Brecce

Marinus Van der Lubbe l’incendiario del Reichstag

 

Il 27 febbraio u.s., un incendio scoppiò nell’aula delle sedute del Reichstag, che danneggiò alquanto l’interno dell’edificio.
Quell’incendio, scoppiato nel fragore di una campagna elettorale in stile fascista, con cui il partito di Hitler mirava a fabbricarsi una maggioranza parlamentare da cui ricevere la investitura dittatoriale, avrebbe potuto essere veramente il segnale della riscossa dei lavoratori, non solo, ma anche dei vari e ancor forti partiti di opposizione: socialdemocratici e comunisti.
Fu, invece, il pretesto ad un intensificato terrore governativo. I fascisti di Hitler lo presentarono per quel che avrebbe potuto essere gridando che «i comunisti avevano pronte le squadre rosse per prendere in ostaggio le donne e i bambini dei capi Nazisti e farsene scudo nella guerra civile imminente»... che avevano «meditato di avvelenare i generi alimentari... incendiare i granai di tutta la Germania...».
In verità i comunisti non pensavano affatto a queste cose, né a scatenare la guerra civile. I socialdemocratici vi pensavano ancor meno.
Gli uni e gli altri si diedero da fare a denunciare l’incendio come opera di provocazione dei fascisti di Hitler, e Marinus Van der Lubbe – comunista dissidente olandese – arrestato frattanto quale autore confesso dell’incendio, come un agente provocatore.
La denunzia fu largamente diffusa, e quanti sanno come siano falsi i fascisti, come siano lontani dal meditare un atto di energica resistenza comunisti e socialdemocratici, si spiegano come abbia potuto avvenire che anche qualche giornale anarchico, più ansioso di prendere una posizione che di andare in fondo alla superficie delle cose, abbia potuto ospitarla.
Tra questi ci fu il Libertaire di Parigi, il quale, tuttavia, in un numero successivo faceva posto alla seguente lettera chiarificatrice:
 
«Cari Compagni,
In merito all’articolo pubblicato nell’ultimo numero del Libertaire circa l’incendio del Reichstag, e più specialmente per quel che riguarda la nota redazionale che tratta Van der Lubbe come un agente provocatore, noi crediamo doveroso comunicarvi quanto segue:
Noi possiamo garantire della sua integrità. Da nessuno che lo conosca può essere messa in dubbio la sua sincerità
1. Se Van der Lubbe è veramente l’autore di quell’attentato, egli lo ha compiuto come un atto di terrore individuale, paragonabile agli incendi di conventi in Spagna, agli attentati nella vecchia Russia, ecc.
2. È accertato che egli fu veramente l’autore dell’incendio. In occasione di una visita del capo della polizia politica olandese, sono stati esibiti a Leida, a compagni nostri, i documenti originali della polizia berlinese, e secondo coloro che sono stati interrogati da quel poliziotto, non v’è dubbio possibile intorno alla sua identità.
È perciò un mero caso che i seguaci di Hitler ne abbiano fatto un pretesto pei loro atti.
Van der Lubbe era un semi-invalido. Doveva vivere con una pensione di sette fiorini e mezzo la settimana, ciò che non poteva bastargli, tanto più che, essendo perseguitato dalla polizia, non trovava più neanche chi gli desse alloggio. Voleva tornare in Germania prima che scadesse il suo passaporto. Pare che partendo abbia detto: «Sentirete parlare di me». Egli era impaziente dell’inazione del proletariato e parlava sempre della necessità dell’azione per risvegliarlo.
L’aggruppamento dei comunisti internazionali è un gruppo di militanti che, pure essendo marxisti in teoria, hanno ripudiato il parlamentarismo, il centralismo e l’azione sindacale. Fanno propaganda per l’azione nelle fabbriche e nelle officine, coll’intento di costituire consigli di operai liberi, a somiglianza di quelli che sorsero in Russia nel 1905 e nel 1917 e in Germania al tempo di Max Hölz ecc. Si chiamano internazionali in opposizione alla III Internazionale che cooperava coi fascisti di Hitler contro l’occupazione della Rühr e il trattato di Versailles.
Questo gruppo pensa che l’atto di Van der Lubbe sia un atto di disperazione, politicamente privo d’ogni valore. Ma si schiera contro l’accusa lanciata dai bolscevichi, che Van der Lubbe possa essere un agente provocatore. Di questo parere si sono manifestate anche le organizzazioni libertarie olandesi aderenti al B.I.A. (Ufficio Internazionale Anarchico) nella loro riunione del 12 marzo scorso. Questa riunione teneva ancora conto della possibilità che non si trattasse di Van der Lubbe, ma questa ipotesi è divenuta poi insostenibile, dinanzi alle rivelazioni del poliziotto berlinese. Bisogna notare ancora che vi sono gruppi anarchici e comunisti di estrema sinistra i quali non sono d’accordo con noi sulla opportunità dell’atto, nel senso che essi lo considerano come un atto indispensabile e degno di essere imitato.
In conclusione, noi difendiamo Van der Lubbe dall’accusa di agente provocatore, pur riconoscendo che il momento dell’attentato era mal scelto. L’atto – che noi riteniamo una protesta contro il parlamentarismo – era male scelto.
Saluti fraterni
Per la Redazione: De Warens Neder»
 
Se il giudizio dei compagni olandesi di Van der Lubbe è discutibile – e lo diviene non appena si consideri il suo atto come una protesta contro la sanguinosa frode elettorale cui supinamente si prestavano in quel momento e socialisti e comunisti – la loro difesa della sua integrità rivoluzionaria è documentaria, decisiva, e fa giustizia delle calunnie interessate dei suoi denigratori.
E una volta irrefutabilmente stabilita la buona fede dell’attentatore, egli stesso diventa il migliore interprete dell’atto che ha compiuto e che rivendica pienamente.
Noi non abbiamo il testo delle sue dichiarazioni; ma abbiamo la descrizione di un’intervista avuta con lui, in prigione, dal corrispondente berlinese della Tribune de Genève che il Risveglio riporta per intero e da cui traiamo i passi più salienti:
 
«Van der Lubbe (24 anni, statura m. 1,80, peso 90 kg) non è un malfattore ordinario. Confessa, ben meglio, è orgoglioso di quanto ha fatto come di una prodezza. Ne parla come un autore parlerebbe del suo ultimo libro o un corridore del suo nuovo record. Van der Lubbe afferma di aver fatto il colpo tutto solo: persiste a non voler indicare i suoi complici. Il solo scopo dell’inchiesta che, senza di ciò, sarebbe già terminata, è di strappargli i loro nomi. Il giudice istruttore ha fatto sapere che l’accusa portata contro i social-democratici la sera stessa dell’incendio, d’essere stati in rapporto con Van der Lubbe, non sarebbe mantenuta...
Chiedo a Van der Lubbe: – Perché l’avete fatto?
Van der Lubbe: – Il mondo nuovo viene, ma non abbastanza rapidamente. Il mondo vecchio se ne va: bisogna sospingere ciò che se ne va.
– Con l’agire volevate dare un esempio?
Van der Lubbe accenna di sì col capo.
– Ma non siete riuscito che a fare torto a voi stesso come al vostro partito.
Van der Lubbe riflette un momento, poi dice:
– Vi sono cose che nessuno pare comprenda, né i social-democratici, né i comunisti. È il risultato finale che conta.
Cosa vuol dire? Che si trattava di affrettare la marcia degli avvenimenti e che al nazional-fascismo doveva succedere il comunismo?
– Perché avete scelto la Germania come teatro della vostra azione?
– Perché la Germania è il cuore dell’Europa.
– Non avete paura del castigo?
Van der Lubbe con una smorfia sdegnosa e appoggiandosi sulle sue mani lunghe e regolari risponde: – Io non ho paura. Cosa mi può mai capitare? Mi rinchiuderanno per qualche anno, poi ci sarà la guerra e verrò rilasciato, e anche se non fossi liberato, poco m’importa; non ho gran cosa da perdere.
– Almeno deplorate ora quel che avete fatto?
– No, non si deve mai deplorare quel che si è fatto. Tutto ciò che deploro è che la cupola del Reichstag non sia crollata. Una cupola è sempre qualcosa di simbolico.
Van der Lubbe sospira, poscia ride, d’un riso gutturale, quasi silenzioso.
– Ricevete lettere in carcere?
– Sì, ne ricevo: ma quelle di mio fratello mi arrivano con molto ritardo, perché contengono troppa filosofia sul mio atto.
Non è abbattuto, tutt’altro. Gli dico:
– Se aveste incendiato il Karl Liebknecht haus invece del Reichstag, il vostro caso sarebbe meno grave.
Il mio interlocutore si offende.
– Se volete beffare, scegliete un altro!
Ma il commissario lo interrompe:
– Suvvia, Marinus, torniamo a Neukölln, alla Alte Welt.
Van der Lubbe avrebbe, in un asilo di Neukölln, tenuto discorsi incendiari.
– Attento! replica Van der Lubbe, l’Alte Welt (vecchio mondo) è forse già la Neue Welt (nuovo mondo).
Van der Lubbe discute aspramente, riflettendo a ogni parola, badando al senso esatto e ai sinonimi, interrompendo continuamente i suoi interrogatori.
 
Codesto olandese, che ha vissuto all’aria aperta, percorrendo a piedi la Cecoslovacchia, la Polonia e l’Ungheria, vivendo del denaro che gli procurava la vendita di cartoline postali illustrate, è in verità un tipico slavo, pesante, sognatore, pieno di contraddizioni, infarcito di teorie, impetuoso e nostalgico.
Quale l’ho visto e inteso, duro fatica a credere che abbia agito per ragioni diverse da quelle di ordine idealista che invoca. Con la vita frugale che conduceva da anni, siffatto filosofo-vagabondo non aveva bisogno di nulla. Non beve, non fuma, riflettendo senza cessa sulla Neue e Alte Welt, espressione che ripetono continuamente le sue labbra.
L’ho giudicato, prima di conoscerlo, un abbrutito e un povero di spirito, un analfabeta balbettante frasi incoerenti. Ma bisogna sentirlo parlare per farsi una giusta idea di Van der Lubbe. È, secondo me, un uomo di un’intelligenza incontestabile, messa al servizio d’idee fisse che, solitario e abbandonato a se stesso, non ha potuto rettificare a tempo al contatto d’altri».
 
Il signor W. Düsberg, che ha scritto queste pagine, è naturalmente libero di non comprendere le idee fisse che guidano, per la sua stessa testimonianza, gli atti e la condotta di Van der Lubbe; ma ciò non vuol dire che questi siano inspiegabili o incomprensibili.
Dal momento che tredici anni di democrazia parlamentare sboccavano in Germania, come già altrove, nella dittatura fascista; dal momento che il suffragio universale finiva così miseramente in quella parodia di elezioni di cui egli era testimone, senza che la democrazia parlamentare e la moltitudine degli elettori insorgessero a difesa di quelle istituzioni, quale garanzia di libertà, di giustizia e di progresso, potevano più offrire ai popoli il parlamento e il suffragio universale? E se appariva ovvio, attraverso la fila ininterrotta di tradimenti e di dedizioni parlamentari del passato, e attraverso l’ignavia del presente, che quegli istituti non erano che un trabocchetto scandaloso teso all’ingenuità e alle paurose superstizioni del popolo, non diventava rigorosamente logico che la rivolta contro quel passato di ignominia e contro quel presente di terrore, incominciasse col demolire il simbolo più augusto dell’inganno, l’edificio del Reichstag, tra le cui pareti s’era per tanti anni fatto mercato osceno della libertà, del benessere e del destino del popolo, e che avrebbero tra breve ospitato i mammalucchi di Hitler “eletti”, oltre che con la frode, con la violenza, l’intimidazione e la strage?
L’atto di Van der Lubbe voleva insomma, dire ai lavoratori di Germania: – Il Reichstag, che non ha mai rappresentato la vostra volontà, sta per diventare, con queste elezioni di sangue, strumento di negazione assoluta della vostra volontà, ed io ne distruggo l’edificio perché la truffa non si consumi.
Il ragionamento è veramente tale da provare l’alto grado di intelligenza di Marinus Van der Lubbe, meglio ancora della testimonianza del signor Düsberg.
 
 
[L’Adunata dei Refrattari, anno XII, n. 20, 20 maggio 1933]