Stragi di parole
Anche le parole sono scese in guerra dopo venerdì 13 novembre. A cominciare da quella che designa il nemico. Chi è stato a massacrare civili inermi a Parigi? In Francia non hanno dubbi: il nome per indicare i guerrieri del Califfato è Daesh. In altre parti del mondo, Italia compresa, (essendo la sudditanza linguistica riflesso di quella politica ed economica) si preferisce usare l’anglofono Isis. La disputa non ruota tanto sulla traduzione letterale del nome arabo Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, quanto sul significato che essa si trascina con sé. Daesh è un acronimo derivato dal nome arabo, Isis è un acronimo della sua traduzione inglese. Il primo suona incomprensibile ed è noto che risulta intollerabile a coloro che indica, forse per via della sua assonanza con un altro termine arabo che significa «seminatori di discordia»; il secondo è facilmente comprensibile da tutti ma risulta imbarazzante per chi non vuole abbinare il concetto di Stato (e/o di Islam) a quello di terrore.
Tralasciando il fatto che questi soldati della guerra santa hanno da un po’ di tempo abbandonato quel termine, preferendo quello più essenziale di Stato Islamico, è comunque interessante rilevare le preoccupazioni che covano dietro questa battaglia semantica. Nel giro di una settimana pare emergere la tendenza ad abbandonare l’uso del termine Isis a favore di Daesh, non solo in omaggio al paese in cui è avvenuta la carneficina, ma anche per ragioni più strategiche. Finché il Califfato veniva finanziato in chiave anti-insurrezionale (siriana o curda), intrattenendo per altro con esso buoni affari nel settore petrolifero, non c’era nulla di male nel considerarlo uno Stato per di più Islamico. In fondo, è impossibile nascondere che nei suoi territori i suoi uomini forniscono dei servizi alla popolazione ed amministrano la giustizia in base alle leggi coraniche. Ma adesso le cose sono cambiate, ora si sta diffondendo la necessità di considerarli soltanto terroristi. È una questione che sembra pedante, ma in realtà è di sostanza. Se questi islamisti fondamentalisti sono uno Stato, non si possono distruggere completamente. Cane non mangia cane. Ecco perché ora ci sono tante discussioni volte a stabilire se il massacro sotto la torre Eiffel sia stato un atto di guerra perpetrato da uno Stato-canaglia (da rovesciare), oppure un atto di terrorismo compiuto da una banda armata (da annientare).
Gli amici dello Stato non possono accettare che questi assassini dediti alla conquista attraverso il saccheggio e lo sterminio si proclamino Stato. Non bisogna mai dimenticare gli sforzi millenari fatti per introiettare nella testa di chiunque (e guai a chi si oppone) la convinzione che Stato sia sinonimo di legittima organizzazione. Schiere di filosofi e studiosi di ogni genere, dall’antichità fino ai giorni nostri, sono lì a metterci a disposizione una ragione di Stato che sia di nostro gradimento. Lo Stato può essere concepito come «bisogno di associazione» e come «ingrandimento della nostra anima» (Platone), oppure come «prodotto della natura» (Aristotele). Lo Stato può essersi costituito per mettere fine alla bellum omnium contra omnes (Hobbes) o può essere il risultato di un Contratto Sociale (come, ben prima di Rousseau, avevano inteso dimostrare Grozio, Spinoza e Locke). Lo Stato può essere «un mezzo avente come scopo supremo lo sviluppo eternamente progressivo del puramente umano in una nazione» (Fichte), oppure «la sintesi assoluta della razionalità dei singoli, che riconoscono in esso il luogo della piena realizzazione della libertà individuale» (Hegel). Lo Stato può essere «il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune fra loro» (Bodin) oppure «la rappresentazione materiale del popolo» (Savigny). E si potrebbero trovare mille altre teorie volte a persuaderci di quanto sia bello e giusto e necessario uno Stato.
Per criticare simili castronerie non è nemmeno necessario fare ricorso ai classici dell’anarchismo (con le loro ideologie infantili e turpi, idealiste e rancorose, poi…). Ci basta e ci avanza ricordare quanto riconobbe oltre un secolo fa Franz Oppenheimer, economista e socialista liberale: «Lo Stato è, del tutto per quanto riguarda la sua origine, e quasi del tutto per quanto riguarda la sua natura durante i primi stadi della sua esistenza, una organizzazione sociale imposta da un gruppo di vincitori ad un gruppo di vinti, organizzazione il cui unico scopo è quello di regolamentare il dominio dei primi sui secondi difendendo la propria autorità contro le rivolte interne e gli attacchi esterni. E questo dominio non ha mai avuto altro scopo che quello dello sfruttamento economico dei vinti da parte dei vincitori.[...] Ci basti qui affermare che da nessuna parte la nostra regola conosce eccezioni. Nell’arcipelago malese come nel grande laboratorio sociologico africano, in tutti i paesi del globo ove l’evoluzione delle razze ha superato il periodo della condizione selvaggia primitiva, lo Stato è nato dalla sottomissione di un gruppo umano da parte di un altro gruppo umano e la sua ragione di essere è, ed è sempre stata, lo sfruttamento economico degli asserviti».
Lo studioso tedesco proseguiva affermando che nella genesi dello Stato si possono distinguere sei stadi:
saccheggio — «il primo stadio comprende il furto e l’assassinio nelle lotte di confine, combattimenti senza fine mai interrotti né dalla pace né dall’armistizio. È marcato dall’uccisione degli uomini, il rapimento di donne e bambini, il saccheggio delle mandrie e l’incendio delle abitazioni»;
tregua — «gradualmente, da quel primo stadio, si sviluppa il secondo, in cui il contadino, tramite migliaia di tentativi di rivolta privi di successo, ha accettato il suo destino ed ha cessato ogni resistenza. A questo punto inizia ad albeggiare nella coscienza del selvaggio pastore che un contadino morto non può più lavorare e che un albero da frutta abbattuto non sarà più utile. Nel suo stesso interesse, quindi, dovunque sia possibile, lascia il contadino in vita e l’albero in piedi. La spedizione del pastore rimane la stessa, ogni membro brulica di armi ma non intende più né si aspetta una guerra e un’appropriazione violenta»;
tributo — «il terzo stadio arriva quando il “supplemento” ottenuto dalla classe contadina è consegnato regolarmente nelle tende dei pastori come “tributo”, un regolamento che offre ad entrambe le parti vantaggi considerevoli ed evidenti. Con questo mezzo la classe contadina è alleggerita completamente dalle piccole irregolarità connesse al precedente metodo di tassazione, come uomini colpiti in testa, donne violentate o dimore date alle fiamme»;
occupazione — «il quarto stadio, ancora una volta, è di grande importanza dal momento che aggiunge un fattore decisivo nello sviluppo dello Stato di come siamo abituati a vederlo, ovvero, l’unione in una striscia di terra dei due gruppi etnici (è risaputo che nessuna definizione giuridica di Stato può essere raggiunta senza il concetto di territori dello Stato). D’ora in poi la relazione dei due gruppi, che originariamente era internazionale, gradualmente diviene sempre più intranazionale»;
monopolio — «la logica degli eventi si spinge velocemente dal quarto al quinto stadio e forma quasi completamente lo Stato. Sorgono liti tra villaggi vicini o clan che i lord non permettono più che siano combattute, dal momento che a causa di ciò la capacità dei contadini in servizio sarebbe ridotta. I signori assumono il diritto di arbitrare e, in caso di bisogno, di imporre il loro giudizio. Infine accade che per ogni “corte” del villaggio del re o del capitano del clan c’è un vice ufficiale che esercita il potere, mentre ai capitani è permesso di trattenere l’apparenza dell’autorità»;
Stato — «in tutti i luoghi gli stessi risultati sono conseguiti dalla forza delle stesse cause sociopsicologiche. La necessità di mantenere i sottomessi in ordine ed allo stesso tempo di mantenerli alla loro piena capacità lavorativa porta passo dopo passo dal quinto al sesto stadio, in cui lo Stato, acquisendo la piena intranazionalità e con l’evoluzione della “Nazionalità”, è sviluppato in ogni senso. Il bisogno di interferire diviene sempre più frequente, per alleviare le difficoltà, per punire, o per imporre l’obbedienza; e così si sviluppa l’abitudine a essere governati e l’uso del governo. I due gruppi, separati al principio e poi uniti su un territorio, sono dapprima solamente disposti uno di fianco all’altro, poi sono mescolati l’uno con l’altro come una mistura meccanica, termine usato in chimica, finché gradualmente diventano sempre più una “combinazione chimica”. Si fondono, si uniscono, si amalgamano, in usi e costumi, nel linguaggio e nel culto».
Ecco cosa sono e come sono nati gli Stati, nel passato come nel presente e come nel futuro. Quanto agli amici dell’Islam, mal sopportano che dei tagliagole facciano del Corano il proprio libro sacro. Non amano ricordare i generosi finanziamenti al Califfato da parte di molti paesi arabi, così come le migliaia di fedeli provenienti da tutto il mondo che si uniscono alle loro fila. Pur di non mettere in discussione l’adorata religione — che nel loro caso si presenta magnificamente, con un nome che significa sottomissione — preferiscono attribuire le recenti stragi ad un complotto giudaico teso a macchiare la loro pacifica reputazione.
Queste brevi riflessioni servono a spiegare i motivi per cui noi, contrariamente alla tendenza in atto, ci permettiamo di osservare che il termine scelto dagli stragisti di Parigi sia in fondo preciso: Stato Islamico.
Ovvero, autorità terrena e autorità divina unite, mano nella mano, nello sfruttamento e nel massacro di ogni libertà umana.
[19/11/15]