Titolo: Un’arte di economia mista
Argomento: Contropelo
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      Barthélémy Schwartz

Barthélémy Schwartz


Avanguardia ed economia mista

Succedanei della concezione bolscevica e autoritaria dell’organizzazione, le avanguardie artistiche radicali hanno avuto le loro ore di gloria fra le due guerre ma si sono prolungate fino agli anni 50-60. Esse hanno avuto il loro «periodo eroico» al tempo dei surrealisti che negli anni 30 hanno ignorato le critiche marxiste e anarchiche del bolscevismo, preferendo Trotsky a Pannekoek. Esse hanno avuto il loro «periodo sventurato» dopo la seconda guerra mondiale al tempo dei situazionisti, costretti negli anni 60 ad affermarsi come una avanguardia che rinunciava alle sue prerogative di avanguardia.

Le avanguardie artistiche radicali della prima metà del secolo (dada, il surrealismo, l’espressionismo tedesco, ecc.) si caratterizzavano per la combinazione di creazione, di critica dell’arte come sfera separata dall’attività sociale, e di critica sociale. In assenza di cambiamento radicale della società capitalista durante questo periodo, malgrado le rivoluzioni abortite in Russia, Italia, Germania e Spagna, queste avanguardie hanno permesso paradossalmente un rinnovamento senza precedenti dell’arte e della cultura. Il surrealismo è stato così la prima avanguardia radicale a confrontarsi in tempo reale con i meccanismi dell’integrazione culturale. L’accoglienza molto favorevole riservata dalla critica a Nadja (1928) è stato un primo sintomo di questo processo, che ha condotto André Breton a reagire energicamente con la pubblicazione del Secondo Manifesto del Surrealismo: «La misura esigua in cui fin d’ora il surrealismo ci sfugge, del resto, non deve farci temere che serva ad altri contro di noi» e a invocare «l’occultamento profondo, effettivo del surrealismo [proclamando] in questa materia, il diritto all’assoluta severità. Nessuna concessione al mondo, nessuna grazia». Ma in un mondo che diverse rivoluzioni abortite non sono state in grado di cambiare radicalmente, il surrealismo non ha potuto portare che alla produzione di opere la cui valorizzazione ha accompagnato la sua integrazione nella cultura. La sovversione della società da parte dell’arte radicale, che esprimeva nella cultura la radicalizzazione della società, si è individualizzata come rinnovamento della cultura non appena la rivolta sociale è stata messa in scacco. L’integrazione nella cultura è stata allora la sua unica prospettiva. Da questo punto di vista, l’esperienza situazionista richiama l’avventura surrealista: quando Guy Debord si è suicidato nel 1995, era già stato integrato nella cultura in blocco, come scrittore, come rivoluzionario, come artista, come cineasta, come situazionista, come intellettuale. Le poche opere realizzate, qualche film, qualche libro, una attitudine e un tono, sono bastate alla felicità subito saziata del consumo culturale. Nel quadro di un mondo che non è stato essenzialmente trasformato, il surrealismo e l’Internazionale Situazionista hanno avuto successo, ma questo successo si è ritorto contro di loro che non si aspettavano null’altro se non il rovesciamento dell’ordine sociale dominante. Perché avvenisse altrimenti, occorreva che i periodi di agitazione sociale non rilanciassero con i loro fallimenti successivi l’economia capitalista ma che vi mettessero fine. Cosa che non è accaduta fino ad ora.

Le avanguardie artistiche che si sono avute dopo la seconda guerra mondiale, ad eccezione dell’IS che bisogna considerare diversamente, stanno alle avanguardie radicali come lo strumento senza lama a cui manca il manico sta al coltello di Lichtenberg. L’arte contestataria che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni 60 e durante gli anni 70 (body art, arte concettuale, land art, happening, arte povera, ecc.) si è costituita in reazione al mercato, e per sfuggire ai suoi obblighi. Si è orientata deliberatamente verso forme artistiche sperimentali che cercavano di superare le costrizioni mercantili dell’arte delle gallerie e delle vendite all’incanto (arte nella natura, arte senza produzione di oggetti d’arte, arte come idea, l’artista come opera, ecc.). Ma questa arte detta d’avanguardia non ha potuto imporsi che grazie all’intervento decisivo e sostenuto delle istituzioni pubbliche che le hanno dato spazi fuori dal mercato per esprimersi (Centro d’arte contemporanea, Museo, Ministero, ecc.), e dei mezzi finanziari per esistere e lavorare (ordinazioni pubbliche, sovvenzioni, collezioni, ecc.). Lo spazio delle istituzioni pubbliche è divenuto così il terreno d’intervento privilegiato di queste avanguardie di economia mista, che sia per dare scandalo o per svilupparsi, perché è il terreno della loro valorizzazione. Senza domanda sul mercato corrispondente alla loro offerta, esse hanno bisogno di istituzioni pubbliche per valorizzarsi come avanguardie, prima di sfumarsi nelle sottigliezze del mercato, a meno che separate di colpo da questo e dai suoi sbocchi esse non trovino alla fine la loro salvezza nel solo mercato pubblico. L’esistenza di quest’arte separata dal mercato suppone uno sforzo delle istituzioni pubbliche per sostenerlo e dei mezzi appropriati per mettere in opera questa politica (Delegazione alle arti plastiche, Fondi di incitamento alla creazione, decentralizzazione, ecc.).

L’opposizione di questi artisti d’avanguardia al mercato, naturalmente, è fittizia. La loro assicurazione ha lo spessore dei mezzi di sovvenzione pubblica che sono loro concessi. In effetti l’economia mista si caratterizza per uno sforzo sostenuto dallo Stato nell’economia di fornire un palliativo alle manchevolezze del mercato nella realizzazione del plusvalore. In arte di economia mista, lo Stato dona alle avanguardie artistiche i mezzi per non dipendere dal mercato, e il lusso eventualmente di opporsi ad esso, ma questi mezzi non sono diversi da quelli che lo Stato usa per sostenere l’economia privata in generale: provengono da una frazione del capitale privato di cui lo Stato si appropria sotto forma di imposte o di prestiti. «Lo Stato accresce la “domanda effettiva” comprando all’industria privata, e finanzia i suoi acquisti sia con le imposte, sia con dei mutui emessi sul mercato dei capitali. Nel primo caso non fa che trasferire al settore pubblico del denaro guadagnato nel settore privato, cosa che può modificare in un certo senso l’orientamento della produzione, ma senza aumentarla necessariamente. Nel secondo caso, i suoi acquisti possono avere il medesimo effetto, ma a questo aumento della produzione corrisponde una crescita del debito pubblico, in conseguenza del “finanziamento attraverso il deficit di bilancio”» (Paul Mattick). Lo Stato permette agli artisti che sostiene di non dipendere dal mercato, ma questo è reso possibile solo perché si accaparra una parte del plusvalore prodotto dal privato, e lo redistribuisce in modo da indurre una domanda inesistente sul mercato privato perché non valorizzante. Così, alla fine, sovvenzionata dai fondi pubblici o producendo per il privato, l’arte di economia mista dipende sempre, in ultima analisi, dal mercato privato, dalle sue crescite e dalle sue crisi. Anche quando crede di opporsi ad esso, protetta dai musei, dai centri d’arte contemporanea e dai ministeri.


Dalla sovversione della società ad opera dell’arte, alla sovvenzione dell’arte ad opera della società

Non si può comprendere l’arte odierna senza tornare un attimo sull’arte della prima metà del secolo. Le avanguardie degli anni 20 e 30, e le filosofie dell’arte e della storia che esse esprimevano, da un lato fondevano assieme finalità artistica e finalità rivoluzionaria, essendo l’idea quella che non ci poteva essere realizzazione dell’arte senza soppressione del capitalismo; dall’altro integravano nella formazione del linguaggio artistico l’importanza dell’espressione inconscia. Spinta dalla rivoluzione russa e dalla sua attrazione, l’arte della prima metà del secolo (dada, surrealismo, espressionismo tedesco...) era in rottura con la gestione capitalista della società, era quindi in rottura pure con l’insieme dei valori della borghesia. Valorizzava l’importanza della psicanalisi come strumento di conoscenza, e non considerava l’artista come un eroe o un genio. L’arte doveva essere fatta da tutti, perché essendo solo una questione di espressione, doveva essere una questione di tutti. Quando Marcel Duchamp introduceva nel 1917 un orinatoio in una esposizione di opere d’arte, non aveva in mente che fosse un’opera d’arte, con questa provocazione rimetteva in questione la cultura elitaria della sua epoca. Come promemoria, cinque anni prima Apollinaire, introducendo dei commentari della vita quotidiana nella poesia («I direttori, gli operai e le belle stenodattilografe, dal lunedì mattino al sabato sera quattro volte al giorno passano», Zona). Dalla rivoluzione sociale si aspettava infine che desse a tutti i mezzi materiali per dedicarsi alla poesia.

La guerra di Spagna ha segnato la fine del periodo rivoluzionario fra le due guerre. Il movimento rivoluzionario sconfitto, le condizioni riunite, la guerra ha potuto scoppiare e risolvere provvisoriamente attraverso la distruzione e la morte le contraddizioni dell’economia capitalista. Le teorie di economia politica che hanno fondato la società d’economia mista dopo la seconda guerra mondiale volevano sostituire i meccanismi d’equilibrio operando liberamente attraverso il mercato e che erano sfociati nella grande crisi del 1929 e nella guerra mondiale, attraverso un equilibrio stabilito consapevolmente dall’intervento dello Stato nell’economia. In mancanza di sopprimere questo incubo del capitalismo che è la ricorrenza di crisi economiche, si sperava almeno di attenuarne gli effetti. La società d’economia mista aveva come vocazione quella di essere una società senza crisi, né sociale né economica.

L’arte di economia mista è l’arte di questo periodo che va dalla Liberazione (di fatto la fine degli anni 50) al ritorno della crisi odierna. I suoi elementi costitutivi sono gli stessi di quelli dell’economia mista: il consenso e il partenariato privato-Stato. Si può comprendere l’arte della seconda metà del secolo se si tiene a mente la ripartizione lineare per movimento artistico considerato in storia dell’arte: nuovo-realismo, pop art, arte minimale, arte concettuale, land art, figurativa libera, ecc. L’arte di economia mista raggruppa due grandi famiglie di opere ed artisti:

– da una parte, quelle degli artisti simulacri del privato (gli artisti e le opere specchio della macchina, che si iscrivono in maniera più generale in un’arte specchio della produzione, i cui tratti essenziali sono l’accumulazione, la distruzione, la messa in serie, ecc.);

– dall’altra parte, quella degli artisti simulacri della funzione pubblica e dello Stato (gli «artisti funzionari», le cui caratteristiche sono la tassonomia, l’inscatolamento, l’etichettatura, la classificazione, la definizione, la nomina, ecc.).

Il modo di procedere dei primi si apparenta a quello del personale dell’industria, ovvero ai grandi cicli della produzione (l’accumulazione, la serie, la distruzione), quella dei secondi al modo di procedere dei funzionari di Stato (la tassonomia). In arte di economia mista, io sono un si, e questo si è quello dell’ideologia dominante, falsamente obiettivo come le pubblicità. Si ha così un primo abbozzo di ciò che è l’arte di economia mista, che costituisce l’arte contemporanea ufficiale, così come è onnipresente da decenni nelle gallerie, negli spazi pubblici, nei musei, nei cortili interni delle grandi imprese, negli spazi verdi attorno alle centrali nucleari, nei cortili dei ministeri. L’arte che ci interessa è altrove.

Durante quasi un secolo, l’arte si è costituita in rottura con i valori della borghesia e dei funzionari di Stato: «[Dal Salone dei rifiutati (1863)] fino agli anni 40 e 50 del nostro secolo, la cronaca abbonda in polemiche, errori monumentali ed ostinate cecità. C’è stata la testardaggine del Louvre, che rifiutava di appendere l’Olympia di Manet, che una sottoscrizione aveva comprato alla vedova dell’artista, per evitare che venisse acquistata da uno straniero. C’è stato il miserabile caso del legs Caillebotte, collezione di impressionisti ricevuta con sdegno da una amministrazione che tollerava Renoir e disprezzava Cézanne. C’è stata l’assoluta indifferenza dei musei francesi, che non hanno comprato né Matisse né Picasso fino alla seconda guerra mondiale. Senza la generosità di qualche donatore, come Marcel Sembat a Grenoble, e qualche dono degli artisti, non ci sarebbe stato né un fauvista né un cubista nelle collezioni nazionali nel 1939». L’arte di economia mista, al contrario, si presenta innanzitutto come un’arte integrata, sovvenzionata dal privato e dai poteri pubblici. Non conosce Salone dei rifiutati, le sue ordinazioni sono quelle dello Stato e delle grandi imprese. Perché il consenso sociale, prima pietra della società di economia mista, è stato anche un consenso culturale. La sovvenzione dell’arte da parte della società a partire dalla liberazione è stato il mezzo per trasformare la sovversione della società da parte dell’arte che prevaleva nella prima metà del secolo. Come nota Rainer Rotchlitz, «le sovvenzioni accordate alla creazione, su scala municipale, regionale, nazionale e internazionale [sono state] l’equivalente degli “acquisti sociali” del dopoguerra ed [hanno fluttuato] al loro stesso ritmo».

Marx, che non aveva predetto la società di economia mista, nella sua epoca aveva scritto che «la produzione capitalista è ostile a certi settori della produzione intellettuale, come l’arte e la poesia, ad esempio»; la società d’economia mista riconcilia l’arte e il capitalismo integrando la produzione artistica nell’industria del turismo, dove le grandi esposizioni coordinate dai commissari che raccolgono artisti riconosciuti internazionalmente prevalgono progressivamente sull’artigianato delle gallerie d’arte riservate ad una élite culturale e sociale. Le grandi esposizioni-show organizzate dai commissari sono anche il luogo in cui l’ideologia può riscrivere la storia.

L’artista di economia mista è il prodotto di un’epoca che ha creduto alla sua intemporalità. Era di buon gusto, negli anni 60, pensare che la società avesse raggiunto un punto di sviluppo a partire dal quale poteva integrare qualsiasi forma di contestazione culturale. Tutto era stato fatto in arte, e tutto era stato integrato senza grandi difficoltà a partire dalla fine degli anni 50, l’incapacità dell’arte di far tremare il borghese ne era la prova inconfutabile. Non si trattava che di una illusione. I limiti dell’integrazione della società di economia mista sono quelli dell’economia mista stessa: il ritorno della crisi economica che segna il fallimento di questa filosofia dell’economia, segna anche la fine dell’ideologia dell’integrazione. Il ritorno della crisi oggi annuncia la fine del consenso sociale come del consenso nella cultura. Segna la fine dell’arte di economia mista.

Con il ritorno della crisi, la società di economia mista fondata sul consenso lascia il posto ad un nuovo modello fondato sul confronto sociale e sull’attacco frontale. Questo nuovo modello, che non è infine che una forma più brutale di gestione della crisi, non è altro che il nuovo ordine mondiale, economico, politico e sociale. Comporta diversi aspetti: il primo è la rimessa in causa di tutto ciò che era stato negoziato dal partenariato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (salari, pensioni, assicurazioni, ecc.), prende la forma immediata di una fortissima tensione sociale (licenziamenti brutali, politica del lock out, criminalizzazione del sindacalismo, del diritto di sciopero, del diritto di manifestare, di criticare, di esprimersi, di informare, ecc.), e ricorda a coloro che l’avevano dimenticato in questi ultimi anni che il capitalismo è determinato essenzialmente dallo sfruttamento del plusvalore, che è la chiave di volta attorno a cui si organizza l’insieme economico, sociale, politico e culturale, e che sviluppa e incoraggia solo ciò che va in questa direzione. Il secondo aspetto è l’assestamento dell’ideologia. Questa era consensuale e integrava i valori che le erano ostili, ormai così come le frontiere si chiudono sul territorio per respingere gli stranieri ed escluderli, le frontiere si chiudono anche nella cultura. Le idee estranee ai sedicenti valori occidentali diventano sospette, molte si prestano a sognare un’arte occidentale greca e romana sbarazzata di quanto ha assimilato nel corso dei secoli. Si può così leggere in una rivista sull’arte che «il tradimento che ha dato i natali all’arte moderna è avvenuto ad opera di un innesto che assumeva l’alterità, prendendo in conto le culture straniere all’Europa e alla civiltà europea», sullo stesso tono di reazione si può leggere nella rivista Esprit, sotto la penna di un certo Jean Molino, che «l’arte rischia forse di confondersi con l’accettazione più larga della cultura e si constata che non vi è più alcuna differenza fra i musei delle Belle Arti e i musei etnografici». Attacchi ripetuti che annunciano le esposizioni delle «Arti degenerate» di domani.

Con la fine dell’economia mista, si assiste ad un ritorno dei valori che hanno sempre accompagnato il conservatorismo politico e sociale: la morale, la famiglia, la religione. Il diritto di criticare, nell’impresa e fuori dell’impresa, che era permesso relativamente nei tempi consensuali, non è più di moda oggi. Le idee che scartano dai valori morali si apparentano ormai ai valori sovversivi, e sono trattate come tali, senza riguardo. Con il ritorno della crisi e la fine del consenso, si vedono oggi ricomparire le stesse sinistre figure biasimare le manchevolezze ai valori e ai costumi, denunciare le opere «immorali e scandalose». È in Austria, autentico laboratorio della reazione, che un recente film di Werner Schroeter, Il Concilio d’Amore, dall’opera di Oscar Panizza, è stato confiscato dal governo perché giudicato anticlericale e accusato di aver urtato i sentimenti religiosi dei cattolici tirolesi. In questo stesso paese in cui l’estrema destra è come i partiti politici classici, gli artisti contemporanei sono messi all’indice nei media, denunciati come criminali e pornografi. Un progetto di arte contemporanea a Vienna è abbandonato dopo una virulenta campagna condotta dall’estrema destra. «Noi siamo i primi, dopo gli immigrati, ad essere presi di mira dall’estrema destra», diceva di recente un artista austriaco.

Ciò a cui stiamo assistendo oggi è al tempo stesso il fallimento dell’arte di economia mista e la criminalizzazione della figura dell’artista. Il primo accompagna la fine della società di economia mista, la seconda il ritorno della crisi e dei conflitti sociali, e la fine del consenso. Anche questo è il nuovo ordine mondiale.



[1997-1995]