Senza parole
Con ogni mezzo necessario?
Sono passati molti anni da quando, in seguito all’affermazione contenuta in uno scritto, in cui si affermava che la realizzazione di una certa nocività doveva essere impedita “con ogni mezzo necessario”, alcuni compagni facevano notare che questo genere di dichiarazione rischia di aprire le porte anche a ciò che non vogliamo. Cosa si intende, infatti, “con ogni mezzo necessario”? Tutto, “ogni mezzo” per l’appunto, e quindi potrebbe passare anche il messaggio che per impedire la realizzazione di quella nocività, o qualunque altra cosa si decida di contrastare, si possa fare ricorso, per esempio, anche alla raccolta di firme o al ricorso al Tar, il tribunale amministrativo. Pratiche decisamente poco anarchiche.
Riflettendoci, non si può che trovarsi d’accordo con quella osservazione, pensando a come sia invece la controparte, lo Stato, ad essere disposto ad agire “con ogni mezzo necessario” pur di raggiungere i suoi scopi. Costruzione di prove false, arresti indiscriminati, minacce, torture, bombe nelle piazze e sui treni… Pratiche queste ultime, che lo Stato, per il raggiungimento dei suoi obiettivi “con ogni mezzo necessario”, ha compiuto in stretta collaborazione con i fascisti.
Alla luce di ciò, colpisce ancora di più leggere, su un sito di movimento, che “Il fascismo si combatte con ogni mezzo necessario”. Significa quindi che lo Stato, i fascisti e coloro che vogliono combattere il fascismo (questi generici antifascisti) siano tutti disposti a non porsi domande su quali siano le pratiche, e quindi l’etica che le sorregge e le legittima, pur di combattere contro il rispettivo nemico? Crediamo – e speriamo – di no. Ma è proprio quel comunicato che lascia aperta la porta al dubbio, e non per lo slogan – di cui comprendiamo le intenzioni – ma perché sono elencati una serie di nomi, senza distinzione alcuna, accomunati dal loro essere “antifascisti” ma, appunto, “con ogni mezzo necessario”. Ma è corretto raggruppare sotto lo stesso ombrello, quello dell’antifascismo nel caso specifico, persone che compiono tra loro scelte diverse? È corretto accomunare chi si trova ad affrontare la repressione senza nulla rinnegare di quanto gli viene imputato (al di là che lo abbia o meno commesso realmente) con chi – nei fatti – ha già rinnegato quanto gli viene contestato e, per di più, nel corso di una manifestazione collettiva (quella che nel suddetto comunicato è definita “la rivolta”), che quindi non riguarda e non coinvolge solo lui?
Quando, dopo l’arresto e qualche giorno in carcere, durante quello che la lingua di legno del Potere definisce “interrogatorio di garanzia”, si ammette di essere colui che viene immortalato in alcune foto (e fin qui…), ma si aggiunge anche di essere disposto a risarcire i danni si sta ammettendo, di fatto, di aver commesso un errore, di avere sbagliato e, quindi, implicitamente, di essere se non pentito, quantomeno costernato per la propria condotta, una condotta riprovevole. Ora, non si intendono qui dare lezioni di coerenza rivoluzionaria o misurare il tasso di sovversività degli individui per mezzo di un metro inesistente, ma è indubbio che un certo genere di ammissione non possa non avere conseguenze anche per gli altri che sono imputati per gli stessi fatti e gli stessi reati, agli occhi di un Potere che – invece sì – usa sempre bene il suo metro repressivo. Quali saranno infatti le conseguenze per chi non si dirà disposto a risarcire i danni causati nel corso del suo agire? O di chi addirittura si dichiarasse pronto a rifarlo? La risposta dovrebbe essere scontata… Ci si colloca su piatti diversi tra quelli retti dalla giustizia, con l’inevitabile conseguenza che l’alleggerimento di uno rende l’altro più pesante.
Affermare che la responsabilità di una tale scelta sia da attribuire a cause esterne alla propria volontà è solo una forma estrema di arrampicata sugli specchi, perché non possono esistere cause “esterne” alla propria volontà individuale, ed evitiamo di entrare nel merito di queste cause, in primis per rispetto della vita privata di chi è coinvolto, ed anche perché parlarne non farebbe altro che evidenziare maggiormente la pochezza e la miseria di un certo pensiero e di un certo agire.
Un compagno è, o dovrebbe essere, sempre un individuo consapevole, di se stesso e delle proprie responsabilità, e nel momento in cui decide di muoversi in una certa direzione, deve essere anche disposto a farsi carico e ad assumere quelle responsabilità, che sono umane, sociali, politiche, giudiziarie… In caso contrario, qualora non fosse disposto a farlo, bene farebbe a stare a casa, perché quello della sovversione sociale non è né un gioco a cui si può giocare fino a che le cose vanno bene, e neanche una questione di “pignoleria”, come spesso vengono bollate le critiche come questa, ragion per cui in molti decidono di tacere davanti a situazioni simili, oppure a parlarne solo in privato, e mai coi diretti interessati.
Certo non siamo contenti quando qualcuno finisce in carcere, e ci fa piacere saperne fuori la persona coinvolta, ma la debita conseguenza di certe scelte dovrebbe essere tirarsi fuori dal gioco (che tale appunto appare…) e farsi, tranquillamente, la propria vita.
Purtroppo però l’amicizia tende a soppiantare sempre più i rapporti di affinità e la ricerca della progettualità, e si tende a rinunciare a questi per non abbandonare quella, in un costante e continuo scivolamento verso il basso dei propri sogni, delle proprie aspirazioni, dei propri progetti, della propria etica, e della capacità di farsi carico delle conseguenze di tutto ciò. Non ci sono quindi mai conseguenze o prese di posizione chiare e nette davanti a fatti simili, perché sembra prevalere ormai la disponibilità a bere una birra in compagnia o andare a fare i tuffi insieme, piuttosto che la complicità nella ricerca di un progetto comune, interrogandosi sui mezzi più adatti per realizzarlo.
Sarà forse un caso, ma dopo “la rivolta” c’è stato anche un sabotaggio – un ripetitore telefonico incendiato – rivendicato in solidarietà con chi era stato aggredito dai fascisti, fatto da cui era scaturita “la rivolta” stessa. Ne è seguito un comunicato in cui, con una forma che metteva le mani avanti, si dichiarava di non volere indicare nessuno quale autore del sabotaggio, facendo comunque intendere di non essere stati loro, gli estensori. Ora, non sarà la stessa cosa che puntare il dito contro qualcuno, ma anche tirarsi fuori e restringere il campo della ricerca, non è pratica molto nobile. È tutto questo guazzabuglio che poi permette ai pentiti di tornare a frequentare posti e situazioni di compagni o ai dissociati di tenere lezioni sui modi di portare avanti le lotte…
Davanti a tutto ciò possiamo ancora continuare a mettere la testa sotto la sabbia per restare amici di tutti; possiamo ancora turarci il naso per non respirare l’olezzo nauseabondo, ma tutto ciò, alla lunga, fa mancare l’aria.
Preferiamo respirare.
Anarchici
[3 ottobre 2015]
Un giocattolo rotto
Pentirsi dei propri gesti o delle proprie idee significa, senza tanti giri di parole, prendere le distanze da questi, dissociarsi. Oggi il linguaggio è cambiato, i significati sono più diluiti, lo scarto tra ciò che si dice e quello che si fa aumenta sempre più. Dare seguito alle proprie parole sembra quasi velleitario e molto spesso, purtroppo, tutto si riduce in slogan, frasi fatte, gesti emulati. Agire coerentemente non può certo essere un gesto di pignoleria o una sorta di rigidità mentale. Dovrebbe essere, al contrario, lo spirito che anima chi si mette in mezzo nel tentativo di sovvertire questo mondo, o quanto meno nel tentativo di mettere i bastoni tra le ruote allo sfruttamento e all’iniquità.
Ma questi discorsi sembrano essere ormai cose da marziani, da rompicoglioni, da vecchi compagni legati all’ideologia. Questo è il tempo dell’assenza di memoria, della comunicazione veloce, del linguaggio spezzettato e tutto ciò non può che determinare anche i gesti e i pensieri di chi è immerso, noi compresi, in questa realtà. Ciò non significa, però, che tutto abbia una giustificazione e possa essere tollerato, anzi, più siamo accondiscendenti, poco attenti e poco critici e più la realtà tenderà a sovrastarci.
Dopo che a Cremona un’aggressione fascista aveva portato in fin di vita un appartenente del Csa Dordoni, un grosso corteo ha percorso le vie della città, con rabbia. Alcuni antifascisti sono stati arrestati in seguito a questo corteo. Uno di loro, durante l’interrogatorio, ha affermato di essere stato presente a quella manifestazione e di voler ripagare i danni, giustificando in seguito di aver preso una tale decisione perché confuso e perché raggirato dall’avvocato.
Nessuno pretende che i compagni siano degli eroi, ma forse è necessario che si rifletta un po’ di più sulle proprie azioni. Capire che le proprie scelte comportano delle conseguenze sembra essere incomprensibile a molti, eppure è una banalità di base che dovrebbe essere più che scontata. Altrimenti dobbiamo giungere alla conclusione che nulla è importante e che assumersi la responsabilità di quello che si fa e che si dice vale per noi tanto quanto vale per chi, in questo mondo, tenta di sopraffare gli altri. Inaccettabile. Ma poiché nessuno pretende che ci siano obblighi o regole da imporre, può accadere che un compagno comprenda, dopo essere arrestato, che quella non è la sua strada, che nella vita vuole fare altro e quindi si dissocia dal suo gesto o dalle sue idee; ma perché allora ricordarlo alla stregua di chi, invece, coerentemente accetta le conseguenze – compreso il carcere e la repressione – senza scusarsi in seguito ai suoi gesti?
E cosa significa dichiararsi antifascista dopo essersi scusato sostenendo di volere ripagare? Una sorta di etichetta, un marchio che mette al riparo da qualsiasi critica? Senza contare che dirsi antifascista senza fare una minima riflessione sul contesto in cui ci troviamo è una formula vuota e inutile, buona solo a sentirsi parte di un gruppo. Questo è quello che comporta il gregarismo, il fare o dire le cose perché le fanno o le dicono altri. La cosa peggiore, poi, è scaricare la propria responsabilità su qualcun altro, in questo caso l’avvocato. Negli ultimi tempi abbiamo assistito alla presenza sempre più ingombrante degli avvocati che spesso hanno preso le redini dei processi condizionando molto la difesa dei compagni. L’avvocato fa quello che gli si dice di fare a livello politico se è una persona sensibile, un amico o addirittura – se possibile – un compagno. Non dice quello che non vuoi e non si sostituisce a te se glielo impedisci. Se si pone in questo modo ciò che resta da fare è revocarlo o minacciarlo. Ma se l’avvocato non ha agito in questo modo, non si può buttare merda su di lui per arrampicarsi sugli specchi e tentare di giustificare la propria inettitudine.
Possibile che tanti tra quelli che girano nel movimento non fanno alcuna riflessione sul carcere, su cosa sia e su cosa fare se un giorno dovesse toccare anche a loro?
Un brutto posto, senza dubbio, nel quale si possono vivere condizioni pesanti, ma del quale bisogna parlare per capire di cosa si tratta sapendo che niente ci può annientare se le nostre idee sono più forti (al di là dell’accettazione o meno della condizione detentiva personale), se la solidarietà è un termine concreto e se ci siamo dotati di mezzi per affrontare ciò che tenta di isolarci, ostacolarci, metterci in difficoltà. Se tutti questi pensieri non ci sfiorano minimamente, allora dovremmo trarre qualche conclusione, perché evitare di finire dentro è molto meglio, ma provare a capire come affrontare la detenzione, qualora dovesse capitare, potrebbe evitare di fare scelte dissociative.
La paura è un sentimento che proviamo tutti e forse in molti casi può essere utile a farci capire fin dove possiamo arrivare. Questo, a nostro parere, è avere considerazione della propria dignità e non barattarla alla prima difficoltà.
Infine, l’amicizia. C’è chi probabilmente pensa che per amicizia non si possa criticare o dire nulla, o che la questione andava affrontata diversamente. Inutile arrampicarsi sugli specchi. La problematica riportata all’inizio è nota da tempo ed è stata taciuta e giustificata, quando non nascosta sotto la coperta della scelta individuale. Non serve ribadire che dichiarare di voler ripagare il danno di fatto pone una netta separazione tra se stessi, acquistando il ruolo del manifestante buono che chiede scusa, e gli altri, i cattivi, quelli che non pagheranno, che anzi pensano che quello che hanno fatto era il minimo che potevano fare. E poi siamo davvero sicuri che se un amico sbaglia sia da amici far finta di niente, o l’indifferenza e la giustificazione, anche di ciò che è palesemente sbagliato, sono il collante di rapporti gregari e alienati?
Ma queste sono domande che si pongono quei soliti pignoli e rigidi, per tutto il resto c’è facebook.
Anarchici
[3 ottobre 2015]