Soluzione non matematica
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Fuori dalla politica, è inutile fare una genealogia del conflitto infinito, di questa guerra deflagrata ancor prima che i nostri genitori nascessero, della ostilità assoluta che ha per capitale Gerusalemme. Chi si addentrasse in quegli eventi, ne uscirebbe ricoperto di sangue. Si tratta di un ginepraio talmente inestricabile che solo mani guantate di ferrea ideologia, mani da sicario, possono afferrare in tutta tranquillità. Da circa un secolo, in quelle terre si massacrano reciprocamente. Alla lunga, in questa spirale di violenza e dolore, le “ragioni” e i “torti” di ciascuno si sono annullati, cancellati e sepolti dai lutti e dalle rovine che non hanno risparmiato nessuno. Fuori dalla politica, non c’è nemmeno bisogno di fare una descrizione del carnaio appena avvenuto a Gaza di cui siamo stati testimoni (benché tramite Al-Jazeera). In fondo lo sappiamo che ogni guerra assomiglia alle altre, un feroce miscuglio di terrore e morte.
Quando il sangue scorre, si fa più impellente il bisogno di «prendere posizione»: siamo o non siamo in guerra? Fuori dalla politica, decidere da che parte stare diventa una scelta etica che va da sé: dalla parte dei più deboli. Qui tutto diventa chiaro. L’orribile groviglio di odio e rancore intessuto nel tempo si dipana in un lampo. Grazie a Dio, la matematica non è un’opinione. In 22 giorni di conflitto ci sono stati 1330 morti e 5450 feriti nelle fila dei palestinesi; 13 morti e decine di feriti in quelle israeliane. Da un lato, gruppi di guerriglieri armati di determinazione e poco più. Dall’altro, un esercito fra i più efficienti al mondo. Da un lato, la volontà di sopravvivere. Dall’altro, la ragione di Stato. E poco importa se il panico negli occhi dei bambini di Gaza è identico a quello dei bambini figli dei coloni; poco importa se la sproporzione degli effetti della guerra è per lo più il risultato di una disparità di mezzi, non di fini. Solo la realtà conta. Grazie a Dio, la matematica non è un’opinione.
C’è chi ha definito questa guerra infinita un dilemma, una sfida ad ogni amante della libertà. Solo la realtà conta, ed è qui che — si dice — bisogna cercare una soluzione. Ma che soluzione immagina il manifestante che invoca una Gaza governata da Hamas? E quell’altro manifestante, che tipo di “pace” immagina possa essere accettata dallo Stato di Israele? Questo è l’incubo del mondo in cui viviamo; non si riesce a sognare nulla di diverso al suo posto. Le idee diventano popolari in virtù del denaro che sta loro dietro, quindi non c’è da sorprendersi dell’abbondanza di nazionalismo e di integralismo religioso presenti fra chi manifesta pro o contro. Se non si sogna di buttare tutti gli ebrei in mare o di costruire un Israele più grande, non c’è nulla da sognare: per ora, restano solo i razzi rudimentali e i missili ipertecnologici. Un domani, ci sarà forse tempo per crepare di una morte più lenta ma meno terrificante, di vivere una vita più tranquilla ma non meno insignificante. Allorché razzi rudimentali e missili ipertecnologici verranno fermati dalle bandiere di due Stati che convivono all’interno di un medesimo Mercato. Il che significa che, fuori dalla realtà, non c’è soluzione. No, non c’è soluzione.
Una voce familiare mi chiama: ma i fuochi della Grecia non ti danno altri sogni? Il loro calore ha già aperto squarci nella nebbia che avvolge l’orizzonte; al posto di rassegnazione e fatalismo offre altre scelte, mette il mondo sotto un’altra luce: Forse. Con questo sogno dei fuochi greci potremo dormire un po’ meglio. Ma questo mondo sotto un’altra luce è ancora questo mondo. Il sorriso di uno sconosciuto significa molto quando si è soli. Quando si è soli non è tanto lo sconosciuto che conta, ma il sorriso. Ma quando il sorriso è cancellato dalla guerra, stravolto dal terrore e dalla disperazione, allora ci ricordiamo che nessun Virgilio ci guiderà in questo inferno.
[Machete, n. 4, luglio 2009]