo arrivare solo a una diversa configurazione dell’esistente non hanno motivo alcuno di opporsi alla riproduzione sociale. Che il banco vinca sempre non può disturbarli più di tanto, in fondo basta che siano loro a tenerlo. Ma questa banalizzazione del senso dell’agire è inaccettabile per chi non si accontenta di merci senza logo o stati di diritto, di grandi opere utili o governi legittimati, per chi è alla ricerca di tutt’altro. Ecco perché negli articoli qui riproposti viene spesso fatto richiamo alla necessità di una conflittualità permanente, di una ostilità continua nei confronti di qualsiasi forza politica, di uno scarto assoluto dall’immaginario istituzionale e dal suo linguaggio. Non si parla la lingua dello Stato, non si tratta con rappresentanti dello Stato, non si entra in competizione con la ragione di Stato, non si pretende una centralizzazione che rispecchia lo Stato. Il mondo dello Stato va tenuto a distanza e rifiutato, non avvicinato e compenetrato. Va criticato sempre, non rimproverato di tanto in tanto.
Meglio abbandonare l’elemosina di diritti, la delega a funzionari, la fiducia nelle perizie tecniche, la tentazione di controllo. Anziché puntare a sfumare le differenze per giungere ad una comunione della lotta, mirare ad approfondirle per toccare la sua esplosione. Passare dal centro alla periferia, portare la lotta contro il Tav fuori dalla valle e dal suo cantiere per diffonderla sulla rete di binari incrociati in tutto il paese. Dare vita ad un movimento di lotta che non assomigli ad un esercito compatto, disciplinato ed omogeneo, ma ad un insieme di forze eterogenee, diverse fra loro, accomunate da un nemico da fermare e mai da un comando e da una strategia univoca.
La molteplicità di un movimento, la sua ricchezza, non è data dalla diversa origine delle sue componenti, bensì dalla loro differenza di fatto. Non serve a nulla provenire da più parti se poi ci si ritrova tutti in chiesa, in assemblea, a pregare durante la messa recitata dai preti rossi e rossoneri ai loro fedeli. Che in una lotta ci siano sia atei che fedeli non è affatto indice di vivacità e rispetto reciproco, se i primi evitano le bestemmie per non infastidire le preci dei secondi. Ritrovarsi in mezzo a politicanti di vario pelo è una scelta di campo, non un destino inevitabile. Non esiste alcun obbligo a partire e tornare insieme (nonostante la buona fede dei suoi suggeritori libertari, il vecchio patto di sangue criminale non può che diventare un dovere civico appena cade in mano ai professionisti della rappresentazione politica). Ognuno può anche partire e tornare quando vuole, seguendo il percorso che più reputa idoneo, in compagnia di chi preferisce, sostenendo le ragioni che più ritiene giuste. Se poi queste esigenze talvolta si incroceranno, tanto meglio; altrimenti, ognuno per la propria strada. È la lotta contro il Tav a dover essere portata dappertutto, nelle sue mille forme, non l’influenza del ceto politico che la amministra.
Ebbene, seguendo questa prospettiva, nel corso degli anni Finimondo ha criticato duramente la gestione politica del movimento No Tav in Val Susa, senza risparmiare la sua componente libertaria. Ciò non è affatto un’espressione di «disprezzo per il popolo», come pretendono i più imbecilli. La sincerità e la buona fede delle persone che là si stanno battendo in difesa della propria terra non è mai stata messa in dubbio. La loro caparbietà e determinazione in tal senso sono ammirevoli. Non ci si può certo lamentare della parzialità delle loro rivendicazioni, considerato che sono stati gli stessi sovversivi ad averle sostenute pari pari senza mai cercare di eccederle. Ecco qual è il punto. Se gli stessi rivoluzionari, se gli stessi anarchici, si accontentano di ripetere rimbrotti cittadinisti contro lo sperpero di denaro pubblico o amenità simili, perché mai la cosiddetta gente comune là presente dovrebbe aspirare ad altro?
È contro tutti questi sovversivi, anarchici inclusi, che Finimondo ha rivolto le sue critiche. Contro i politicanti che prendevano le distanze dai sabotaggi avvenuti in Val Susa come altrove, e contro i (non)politicanti che hanno preferito rimanere pubblicamente in silenzio davanti a queste dissociazioni, anche non condividendole. Contro i politicanti che si appellavano a parlamentari e magistrati, e contro i (non)politicanti che si limitavano a brontolare davanti a queste alleanze. Contro i politicanti che riducevano in neon di propaganda vecchi lampi criminali, e contro i (non)politicanti che glieli hanno forniti. Contro questo putrido connubio fra autoritari che detengono le chiavi d’ingresso del luna park della contestazione italica ed anti-autoritari ai loro piedi, costretti ad ingoiare tutto pur di accedervi e divertirsi e ricevere la gratificante carezza popolare.
Critiche che non sono state molto gradite, ovviamente, e soprattutto mai dibattute. La prima volta che furono chiamati Signor Movimento No Tav — nel settembre 2013, in occasione del reclutamento del teorico del pensiero molle Gianni Vattimo — i capipopolo valsusini precisarono che non era loro «costume rispondere ad individualità, individui, aspiranti nemici dello stato, complici vari e via discorrendo», avendo occhi e orecchie solo per celebrità da usare e manovalanza da sfruttare. Quanto ai loro «compagni di merende» libertari, al pubblico dibattito preferirono ricorrere tutti alla lamentela contro le «polemiche», molti al pettegolezzo, parecchi al boicottaggio, taluni alla calunnia, qualcuno alle spedizioni punitive... creando così quel bel clima di linciaggio che sarebbe poi sfociato da parte dei loro amichetti politici capipopolo nella pubblica delazione. Contro i «criticoni», nemico interno delle gloriose lotte popolari, tutto è permesso. E se oggi lo stesso movimento anarchico si caratterizza per la negazione di ogni etica — cosa che nel giro di qualche anno ci ha portato ad assistere a una richiesta pubblica di incolumità nei confronti di una infiltrata, alla punteggiatura sulle i della parola dissociazione dall’attacco contro uno dei principali responsabili dell’industria nucleare, all’indifferenza davanti al passaggio di vecchi infami in alcuni spazi di movimento — figurarsi a quale livello è pronto a scendere chi è cresciuto nella scuola del fine che giustifica i mezzi!
Ricordiamo che la lotta No Tav è salita alla ribalta delle cronache alla fine degli anni 90, dopo che alcuni sabotaggi avvenuti all’epoca portarono all’arresto di tre anarchici, due dei quali in seguito “suicidati”. Senza quei sabotaggi, senza il clamore di quelle morti, non si sarebbe sviluppata tanta attenzione. Non è stata la prima timida protesta cittadinista valsusina ad aver dato slancio a questa lotta, ma il sabotaggio di pochi nemici di questo mondo. Cosa questa che viene tutt’oggi negata dal ceto politico infame che cavalca questa lotta, e talvolta sembra sia stata dimenticata anche da molti anarchici. Arma del sabotaggio che è stata accettata collettivamente solo dopo essere stata «sdoganata» da un noto scrittore catto-comunista, il quale ha preso le difese di chi è stato arrestato nel dicembre del 2013 con l’accusa di aver partecipato all’assalto al cantiere di Chiomonte avvenuto nel mese di maggio dello stesso anno. Essendosi trattato di un assalto collettivo, approvato anche da cotanta celebrità, i capibastone del movimento No Tav hanno calcolato che la bilancia pendesse in loro favore ed hanno fatto una eccezione alla loro regola dissociazionista. Hanno difeso i quattro sabotatori No Tav, anche quando hanno apertamente rivendicato la propria responsabilità in tribunale. La loro manovalanza libertaria, invece, non essendo più costretta a tacere per non disturbare il conducente, si è sbizzarrita nel millantare che il sabotaggio è sempre stato il suo mondo. Tutto ciò è durato fino a pochi giorni dopo l’assoluzione dall’accusa di terrorismo formulata contro i quattro sabotatori No Tav, condannati il 17 dicembre 2014 solo per reati specifici.
Nel giro di un paio di giorni, prima a Firenze il 21 e poi a Bologna il 23 dicembre, alcuni sabotaggi avvenuti contro la linea ferroviaria hanno riportato di nuovo al centro della discussione il significato di questa pratica di lotta. Trattandosi di sabotaggi singolari, non difesi da alcun famoso intellettuale, il ceto politico No Tav ha subito condannato e dileggiato tali azioni. Azioni però che, come sempre e senza far ricorso al bilancino della convenienza politica, sono state difese da Finimondo con il testo che dà il titolo a questa antologia. I giornali più reazionari, che non avevano digerito l’assoluzione dei quattro sabotatori No Tav dall’accusa di terrorismo, si sono subito precipitati sull’articolo di Finimondo presentandolo come «rivendicazione» per poter gridare «al lupo!».
Questa pubblica smentita del becero innocentismo No Tav ha fatto infuriare i capibastone del movimento i quali, sul loro sito notav.info, il 28 dicembre 2014 hanno pubblicamente indicato i redattori di finimondo.org quali autori degli attuali sabotaggi, nonché di altri reati avvenuti in passato. Testo ripreso il giorno dopo anche da un altro sito legato all’autonomia torinese, infoaut.org. Mentre con la mano sinistra salutano a pugno chiuso il cadavere del compagno contadino comunista Prospero Gallinari, e con quella destra puliscono il culo al boia togato che lo ha sepolto in galera, questi rivoluzionari verticalisti trovano comunque il modo di additare con entrambe alcuni anarchici alla polizia.
Vero colpo di scena, ripreso quello stesso 29 dicembre anche dal quotidiano La Repubblica.
Resisi conto del loro passo falso — una pubblica delazione — i capibastone piemontesi sono corsi ai ripari correggendo il loro testo. Troppo tardi. Il 30 dicembre Finimondo pubblicava un articolo che accusa i portavoce ufficiali della principale lotta sociale oggi in corso in Italia — se non in Europa — di essere degli infami, mettendo a disposizione di chiunque le avesse richieste le prove di quanto sostenuto. Nessuno ha potuto smentire.
Voltarsi dall’altra parte in questo caso non era molto semplice, in quanto è il ceto politico della più gloriosa lotta sociale odierna ad essersi spinto fino alla delazione. E non quello più riformista, perbenista, legalitario, quello cioè da cui simili passi ce li potremmo pure aspettare. No, è stato quello «antagonista» e «rivoluzionario», e nemmeno nella veste di un singolo esponente bensì di un’intera redazione, quella di notav.info. Redattori non solo infami, ma per di più meschini per aver poi tentato inutilmente di coprire le tracce, taroccando a posteriori il loro testo non appena si sono accorti dello scivolone fatto. Infami e cialtroni, cialtroni e infami. Ma pur sempre leaderini di quella lotta che tanto manda in visibilio il movimento intero. Il che ha messo tutti i loro compagni di lotta più sovversivi, inclusi moltissimi anarchici, nella alquanto imbarazzante posizione di risultare... compagni di infami? A quel punto, cosa poteva accadere?
A parte il fatto che questo testo di Finimondo (“I buoni di Natale”) è stato subito ripreso e diffuso da pochi, pochissimi compagni, nei primi giorni non è successo granché. Gli infami non hanno proferito parola. Ed i loro compagni di lotta, ovvero la stragrande maggioranza del Movimento, sono rimasti muti pure loro. Fatto curioso, poiché in fondo una azione pubblica così infame da parte di “leader di movimento” non è esattamente cosa che capiti tutti i giorni. Infatti, ad un certo punto si è levata una voce stupita. E non dall’Italia, bensì dalla Francia dove il 4 gennaio 2015 «alcuni anarchici di Parigi e dintorni» — sbalorditi, a 1000 chilometri di distanza, di fronte al silenzio di chi si trova davanti ad un fatto di tale gravità — hanno diffuso un testo, tradotto da loro stessi anche in italiano, in cui c’è un esplicito rimprovero rivolto agli anarchici italiani per non essersi espressi su questa vicenda, nonché un invito a farlo. Alcuni giorni dopo, complice quell’epifania che decreta la fine delle festività e della lunga digestione che produce, qualcosa si è smosso. Non solo è stato diffuso pubblicamente il testo degli anarchici di Parigi e dintorni nel nostro belpaese, ma anche alcuni anarchici e anarchiche nostrani hanno iniziato a trovare qualcosa da dire. Lo psicodramma provocato dall’ironica ma rabbiosa reazione di Finimondo si è così palesato alla luce del sole.
I cagnolini da riporto, razza anarlecchino, hanno tentato di conservare i favori dei loro procacciatori di applausi popolari limitandosi a biasimare una non meglio definita delazione. Fra costoro, qualcuno ha ricordato i meriti del sabotaggio precisando tuttavia che le analisi sono relative (come le malattie, ognuno ha le sue). Mentre qualcun altro cercava e trovava i testi infami apparsi in rete, quindi li archiviava, restandosene zitto per giorni e aspettando di vedere come conveniva buttarsi, per riprendere alla fine la non-posizione altrui aggiungendo però prima il suo sermone apparentemente equidistante; quindi, in seconda battuta, ha scoperto le carte perdonando gli infami e bacchettando gli infamati, mentre criticava di passaggio la temporalità di questi sabotaggi. Per non parlare di chi si è accusato scusandosi per il ritardo dovuto alla scarsa dimestichezza col diabolico mezzo telematico — «poco male, vada per la prossima volta», quando potrà dire subito che la delazione è una «pratica» che non gli appartiene.
Miserie umane a parte, c’è pure chi le ha cantate a brutto muso ai redattori di notav.infam e infam.aut. Chi ha precisato che dietro il Signor Movimento No Tav si celano alcuni militanti del centro sociale torinese Askatasuna e del comitato di lotta popolare di Bussoleno, scavando un fossato con chi non può più essere considerato «compagno» e «rivoluzionario»; e chi ha dichiarato che la presenza di infami all’interno delle situazioni di movimento non può più essere accettata. Solo il tempo dirà se si tratta di rigorose scelte di campo o di effimere posture situazionali. Sta di fatto che, dopo diversi giorni, altri ancora hanno deciso di rompere gli indugi e si sono espressi decisamente e senza tanti giri di parole contro la delazione, specificandone gli autori, e a favore dei sabotaggi.
Beccati con le mani nella merda, i capipopolo valsusini si sono inizialmente ammutoliti. Tutta la loro prosopopea di baldi condottieri rotti da ventennali esperienze di lotta, tutta la loro aria da comandante Giap de noantri, si è dileguata come per incanto. Ma il fiorire di comunicati che li inchiodava alla loro infamia deve avere intaccato a tal punto la loro già lesa maestà da spingerli nel giro di cinque giorni (17 e 21 gennaio) a diffondere due nuovi testi. In entrambi si scusano per il piccolo errore linguistico prontamente corretto (definendo le accuse di infamia meramente strumentali), ma se il primo invita tutti a pensare a cose più serie (incrementare il patrimonio di quella lotta di cui si sentono gli amministratori più o meno delegati), il secondo è una vera e propria resa dei conti con i loro ex (?) compagni di merende. Infatti il 13 gennaio si è tenuta in Val Susa un’agitata assemblea che ha visto gli uni accanto gli altri, assemblea in cui gli stracci rivoluzionari No Tav hanno cominciato a svolazzare in lungo e in largo. Alla fine sono stati proprio loro, gli infami capipopolo valsusini, a prendere la pubblica parola per impartire agli anarchici fino a ieri al loro servizio una lezione di etica: «se ci considerate delatori, perché venite a discutere con noi?». Un interrogativo rimasto senza risposta.
Inutile girarci attorno. Sono troppo scivolosi quegli specchi. I leaderini della principale lotta sociale in corso qui in Italia sono, precisamente, dei delatori (per mera idiozia o per calcolo politico, non è questo il punto). Fra i loro sguatteri libertari, non pochi sono dichiaratamente intenzionati a rimanere al loro servizio. Punto e basta. Come è stato scritto, il dado è tratto. I primi, ambiziosi di legittimità e di egemonia, a furia di ammiccare ai magistrati si ritrovano ora con un futuro marchiato per sempre. Chi chiameranno come docente nella loro prossima umile e modesta Università delle Lotte, Giuda Iscariota? Intanto, stanno già allenandosi per rimuovere i loro critici. I secondi, vogliosi di consensi e di tranquillità, a furia di ammiccare agli infami si ritrovano ora con un futuro marchiato per sempre. Dove troveranno ora babbei a cui poter raccontare che la lotta No Tav ha praticato una «rottura con la morale pubblica... articolata sugli assi del pentitismo e della delazione, della dissociazione e dell’abiura»? All’asilo nido? Intanto, stanno già rinnovando il guardaroba.
A partire da quanto (non) avvenuto dopo il 30 dicembre scorso, tutte quelle chiacchiere hanno perso il filo del loro funambolismo. Nove anni dopo la «gloriosa battaglia di Venaus», tre anni dopo l’«indimenticabile Libera Repubblica della Maddalena», dopo innumerevoli giornate e nottate condivise sulle barricate, ecco cosa è scaturito dalla esperienza diretta di chi non esita a sporcarsi le mani: la pubblica delazione e la tolleranza di tanti verso la pubblica delazione.
In tal senso, questa squallida vicenda ha dato un enorme contributo a quella vulgata «nichilista» secondo cui le lotte sociali in quanto tali non possono essere che postriboli. A dimostrazione, d’ora in poi si potrà citare il movimento No Tav italiano.
Ma, ad onta delle apparenze, non siamo d’accordo. Ecco perché abbiamo deciso di pubblicare questa antologia. Da un lato, per ribadire con ostinazione che in una lotta pur allargata si può entrare e rimanere con il coltello in pugno. Dall’altro, per evitare che un oblio interessato faccia dimenticare in fretta chi sono gli infami e chi sono i loro compagni, quelli che per poter continuare a fare affari con loro non hanno esitato a liberarsi di ogni (pastoia) etica.
[A stormo! (contro il Tav, il cittadinismo,
la delazione), Indesiderabili edizioni, 2015]