Brulotti

Giro turistico

Bernard Charbonneau
 
Il cittadino detesta la città tanto quanto l’adora. Non può lasciarla, ma deve uscirne — ad ogni costo. Parte ma, appena partito, deve farvi ritorno. Il turista fugge dalla città. Ma siccome la porta con sé, fin nel deserto, il suo giro lo riporta inevitabilmente al punto di partenza.
Nella misura in cui rompe i suoi legami con il cosmo, l’uomo parte alla deriva, alla ricerca di una riva. Per i primitivi e i contadini nulla è più estraneo dell’idea di viaggiare. Coloro che hanno attraversato paesi ignorati dal turismo sanno fino a che punto i loro abitanti siano sorpresi nel vedere un uomo che si sposta per il proprio piacere. E per non essere sospettati di follia o di spionaggio, bisogna inventare qualche falsa ragione di interesse. All’origine l’uomo cambia luogo solo perché costretto da una necessità superiore: per fuggire da un nemico, per arricchirsi, o per obbedire all’ordine di un dio. Il viaggio si materializza quando le condizioni economiche e sociali permettono all’individuo di rompere col proprio ambiente. Esso nasce con la ricchezza, la sicurezza delle strade, la curiosità e la noia: nelle classi superiori delle popolazioni più civilizzate. Forse il primo turista fu l’imperatore Adriano. Al contrario, il gusto dei viaggi decresce con la miseria e l’insicurezza. L’epoca delle invasioni non è mai quella del turismo; allora l’individuo si aggrappa al suolo per sopravvivere, dove viene spazzato via come un relitto dalla marea delle invasioni. Per il Medio Evo, il viaggiatore è il pellegrino o il trafficante.
Il viaggio compare con gli umanisti; ma non è ancora il nostro. Essi andavano di rovine romane in rovine romane, di biblioteca in biblioteca; e, sballottati dai loro muli, attraversavano le Alpi senza vederle. Il turismo comincia nel XVIII secolo, e dall’Inghilterra conquista l’Europa. Il viaggio non è più il fatto di un aristocratico, diventa quello di un’intera classe sociale, la borghesia, ed infine delle masse popolari. I suoi progressi sono legati a quelli sulla sicurezza assicurata dall’organizzazione sociale, all’accresciuta rapidità e potenza dei mezzi di trasporto, all’introduzione delle vacanze. A partire da un certo livello, il turismo diventa un fatto sociale; al di fuori d’ogni ragione, l’individuo si sposta perché deve fare come gli altri. Ma la comparsa del turismo è dovuta, oltre al progresso tecnico, alle conseguenze umane che esso comporta: è un cataclisma spirituale — qualcosa in profondità — a gettare gli uomini sulle strade.
Partire... Nostalgia di un aldilà: di un mondo migliore, ma anche disgusto della realtà. Forma moderna dell’inquietudine, il viaggio è, nello spazio, la replica della costante peregrinazione dello spirito individuale: della sua ricerca di trascendenza, e della sua fuga davanti a se stesso. Il luogo in cui vive è solo quello della sventura o, tutt’al più, della noia; lasciandolo non ha nulla da perdere; e anche se in questo altrove egli ritrova la stessa sventura e la stessa noia, avrà sempre avuto il divertimento passeggero della partenza e il vuoto del trasporto. Ma siccome il cambiamento diventa anch’esso quotidiano, non rimane che cambiare ogni volta più in fretta — fino al momento in cui il viaggiatore non è più che un passeggero accasciato che russa sul comodo schienale di un aereo lanciato a mille chilometri all’ora.
Questo nuovo nomadismo non ha più nulla a che vedere con quello antico, radicato nel ciclo del percorso e delle stagioni. L’individuo moderno fugge in avanti, cercando di ritrovare nello spazio il tempo che divora altrove. Gli occorre «del nuovo, non fosse più al mondo». In materia di viaggio è eclettico, e si muove indifferentemente dalle foreste amazzoniche ai ghiacciai artici. Non gli basta più la sua patria, crede di poter partecipare al mondo: al polverio ghiacciato del blizzard canadese, come al sole impiastricciato del mercato di Cadice. In realtà, più passa e meno penetra. Vittime dei nostri stivali delle sette leghe, saltiamo di aeroporto in aeroporto, sempre gli stessi: ma lasciamo sotto i nostri piedi tutte le ricchezze della terra. Giacché, se i mezzi dell’uomo si sono prodigiosamente accresciuti, l’essere umano non è cambiato: possiede solo una vita. E come in altre epoche, non basta una esistenza per conoscere veramente il proprio cantone perché bisogna avanzare passo dopo passo. E lasciarlo per un altro significa perderlo. Il vero viaggiatore sa che fugge dalla propria patria solo per scoprirne una nuova: perché all’individuo moderno nulla è dato. Per lui il viaggio è una ricerca e l’inizio di ogni tappa uno sradicamento. Ti sei detto: è qui che vorrei vivere... e ti sei costruito una casa. Ma questa è una scelta, e allora non vedrai mai il lago Baïkal.
Il turista non partecipa, perché non ha il tempo e perché lo sforzo fisico e soprattutto quello della libertà lo ripugnano. Non è che un viaggiatore per cui il viaggio è solo uno spettacolo ridotto a monumento o a sito classificato. Una tale veduta non è altro che lo sfondo di un quadro. All’inizio del secolo si diceva: «È bello come uno scenario teatrale!...». Grido accorato significativo. Lo spettacolo deve compensare ciò che ha di esteriore attraverso ciò che ha di barocco e stupefacente, ma siccome lo spettatore vuole il brivido senza rischio, questa ricerca del sorprendente è il vano inseguimento di un’ombra. Quando la sofferenza o il pericolo sono troppo grandi, il brivido diventa intollerabile, ma se non vi è più pericolo non vi è più sapore, ed il turista è condannato a ricercare sapori visuali sempre più forti. Da qui la scalata del «pittoresco» e dell’esotismo che caratterizza la breve storia del turismo.
Quando il viaggio era una impresa rischiosa e faticosa, i viaggiatori non gustavano affatto i «grandi spettacoli della natura». Ma al turista occorre un sempre maggiore «pittoresco», fatto di sorpresa e accidenti: il gusto moderno del pittoresco si unisce a quello del sensazionale. Servono dei laghi nelle terre o delle isole nei mari — in mancanza di piccole isole, degli isolotti politici come il Liechtenstein o l’Andorra. Necessitano dei contrasti, una città in marmo costruita sull’acqua come Venezia, oppure un Eden sotto l’inferno come Napoli ai piedi del Vesuvio. Il pittoresco è rottura: roccia, canyon, cascata. La vallata del Reno con le sue gole e le sue rovine riassume abbastanza bene il pittoresco puro secondo i criteri dell’era romantica, ma le manca la cataratta del Niagara. Più la civiltà si organizza, più il pittoresco deve esserlo; ci occorrono dei Congo che precipitano dal Monte Bianco, ci occorre la luna — e l’avremo.
L’equivalente umano del pittoresco è l’esotico. Le società antiche, apparentemente meno pluraliste della nostra, consideravano assurdi ed immorali i costumi che non erano i propri. Al contrario, per il turista moderno, più sono strani e più sono interessanti. A condizione beninteso che questa stranezza non sia minacciosa: Cook non ci propone lo stesso di assistere a feste che comportano la prostituzione o il crimine rituale. Così l’esotismo rimane superficiale. Il turista si disinteressa di ciò che è profondamente originale — quando non lo odia — e di ciò che è profondamente comune agli uomini: la loro vita quotidiana. Quanto alla «politica», gli fa paura. Egli assomiglia a quegli europei dell’epoca coloniale i quali, rifiutando di vedere negli indigeni delle persone originali o propri simili, rifiutavano loro al tempo stesso l’autonomia e l’assimilazione.
Come il pittoresco, e forse anche di più perché la realtà degli uomini è ancora più minacciosa di quella delle cose, l’esotico è spettacolo e non partecipazione. Non si tratta di vivere nei borghi dell’Andalusia, così belli e vivi, ma così poveri. D’altronde un turista non vive, viaggia; appena messo piede a terra, il rumore del clacson lo richiama all’ordine. Quindi il turismo fa poco per riavvicinare le popolazioni. Il turista è chiuso dall’organizzazione e dalla propria debolezza in un ghetto di uffici d’informazione, di hotel e di negozi, di monumenti e di ninnoli. Il turismo e la vita reale non si mescolano più di quanto facciano l’olio e l’acqua.
Il gusto dell’esotismo, dell’originalità dei costumi e del folclore, si diffonde nel momento in cui la terra si uniforma; esattamente perché diventa uniforme. Ed il turista fa precipitare questo livellamento. Orde di ricchi invasori sommergono i paesi più belli, perché più poveri. Escono in uniforme, al posto delle mitragliatrici hanno macchine fotografiche, e le loro munizioni sono i dollari. Fucilato dalle telecamere, il Cristo della settimana santa di Siviglia scompare dalla realtà, proiettato sul piano della commedia; sommersa dal turismo, la Festa di San Firmino diventa una fiera franco-americana che i contadini navarresi un giorno contempleranno. In un paese vergine il turismo è uno stupro, quasi consapevole di esserlo. Oggi la bellezza delle danze non basta più, ci vuole in più «l’autenticità» della miseria, e le modelle di Dior si fanno fotografare davanti alle mura fatiscenti di Nazaré. Allora per guadagnarsi da vivere alcune popolazioni si danno allo spettacolo; e il turista che crede di cogliere una vergine s’intrattiene solo con una prostituta.
Il turista ha il gusto del sorprendente, ma detesta essere sorpreso. I viaggiatori del passato dovevano sopportare il disagio e l’imprevisto, e soprattutto dovevano dare prova di iniziativa, mentre oggi si vuole conforto e di conseguenza organizzazione. Ma la comodità che ci dispensa dallo sforzo del viaggio non ci consente di penetrare nel mondo estraneo che è la sua ragione di essere. L’automobile, che ci permette di spostarci facilmente, d’altra parte ci rinchiude. Dietro i vetri della scatola magica, il paesaggio sfila apparentemente a piacimento del viaggiatore. Non è difficile proseguire in avanti, ma fermarsi. Laddove il pedone si ferma naturalmente per fare una curva, laddove il ciclista deve dare un colpo di freni e scendere dal sellino, l’automobile continua la sua corsa. Se ci si fermasse? ― Troppo tardi: il sito intravisto è già stato inghiottito dal passato. L’automobile che ci sposta ci immobilizza pure, col culo sprofondato nei suoi cuscini. Teoricamente siamo liberi di scegliere i nostri itinerari, ma la vettura preferisce l’asfalto; e se per caso la lasciamo, essa ci obbliga a tornare da lei. Così, grazie all’auto, certi massicci dei Pirenei sprovvisti di strade sono meno frequentati che all’epoca di Russel o di Chausenque. Ma domani il bulldozer permetterà ai moderni centauri di invadere ovunque la montagna, senza rischiare di sciupare i loro delicati zoccoli di gomma.
Il viaggio è ancora un bisogno vitale dell’individuo moderno, o soltanto un «lasciarsi andare»? Ci sposteremmo, se non occorresse usare soltanto i nostri pneumatici su strade impervie? Partiremmo se Cook venisse a proporcelo? L’organizzazione dei viaggi risponde nel contempo al bisogno e all’incapacità del viaggiatore. Il suo scopo è permettere al turista di uscire di casa senza uscire dalle sue abitudini, di dispensarlo dal disagio per eccellenza: la scelta e l’incontro con l’estraneo. L’agenzia presenta al suo cliente qualche luogo comune a prezzo fisso: quarantotto ore a Londra, otto giorni in Spagna, il giro del mondo in un mese: Nizzapalmareblu, Parigimodellevendôme, Kenyarinocerosafari. Tutta la ricchezza del mondo si riduce a qualche «sito pittoresco» il cui valore viene matematicamente espresso dalle stelle della guida Michelin: se per caso essa assegnasse le tre stelle agli immondezzai di Aubervilliers, si può star certi che la folla vi si precipiterebbe. Fatta la sua «scelta», il viaggiatore non deve far altro che abbandonarsi. Una volta lanciata, la macchina infernale lo condurrà di sito in sito fino al suo punto di partenza, senza che egli abbia conosciuto i soli istanti in cui un viaggiatore potrebbe imparare: l’arrivo sotto la pioggia nell’albergo sconosciuto, il girovagare in una città straniera, lo smarrimento o la noia. L’ideale è la crociera; come il villaggio su tela, fa spostare il viaggiatore da un capo all’altro del mondo senza farlo uscire da un ambiente sociale chiuso. Fra due balli, fa una incursione motorizzata a terra. Allo scalo di Santa Cruz alle Canarie va a vedere la vallata di Orotava, e da queste isole riporta l’immagine un po’ insipida di un giardino pubblico tropicale sperduto fra le bananiere. Non saprà mai che al di sopra delle nuvole i grandi pini trionfano nella luce, e che ai suoi piedi si immergono cuffie nere che l’onda ricama d’argento. Le autentiche isole Fortunate si danno solo a coloro che imboccano i percorsi di traverso.
Con la società capitalista, il turismo è diventato una industria pesante. L’agenzia di turismo fabbrica alla catena qualche prodotto standard, il cui valore è quotato in Borsa. Quest’anno, Cook ha venduto 1.642.723 Chiardilunaveneziana: tre stelle (l’equivalente di una miniera che produce dieci milioni di tonnellate di carbone per l’Italia), e soltanto 10.643 Solidisardegna: una stella. E Cook non è che l’antenato di Intourist: l’agenzia capitalistica fonda la sua ricerca di profitto sul turismo di massa e organizzato; all’agenzia di Stato non resta che sfruttarlo a fini di potere. Perché l’organizzazione turistica, se serve a guadagnare valute straniere, serve soprattutto a mantenere il turista, straniero o nazionale, nel cerchio che gli viene stabilito. Così, all’epoca di Hitler, la Kraft Durch Freunde organizzava crociere che permettevano ai tedeschi di dare un’occhiata allo straniero senza uscire dal Terzo Reich.
Il turista vuole il viaggio, ma non vuole pagarne il prezzo, che è sforzo di immaginazione, rottura delle abitudini. Quindi, dispensandolo dal pagare questo prezzo, l’organizzazione lo dispensa dal viaggio. Egli può guardare, dato che non agisce non penetrerà mai in questo universo incantato che gli scorre sotto gli occhi. Non esce mai da se stesso, né dal suo mondo; trascina con sé dappertutto la stessa automobile, lo stesso palazzo, lo stesso menù. Tutto ciò che crede di cogliere perde ben presto i suoi colori originali. Dappertutto egli ritrova gli stessi connazionali e gli stessi traffici ossequiosi. In fondo, perché partire se poi si ritrova la stessa cosa? ― L’ultima possibilità del viaggiatore non è più di saltare fino a Sidney, ma di lasciare la grande strada alla porta di casa propria. A che serve fuggire quando si è presi ovunque? Sono vicini i tempi in cui l’aereo per Honolulu non avrà più significato del metrò di mezzogiorno. Turismo? Esattamente un circuito chiuso che riporta il turista esattamente al suo punto di partenza. O piuttosto, ormai, uno spostamento sul posto.
Così, allo stesso interno della grande corrente turistica si è sviluppato una contro-corrente per un autentico contatto con la natura. L’epoca dei palazzi è quella dei camping; ma all’origine questo è opera di una elite del gusto e non del denaro. Il camping è l’invenzione di un piccolo numero di persone appassionate della natura e della passeggiata a piedi o in bici, che lo praticano in tutta libertà perché la società l’ignora. La maggioranza non lo pratica, per mancanza di ferie pagate, ma anche perché questi scapigliati, che non hanno la scusa della necessità, suscitano solo lo scherno. La società non ha ancora fatto del camping un valore, ovvero una industria. Poi il camping si generalizza, e la società lo organizza, cosa che lo diffonde di più, rendendo l’organizzazione tanto più necessaria; il che gli fa perdere, con la rudezza e la libertà, la sua ragione d’essere: poiché i terreni del camping equipaggiati sono pure obbligatori. Sempre più il campeggiatore perde, con la scelta del luogo, la solitudine. Il camping perde il proprio interesse, non è che un luogo di soggiorno a buon mercato, talvolta una bidonville di tela, dove il piccolo borghese ricostituisce il proprio universo familiare su scala ancora più ridotta. A fianco del suo villino, custodisce la sua auto e installa Médor, e sonnecchia in poltrona davanti alla porta di casa trapanato dal suo transistor. Ma siccome i muri sono ancora più sottili, e lo spazio più ristretto, l’individuo deve difendere ancora più aspramente la sua intimità.
Laddove i pochi cercano la solitudine nella natura, i molti cercano la vita in società. E il club Polinesia vende loro ormai tutti i piaceri della vita tribale in un’isola deserta. L’avventura, senza gli inconvenienti del naufragio: Robinson può affondare, è assicurato. Può condurre la vita primitiva con tutte le piacevolezze del confort moderno: depositando il vostro denaro alla banca del villaggio, vivrete per otto giorni senza denaro, il tutto per mille franchi! Come nell’Eden l’uomo si ritrova nudo sotto il sole, ma è un Eden di carta colorata che puntellano i retroscena di calcoli implacabili. Domani lo Stato nazionalizzerà l’impresa di Rothschild e, se occorre, corsi serali a base di buona morale conterranno in sani limiti l’edonismo anarchico dei nuovi polinesiani. Nell’attesa, ammucchiando i campeggiatori a migliaia su terreni brulli disseminati di detriti, il camping volge in universo concentrazionario. Il circuito del campeggiatore è a sua volta chiuso. Si ritrova anche lui al centro di quella periferia industriale da cui aveva la pretesa di uscire.
 
 
[trad. da Le Jardin de Babylone, 1969]