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Autonomia

Una volta per me la parola aveva tre significati principali.

1. Una rivendicazione politica espressa da un popolo, da una cultura.

2. Una rivendicazione della città greca. Grazie alla costituzione, alle leggi, alla democrazia diretta, che riuniva i cittadini nell’agorà, ciascuno aveva la sensazione di seguire le proprie leggi, di ritrovare nella volontà collettiva la propria tanto che Socrate ha preferito morire piuttosto che sottrarsi alle leggi di Atene.

3. Una caratteristica essenziale della vera morale per Kant. Sottomettendosi all’imperativo categorico della legge morale, la volontà umana non fa che obbedire alla ragion pratica, e la legge morale non è giustificata da nulla di esterno a se stessa, diversamente dalle morali «utilitaristiche» fondate sulla ricompensa e sul castigo.

«Autonomia» è la parola magica dell’ospedale. Il paziente deve farla propria, e poi dovrà andarsene. La scoperta dell’«autonomia», di quello che significa, è spesso vissuta come un trauma. Il «paziente» aspetta, spera nonostante tutto nella guarigione, nel miracolo. A poco a poco capisce di aver sbagliato strada, che vogliono insegnarli a vivere con «quello che gli resta».

Non gli resta che fare proprio questo progetto di vita (di sopravvivenza) concepito per lui e senza di lui, lo voglia o meno. Inizialmente «svezzato» dalle infermiere, deve poi passare all’«autonomia», e successivamente all’«autonomia accelerata». Sicuramente egli trae qualche magro piacere sfuggendo a così tanta assistenza umiliante – ma si rende conto molto in fretta dei limiti di tale autonomia non appena esce dagli spazi predisposti per lui. Come affrontare una scala, una porta troppo stretta? La vita autonoma che deve conquistare è ancora vita? Vale ancora veramente la pena di essere vissuta? Ci si interroga sul modo in cui egli vive l’apprendimento a volte un po’ stacanovista dell’autonomia? Autonomos: colui che si dà la propria legge, secondo l’etimologia greca. Qual è il rapporto con questa esistenza da galeotto?

Pensato spesso a questa storia che raccontano i bambini in Algeria: quando si traccia un cerchio con la benzina intorno allo scorpione e vi si dà fuoco, l’artropode, sentendosi prigioniero, si punge da se stesso dietro il segmento toracico. Vero o falso che sia, questo racconto mi colpisce per varie ragioni. Ricordi di catture notturne di scorpioni in Africa, il Pandinus imperator, che spesso supera i quindici centimetri -: anche in posizione di svantaggio l’animale non esita ad attaccare. Da quando sono in ospedale ho la sensazione che l’autentica autonomia si realizzi soltanto nella decisione volontaria di interrompere il processo biologico. Perché a questa autonomia – semplice autogestione dell’handicap – non si dovrebbe preferire la morte? Una morte sdrammatizzata che significa soltanto: «Spiacente, ma questo gioco non mi interessa, amo troppo la vita per accontentarmi del suo pallido fantasma». Giocate senza di me.


Vita

In fondo ci sono soltanto due concezioni della vita. Una, fondata sul cristianesimo, sembra vedere nella sofferenza il segno della nostra finitudine. La sofferenza, intrinseca alla condizione umana, anche se resta un enigma quanto al suo senso, ci fa partecipare alla Passione di Cristo. Per questa via essa può diventare un’esperienza spirituale.

La concezione greca, o più generalmente antica, sembra interrogarsi sull’essenza stessa della vita da un punto di vista più estetico. Fino a che punto merita di essere vissuta? E se non se ne trae più piacere, come non scegliere di porvi fine? Ricordi delle lettere di Seneca; dell’ammirevole suicidio di Petronio che sottrasse a Nerone il piacere della propria esecuzione; della fine dell’Apologia di Socrate. Condannato a morte, dice a un dipresso così ai propri giudici: «Voi andate a vivere, io vado a morire. Chi di noi ha la sorte più invidiabile? Soltanto gli dèi possono dirlo».


Potere

Ricordo delle discussioni tra Foucault e Baudrillard sul potere. L’ospedale, con la sua gerarchia complessa, la struttura dei suoi servizi, è uno stupefacente luogo di potere e di gerarchizzazione sociale. I pazienti sono poco sensibili a questi problemi. Mi hanno spesso fatto riflettere partendo da dettagli. Osservazione fatta da un infermiere a un aiutante, divisione dei compiti (in ospedale), tono di voce con cui una sorvegliante si rivolge a un’aiuto-infermiera davanti ai pazienti, desiderio di certe infermiere di «piacere» ai sorveglianti riportando loro le proprie osservazioni sulla vita del paziente, le sue frequentazioni, la sua intimità. Provo per tutto questo soltanto malessere. Ingenuità di credere che l’ambiente ospedaliero sfugga alla logica sociale.


Dicerie

Edgar Morin ne ha analizzato a lungo il meccanismo. A fianco dei comunicati e delle trasmissioni ufficiali, è stupefacente vedere a che punto la diceria è un modo privilegiato della comunicazione di non-informazioni in ospedale.


Disinteresse

Il mio disinteresse per l’esistenza è così profondo che devo trovare ogni giorno delle ragioni per vivere. Spesso devo fare uno sforzo per leggere i giornali, ascoltare la radio. Mi sono spesso svegliato con il rimpianto di essere ancora vivo.


Provvisorio

Certezza che il mio stato è provvisorio: o la guarigione o la morte. Ricordo di una discussione con un infermiere di notte dell’ospedale sulle conseguenze disastrose dei suicidi mancati.


Accidente

Tutti, qui, hanno visto la propria esistenza precipitare a causa di un accidente senza importanza.


Kant

Nella Critica della ragion pura Kant riassume il proprio interrogarsi in tre domande:

Che cosa posso sapere?

Che cosa devo fare?

Che cosa mi è permesso di sperare?

Egli afferma che queste tre domande sono riassumibili in una sola: «Che cos’è l’uomo?», domanda che è alla base della sua antropologia dal punto di vista pragmatico.

Dopo l’archeologia dei sogni passati, il presente del trauma, la rieducazione funzionale mi sembra a volte un’antropologia della speranza.



[Frammenti della vita offesa, 1999]