Riparliamone
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Credevamo che non ne avremmo più sentito parlare. Dopo tutto, a questo servono le consultazioni popolari. O no? Sì, forse ci eravamo illusi che il tempo delle ipotesi sul nucleare fosse definitivamente concluso. Da Cheliabinsk (1957) a Tokaimura (1999), passando per Three Mile Island (1979) e Chernobyl (1986), i fatti avevano parlato. L’industria nucleare è l’esempio più estremo delle disastrose conseguenze provocate dallo sviluppo della scienza, ormai sottoposta esclusivamente agli imperativi della politica e dell’economia, con una totale noncuranza per la vita. Le catastrofi che accompagnano la sua storia ne dimostrano l’assoluta nocività, e smentiscono tutte le assicurazioni fornite sul conto della sua “sicurezza”. Non esiste, non può esistere un nucleare sicuro, pulito, immune da scorie tossiche e da rischi di guasti o di errori. Chi decanta le meraviglie dei reattori di terza o quarta generazione, chi esalta la fusione nucleare perché «più sicura» della fissione, mente sapendo di mentire; sa che le sue parole potranno essere prese per buone solo fino al prossimo incidente. E allora, com’è possibile che qui in Italia si torni a progettare l’utilizzo dell’energia dell’atomo?
Cominciamo col dire che il nucleare è riuscito in un’impresa mai realizzata da nessun tiranno: imporre il proprio dominio almeno per 24.000 anni (è il periodo medio di durata del plutonio 239). Il futuro dell’umanità, ammesso che ne abbia uno, non potrà comunque fare a meno di questo regalo avvelenato. Il nucleare rivela e riassume così un fenomeno senza precedenti nei processi di distruzione della vita. Mai l’esistenza del pianeta era stata rimessa in discussione in una simile fuga in avanti dello sviluppo scientifico. Il nucleare è incontrollabile, irreversibile, irreparabile. Esso segna il punto di non ritorno, quello superato il quale non si può più invertire la rotta. Per la prima volta nella sua storia l’uomo non si è limitato ad usare la materia, a modellarla, ma è entrato dentro la materia. Come un Dio che pretende obbedienza, fedeltà ed ammirazione.
Il nucleare quindi non è più una opzione, una scelta tecnica che si può fare o non fare: è una realtà già (radio)attiva, diffusa, dominante. Alla sua onnipresenza, qui in Italia, manca solo visibilità. È quel che oggi stanno cercando di imporre i suoi sostenitori, la costruzione di nuove centrali atomiche sul nostro territorio per rendere solidamente concreto qualcosa che è già presente nell’aria. Se non si può tornare indietro, tanto vale andare avanti. Per riuscire in questo intento, la lobby nuclearista ha aperto il fuoco delle sue batterie mediatiche. Politici, scienziati e amministratori si stanno attivando per contaminare ogni intelligenza. In fondo è inutile opporsi alle centrali atomiche qui in Italia, considerato che ce ne sono un buon numero appena fuori dai confini. Dopo tutto non si può continuare a dipendere dagli approvvigionamenti di biogas russo. In fin dei conti è meglio correre ai ripari, ora che le riserve di petrolio sono in via di esaurimento. Siamo onesti, nessuno vuole patire il freddo e rinunciare ai comfort della vita moderna... Non vi suonano familiari queste argomentazioni? Sono patetiche e rinunciatarie come coloro a cui sono destinate. Ecco perché c’è chi nutre ottime speranze sul loro successo.
E nonostante i continui incidenti abbiano dimostrato, non una, ma cento volte l’impossibilità di gestire il nucleare, i governi non cessano per questo di esercitare il loro ricatto sulla necessità energetica ed economica delle centrali atomiche e di presentare tutti coloro che vi si oppongono come utopisti ed irresponsabili. Servirebbe a qualcosa ricordare a chi ci accusa di voler tornare all’età della pietra, che il paleolitico è stato l’inizio dell’umanità, mentre il nucleare rischia di segnarne la fine? No, sarebbe del tutto inutile. Il nucleare è il frutto di quella Ragione di Stato che oggi vede nella tutela dell’ambiente un intralcio all’industria, arrivando a dichiarare folli le preoccupazioni ambientali circa la salute del pianeta. È la stessa Ragione che indica come esempio da seguire quelle centrali francesi che proprio in questo ultimo periodo stanno registrando incidenti a catena. Il Re è nudo come un verme, ma non se ne vergogna affatto. Nella sua tronfia arroganza, è certo che nessuno abbia più gli occhi per guardarlo, che nessuno abbia più la voce per metterlo alla berlina.
Il nucleare non è una questione energetica, è una questione politica. Dal punto di vista strettamente energetico, i suoi costi sono talmente alti, i suoi rischi talmente enormi, da sconsigliarne la produzione. Ma dal punto di vista politico, il nucleare è il più formidabile strumento di dominio mai esistito. Qual è infatti la conseguenza pratica e immediata dell’aver reso possibile un annientamento generale dell’umanità? Quella di paralizzare la nostra capacità di immaginazione, quella di trasformare la rabbia in panico, quella di farci aggrappare con le unghie e con i denti ad una realtà detestabile ma di cui siamo ormai diventati ostaggio. Lo Stato vuole a tutti i costi ricorrere al nucleare perché, attraverso la sua applicazione, intende rendere pervasiva ed eterna la sua presenza mettendo a tacere ogni possibile contestazione.
Facciamo qualche esempio. L’argomento della complessità della questione nucleare serve a togliere la parola ad una eventuale critica, dichiarata incapace di valutare con cognizione di causa i termini del problema, lasciando così la decisione finale in balìa degli esperti sul libro-paga dei vari ministeri interessati. Gli imperativi di sicurezza servono da pretesto alle autorità per mantenere il segreto su gran parte delle proprie attività in materia e per imporre il rispetto di questo segreto a tutti gli interessati. Tenuto conto che solo pochi anni fa una intera regione è insorta contro un previsto deposito di scorie, tenuto conto che nell’aprile 2007 uno dei sondaggi tanto apprezzati dal Palazzo dava all’80% i pareri contrari all’energia atomica, non è difficile capire i motivi che hanno spinto lo scorso maggio il governo ad estendere il «segreto di Stato» al nucleare.
Per evitare nuove mobilitazioni di protesta, meditano di ricorrere alla tattica del fatto compiuto. Ciò porrebbe gli individui in una situazione di notevole impotenza e soggezione. Dopo aver imposto le centrali atomiche e i relativi luoghi di produzione e di stoccaggio, lo Stato rimarrebbe la sola forza con i requisiti ed i mezzi — se non per impedire — almeno per contrastare i loro capricci e limitarne i danni. Ad esso quindi spetterebbe il compito di vegliare sulla sicurezza di quei luoghi, senza che qualcuno possa minimamente discutere le decisioni prese.
In questo modo lo Stato nucleare, dopo aver spinto forzatamente l’umanità sull’orlo del baratro, ha la pretesa d’essere il solo rifugio sicuro, il solo in grado di fronteggiare i pericoli di cui esso stesso è la causa. In caso di catastrofe, cosa si potrebbe mai fare? Chi avrebbe gli strumenti per intervenire? Ogni reazione spontanea di solidarietà e di riflessione critica verrebbe ridotta in anticipo a partecipazione civica ad un processo di cui lo Stato resta il padrone assoluto. Dunque l’installazione di centrali nucleari serve principalmente a rafforzare il controllo statale sulla società e ad incrementare l’asservimento degli individui.
È fatale: qualsiasi forma di realismo ha le mani legate contro il nucleare. Se il problema è quello di far funzionare giorno e notte le industrie e tenere accesi miliardi di elettrodomestici, la soluzione più adeguata non può che essere il nucleare. Investimento per investimento, perché perdere tempo con fonti rinnovabili pulite che possono al massimo dare una boccata d’aria a un mondo il cui modello di sviluppo incita ad una frenetica espansione? È infatti ovvio che il fabbisogno energetico dipende dalla struttura della società, cioè dalla sua forma di organizzazione, dal suo modo di vivere. Una civiltà come la nostra — capace di insanguinare il pianeta con le sue guerre, di circondarsi di oggetti inutili fino a restare sommersa da rifiuti che non sa dove mettere, di nutrirsi con alimenti geneticamente modificati — ha nel nucleare l’energia che si merita.
A meno d’essere degli ambientalisti decerebrati, come chi sostiene la panacea del blocco domenicale delle auto per risolvere l’inquinamento atmosferico, è evidente che la lotta contro il nucleare verrebbe banalizzata se assumesse i tratti di una opposizione ad una scelta tecnica sbagliata. Se il nostro obiettivo fosse solo quello di trovare un modo per alimentare il mondo in cui (sopra)viviamo, forse potremmo perfino partecipare alla girandola del dettaglio tecnico volta a dimostrare che il ricorso al nucleare non è una scelta obbligata. Ma se viceversa siamo determinati a fermare gli apprendisti stregoni che giocano con l’atomo, se intendiamo ostacolare l’esercito di sorveglianti che si apprestano ad ingrossare, allora dobbiamo avere la consapevolezza di cosa questo comporti: il rifiuto della civiltà industriale e mercantile, della sua organizzazione, dei suoi valori, del suo stile di vita.
È facile prevedere, oltre che auspicare, che l’imminente costruzione delle ennesime «cattedrali nel deserto» aprirà un nuovo ciclo di lotte antinucleari. È altresì prevedibile che queste lotte attireranno stormi di avvoltoi verdi&rossi, desiderosi di mettersi in mostra per risalire sullo scranno perduto dove erano soliti appollaiarsi e prosperare. Verranno convocate assemblee di cittadini, organizzate carovane e allestiti presidi di protesta, saranno preparati dossier controinformativi illuminati dalla chiarezza delle cifre, verranno dati spazio e voce ad esperti alternativi contrapposti a quelli istituzionali. Tutte iniziative meritevoli, inutile dirlo, giacché non si può disconoscere l’importanza di allargare il più possibile la partecipazione a questa lotta, di possedere informazioni precise e corrette, di saper controbattere colpo su colpo quanto viene contrabbandato come necessità oggettiva. Ciò detto, è fondamentale anche qualcos’altro, soprattutto per chi come noi ha ben altre aspirazioni: cautelarsi contro chi (e sarà la maggioranza) cercherà di spostare la questione nucleare sul terreno tecnico della mancata legittimità democratica e della effettiva convenienza energetica/economica.
Come si diceva una volta, No Nuke, non è abbastanza. Chi non intende apportare un’ulteriore sfumatura ad un sinistro arcobaleno peraltro ormai sbiadito, è bene che non se lo dimentichi e che coltivi fin da subito la propria differenza, la propria unicità, la propria autonomia. Che sappia caratterizzarsi per un pensiero ricco e articolato, privo il più possibile di ancore ideologiche ma anche di leggiadrie opportunistiche, per cui i dati tecnici (facilmente neutralizzabili da perizie discordanti) rimangano in secondo piano e facciano da umile contorno al piatto principale. Che sappia distinguersi per una metodologia antipolitica, più interessata a trasformare le masse in individui consapevoli che gli individui in masse da organizzare, e che quindi cerchi di decentralizzare gli obiettivi senza focalizzarli in un unico punto. Che sappia rispettare le attitudini di ciascuno, di chi ama la compagnia come di chi preferisce la solitudine, di chi va a riscaldarsi alla luce del sole come di chi esce a rinfrescarsi al calar della notte. Se il nucleare è già dappertutto, dappertutto può svilupparsi anche la sua opposizione. Lasciamo ad altri le battaglie democratiche, la ricerca del consenso, l’apologia delle fonti rinnovabili. Non fa per noi. Mica ci interessa rifornire di energia pulita questo mondo. Noi vogliamo mandarlo in rovina, definitivamente, prima che ci seppellisca con le sue scorie, i suoi ordini, i suoi fumi, le sue leggi, i suoi detriti, le sue morali, i suoi veleni, le sue politiche. Come diceva un vecchio scienziato anarchico: «È una macchina, vivente è vero, ma composta da rotelle umane; cammina davanti a sé, come animata da una forza cieca. Per fermarla non ci vorrà niente meno che la forza collettiva e insormontabile di una rivoluzione».
[Machete, n. 3, novembre 2008]