Contropelo

L'idra tecnologica

 

Come fare per iniziare a parlare di un argomento complesso come la tecnologia? Analizzarla significa analizzare la totalità di questa civiltà moderna: non solo le sue prospettive industriali; non solo gli apparati e le strutture; non solo la gerarchia del potere e della specializzazione che questi apparati introducono nei rapporti umani; non solo gli «umili oggetti» che hanno scosso il nostro modo di vivere fin nelle sue più profonde radici, che hanno scosso anche i nostri sogni e i nostri desideri, il modo in cui vediamo noi stessi e il nostro mondo.
Cos’è la tecnologia? Quando si pone questa domanda, ci si confronta con la religione moderna — l’universale feticismo dei tecnici. La mistica tecnologica è una giustificazione del suo mondo ed una spiegazione di quella “umanità” che la serve. Criticarla, voler andare oltre, significa dire una bestemmia contro la liturgia, paragonabile alla proposta di vivere senza polmoni. Non si può «sbarazzarsi della tecnologia», non si possono «distruggere tutte le macchine»; la nostra sopravvivenza dipende da queste. Comunque, la tecnologia è sempre stata con noi. Qualcuno ha detto che quando una scimmia rovista tra le formiche di un albero con un ramo, anche quella è tecnologia.
Che argomento sfuggente, questa tecnologia, che sembra essere ogni possibile manipolazione di braccia e di attrezzi, ogni forma di attività! Se tutte queste attività sono forme di tecnologia, allora non esiste problema, solo l’incomprensione dei pessimisti e la stupidità luddista che vorrebbe spezzare i meccanismi salva-lavoro che rivoluzionano la nostra vita, Ogni cosa sta cambiando, eppure resta uguale. E sgobbare su un computer sembra essere solo un altro modo per rovistare tra le formiche di un tronco!
La tecnologia è un dato di fatto, non ci possono essere dubbi in merito. Essa definisce il nostro terreno e crea i termini del discorso. È invisibile perché è onnipresente. Le parole e le risposte ne sono modellate, il linguaggio ne è contaminato. Dal momento che «è sempre esistita», si può discutere tutt’al più di un particolare stile o di un componente della tecnologia, da usare o da scartare in base ai criteri della mistica tecnologica: efficienza, velocità, compatibilità con il resto della mega-macchina. Certamente, nessuno nega che altre forme di esperienza siano state vissute e che diverse nozioni di rapporti umani con la natura siano esistite, ma tutti questi modi e queste concezioni sono da troppo tempo dimenticati. È evidente che erano difettosi, antiquati, sottosviluppati, o al limite superati dal progresso. Dopo tutto, non si può ritornare al passato. E il passato — non è forse soltanto un’altra versione del presente?
Quando il capitalismo industriale era in crescita, lo spirito imprenditoriale venne visto come «la natura dell’uomo» ed anche il mondo indigeno dei primitivi dovette avere un’altra forma di libero mercato in cui gli imprenditori erano in competizione per «beni e servizi». Più tardi, man mano che la meccanizzazione si faceva largo, l’uomo venne visto come «utilizzatore di attrezzi» — homo faber — ridotto ad un solo tratto, le sue tecniche, mentre le sue complesse attività culturali e linguistiche, i simboli e le mitologie, erano ignorate. Era talmente radicata questa concezione della natura umana che, quando nel 1879 furono scoperte le caverne dipinte di Altamira, vennero denunciate come una beffa dagli archeologi in quanto i cacciatori dell’Età del Ghiaccio — secondo questi esperti — non potevano avere né il tempo libero sufficiente (essendo troppo impegnati nella «lotta per la sopravvivenza»), né la creatività (giacché la raffinatezza è data solo da complessi apparati) per creare una simile meravigliosa opera d’arte.
Ora, il senso comune è di confondere una parte con il tutto, di guardare l’umanità come un aggregato di tecnici innati. Questa ottica ignora i complessi rituali, i linguaggi, i mimetismi, l’onirismo dei primitivi e preferisce fissarsi sulle loro tecniche, considerando ogni evoluzione della cultura, ogni «progresso», come funzioni proprie delle rivoluzioni nelle attività tecniche. Guarda ai loro numeri, ai loro recipienti, ai loro attrezzi in legno come a delle forme semplificate di cibernetica, di contenitori nucleari, di bisturi al laser. La Tecnolatria richiede che ogni cosa venga chiamata con il Suo nome.
 
Un modo di vita
Ma identificare la tecnologia semplicemente con strumenti e macchine, o sostenere che è tecnologia ogni sforzo fisico verso la creazione di oggetti materiali, significa non averne compreso il senso e limitarsi a sfiorare l’opprimente realtà che la vita è cambiata totalmente, che le strutture tecnologiche hanno trasformato i rapporti umani completamente, ricreandoli a propria immagine.
Definire tecnologia il modo in cui gli esseri umani compiono qualsiasi azione — dal raccogliere un frutto a lanciare un missile nello spazio — affermare che una società in cui ogni sfera dei tentativi umani è dominata dalla tecnologia è sostanzialmente simile ad una società che possiede tecniche limitate, significa occultare il fatto che la tecnologia è un modo di vita, uno specifico tipo di società. Ecco come funziona la coscienza tecnocratica, che oggettivizza e amputa il mondo in modo tale che da un lato la tecnologia sia vista come onnipresente e universale, mentre dall’altro venga reificata in un oggetto esterno ai rapporti sociali e perciò «neutrale». (Che è poi il motivo per cui la maggior parte delle discussioni sulla tecnologia si concludono con inventari e con analisi frammentarie su strumenti, macchine e tecniche, appunto perché la coscienza tecnologica opera in questo modo).
Così come il Capitale è stato confuso con le strutture industriali e la ricchezza accumulata, quando in realtà è molto più di fabbriche e denaro — perché è fatto di rapporti sociali — allo stesso modo la tecnologia è stata confusa con macchine e strumenti; mentre è una forma di dominio qualitativamente differente — fatta di rapporti sociali. La tecnologia è Capitale, il trionfo dell’inorganico, l’umanità separata dai suoi strumenti e universalmente dipendente dagli apparati tecnologici. (I critici della tecnologia vengono comunemente accusati di opporsi allo strumento, quando in realtà è la tecnologia moderna, durante la meccanizzazione della vita, che ha distrutto gli strumenti degradando in tal modo l’attività umana).
È la irreggimentazione e la meccanizzazione della vita, la proletarizzazione universale dell’umanità e la distruzione della socialità. Non si tratta di semplici macchine, né di sola meccanizzazione e irreggimentazione. Questo genere di fenomeno non è nuovo nella storia, ciò che è nuovo è il fatto che queste funzioni siano state progettate e incorporate in forme organizzate che dominano ogni aspetto della nostra esistenza.
 
Abbatte ogni «muraglia cinese»
Una fra le miriadi di attività svolte dall’uomo è l’uso di attrezzi e di macchine semplici per ottenere un risultato. Ma fino alla comparsa della moderna civiltà tecnologica, le tecniche costituivano solo parte di un insieme organico. Un tempo le tecniche venivano applicate solo in alcuni ambiti, ristretti e limitati. Persino nelle attività che noi consideriamo tecniche, non era quello l’aspetto predominante. Per raggiungere piccoli obiettivi economici, ad esempio, lo sforzo tecnico era secondario al piacere di incontrarsi, di stare assieme. I rapporti sociali e il contatto umano erano più importanti degli schemi tecnici e della costrizione del lavoro.
La società era libera dalla tecnica, pur non essendone priva. Con utensili relativamente semplici, gli individui creavano gli oggetti di cui si circondavano con una notevole abilità e sensibilità. Questa era un tipo di tecnica, ma con nessuna delle caratteristiche delle tecniche attuali. Ogni cosa variava da uomo a uomo in base alle particolari qualità di ciascuno, laddove la tecnica moderna cerca di eliminare questa varietà.
Oggi la tecnologia, non più insieme di strumenti e di tecniche — ma ordine sociale — è predominante, invade ogni ambito Mentre prima le tecniche, locali, diversificate, limitate, portavano il segno della cultura e degli individui che le adoperavano; ora la tecnologia trasforma universalmente tutte le condizioni individuali. Essa crea una singola, vasta, omogenea civiltà tecnologica che abbatte «ogni muraglia cinese», crea un soggetto umano spossessato e atomizzato, identico, dalla Lapponia a Taiwan.
Nessuna singola macchina, nessun aspetto specifico della tecnologia è responsabile di questa trasformazione. Piuttosto, lo è la convergenza sull’uomo di una pluralità, non di tecniche, ma di sistemi di tecniche. Il risultato è un totalitarismo operativo; nessuna parte dell’uomo è libera e indipendente da queste tecniche.
 
Caratteristiche della tecnologia
Prima di tutto, è automatica, seleziona i mezzi da impiegare tramite le proprie regole. Così comprime le scelte per renderle automatiche, rendendo superfluo l’intervento umano. Essa «oggettivizza».
In secondo luogo, si riproduce da sé. In altre parole, cresce al di là del controllo umano con balzi geometrici. Sostituendo i metodi tradizionalmente usati per fare le cose e creando intere nuove sfere di attività tecno-dipendenti, essa tende verso l’irreversibilità. Quando una determinata specializzazione scompare, è ben difficile che possa riprodursi.
Terzo, è unitaria, cioè forma un tutt’uno; è un insieme di pratiche. È assurdo parlare di tecnologia separata dal suo uso. Quali che siano le tecniche che si utilizzano per costruire un ponte o per trapiantare un cuore, solo il loro campo di applicazione è differente, non la loro forza psicologica o la loro composizione interna. Avviene un processo di sinergismo per cui le tecniche avanzano necessariamente assieme. Un settore della tecnologia si combina con un altro per formare nuovi sistemi con una velocità incredibile.
Quarto, è universale, in quanto produce lo stesso risultato ovunque.
Quinto, è autonoma, non tollera giudizi e non accetta limiti. Non è neutrale perché porta con sé il proprio «modo d’uso». Ogni sviluppo nella tecnologia, ogni sviluppo tecnico che cerca di «aggiustare» certi effetti tecnologici deleteri, causerà altri imprevedibili e spesso più disastrosi effetti.
Anche le tecniche impiegate per «adeguare» gli esseri umani alle esigenze sovrumane dell’ambiente tecnologico — le esigenze instillate nella psiche dalla massificazione e dalla meccanizzazione, attraverso la disciplina del lavoro e l’isolamento sociale — servono solo per integrare l’umanità nell’ambito tecnologico e renderla più accondiscendente nei suoi confronti, quindi più minacciata, più rosa dall’ansia, più demoralizzata. I tentativi di umanizzare questo ambiente attraverso «tecniche umane» come l’educazione, il divertimento, il consumo delle merci, il condizionamento psicologico, la propaganda e la medicina, servono solo a dissolvere ciò che rimane della nostra indipendenza, delle nostre risorse e delle nostre capacità.
 
Una tecnologia «neutrale»?
È semplicemente ridicola la nozione di «neutralità» data alla tecnologia, derivata dal non voler ammettere che la massificazione della tecnologia ha causato una trasformazione qualitativa, in peggio, dei suoi caratteri nonché dell’ambiente circostante. È evidente che le strutture tecnologiche hanno sostituito le corrispondenti strutture umane, il modo di pensare e di sperimentare.
L’automobile, ad esempio, viene vista come una semplice sostituta del cavallo o del carro, ma le tecniche di produzione di massa associate alla concezione di Ford della distribuzione di massa, hanno dato all’automobile un significato che nessuno aveva previsto. Nel caso dell’automobile, la rivoluzione di Ford venne alla fine di un lungo periodo di preparazione tecnica. La produzione tramite la catena di montaggio e l’interscambio delle parti risaliva alla fine del diciottesimo secolo; alla fine del diciannovesimo secolo il processo di meccanizzazione si era relativamente stabilizzato e produsse una crescita di speranze (che si manifestarono nella popolarità raggiunta dalle grandi fiere internazionali dell’industria) che gettò le basi per un’accoglienza entusiastica dell’automobile come oggetto di consumo di massa. Il ruolo che lo Stato ebbe fu fondamentale, poiché solo lo Stato possedeva i mezzi per creare un sistema di trasporto basato sull’automobile.
Prendiamo dunque l’automobile come esempio. Chi può negare che la tecnologia crei la sua propria inerzia, la sua direzione, il suo ambiente culturale? Pensate a come l’automobile ha trasformato il nostro mondo, i nostri pensieri, le nostre immagini, i nostri sogni, le nostre forme di associazione nel giro di poche generazioni. L’automobile ha sradicato le nostre comunità, ha deteriorato le nostre campagne, cambiato i nostri originari modi di mangiare (o ha almeno in parte contribuito a trasformarli), ha ridistribuito i nostri valori, ha contaminato le nostre vite sessuali, ha inquinato la nostra aria, sia nel processo di produzione che nel consumo, ha creato il rito generalizzato del sacrificio, sulle catene di montaggio e sulle strade.
Ma l’automobile è solo una invenzione fra migliaia. Chi l’avrebbe detto che appena pochi anni dopo l’invenzione della televisione, milioni di persone avrebbero passato il proprio tempo davanti al tubo catodico piuttosto che impiegarlo in un altro genere di attività? Chi avrebbe pensato che il mondo sarebbe diventato un incubo radioattivo, destinato alla distruzione, dopo pochi anni di utilizzo dell’energia atomica? E le nuove «rivoluzionarie» tecnologie, cosa ci riserveranno ancora?
 
Più di un motore a vapore
Non c’è dubbio, la tecnologia trasmuta noi e le nostre esperienze. L’impatto della tecnologia raggiunge non solo i mezzi ma anche gli obiettivi delle azioni sociali degli individui.
La Rivoluzione Industriale ha creato un nuovo ambiente per l’umanità, un nuovo modo di vivere. È stata molto più di un motore a vapore o di una sgranatrice di cotone, ha rappresentato una nuova era e una nuova prospettiva.
Se la tecnologia industriale ha avuto il grande effetto che conosciamo, le nuove tecnologie ne avranno di ben più profondi, poiché si basano sulla sostanza di cui è fatta la nostra società — l’informazione e la sua comunicazione. Gli ultimi sostenitori delle nuove tecnologie glorificano i successi della scienza neuromantica — un aspetto della quale è la realtà virtuale — mostrando come ormai sia possibile analizzare e misurare l’attività del cervello umano. I tecnocrati non solo sanno come pensiamo, ma sono in grado di modificare lo stesso concetto di intelligenza.
Diventa evidente la mistificazione insita in ogni discorso tecnologico. Ciò che sta cambiando è davvero una definizione, una descrizione, un modo di guardare a qualcosa che la struttura tecnocratica non può comprendere senza trasformarne la natura. È l’imposizione della tecnologia sulla mente umana, un letto di Procuste che «rivoluzionerà» il pensiero costringendolo ad adeguarsi ai parametri della macchina. Questa definizione rimodellerà il pensiero, che è sempre mutevole e fluido, e diventerà «vera» per forza, come «l’autostrada diventa più vera di un orso».
«Le tecnologie si stanno sviluppando ora. Cambieranno la vostra vita e la qualità, se non la natura, di ogni cosa. Il vostro lavoro non sarà più lo stesso. La vostra casa non sarà più la stessa. I vostri pensieri non saranno più gli stessi... Stiamo parlando di un aumento della quantità di innovazioni che non ha precedenti nella storia umana» —questo ritornello, assai comune sulle bocche dei tecnofili di tutto il mondo, mostra chiaramente come la pretesa «neutralità» della tecnologia sia solo una menzogna. Come affermava anni fa Robert Jastrow, direttore dell’Istituto Spaziale Goddard della NASA: «Entro 15 anni circa, vedremo il computer come la forma di vita emergente».
La convinzione più comune del tecno-misticismo è che le tecnologie moderne, la meccanizzazione e i sistemi di comunicazione computerizzati diversifichino le esperienze. In realtà, la tecnologia costituisce un impoverimento universale dell’esperienza umana. La meccanizzazione ha limitato i nostri orizzonti regolamentando le nostre culture in una tecno-cultura e distruggendo ogni sfumatura, ogni particolare. Ciò appare evidente, ad esempio, nella meccanizzazione dell’agricoltura, e soprattutto nella coltivazione degli alberi da frutta, un ambito in cui l’influenza della meccanizzazione ha condotto alla standardizzazione dei frutti in pochissime varietà.
 
Ridotti a contemplare gli schermi dei computer
I discepoli della meccanizzazione ci dicono che un mondo computerizzato ci renderà liberi di scegliere quale genere di informazione e di prodotti vogliamo ricevere e consumare; di più, che se una informazione o una merce non ci dovesse piacere possiamo tranquillamente sceglierne un’altra. Tutto ciò non sarà affatto diverso dall’atto del «cambiare canale». Tutte le informazioni saranno identiche perché la tecnologia riforgerà la conoscenza a sua immagine e somiglianza. E l’esperienza del suo utilizzo sarà uguale ovunque.
Potremo magari illuderci di scegliere delle notizie sulle popolazioni tribali (ormai quasi del tutto estinte), piuttosto che sulle scosse sismiche della baia di San Francisco o sulla condizione del traffico a Tokyo o sui vini francesi, ma di fatto saremo ridotti a contemplare gli schermi dei computer, sostenendo il sistema informatico, riducendoci e adattandoci a questo. Ciò che potrà essere adattato al computer, ciò che potrà essere trasmesso dalla tecnologia, rimarrà in «vita» — tutto il resto scomparirà. E anche noi ci trasformeremo inesorabilmente nel corso di questo processo. Una pseudo-comunità collegata attraverso lo spazio elettronico prenderà il posto delle culture umane basate sul confronto diretto: ciò che resterà sarà un aggregato polverizzato di unità terrificanti nel proprio isolamento quanto nella propria identità smarrita.
Il linguaggio si sta già riducendo e continuerà a modificarsi seguendo la vita quotidiana. Alcuni modi di pensare, alcune parole e nozioni si atrofizzeranno e progressivamente scompariranno. Così le future generazioni non potranno sentire la mancanza di qualcosa che non hanno mai avuto. Il linguaggio dei computer dirà tutto ciò che è necessario dire; l’ambito del linguaggio e del significato sarà l’ambito del computer e del video. La storia sarà la storia che apparirà sugli schermi, null’altro.
Anche la cultura "individuale" assumerà la stessa configurazione del linguaggio del computer. Ogni altra cosa, ogni caratteristica che non saprà adeguarsi al nuovo sistema, risulterà incoerente, inaccettabile e inattuale. La memoria del computer sostituirà progressivamente quella umana, gli individui rassomiglieranno vieppiù alle macchine che hanno creato. Per loro — cioè per le macchine — non costituiremo un ostacolo, dal momento che ci avranno assorbito.
Così come non lo è l’informazione, anche il linguaggio non è «neutro». Il linguaggio è significato e il significato rappresenta il potere; controllare e formare il significato equivale a controllare e a formare il soggetto umano.
 
Verso uno stato di polizia cibernetico
«Assurdo! — dicono i difensori della mega-macchina — La tecnologia non è qualcosa che è sfuggito al controllo umano, è semplicemente qualcosa che usiamo; soprattutto, è un’attività in cui ci impegniamo perché abbiamo scelto di farlo».
Nessuno nega che si possa scegliere. Ma esistono solo due scelte: accettare i dettami della tecnologia oppure i termini dell’individuo. Naturalmente la tecnologia non è una cosa al di fuori delle interazioni umane. È una forma mutata che queste interazioni hanno assunto; le future forme di dominio non prenderanno posto nel vuoto. La forma che assumeranno si sta evidenziando sempre di più.
La nostra totale dipendenza dalla tecnologia è l’altro lato della nostra dipendenza dallo Stato. Le tecnologie, una volta «interfacciate» (per usare le loro grottesche definizioni) con lo Stato, hanno creato una nuova forma di dominio. Lo Stato poliziesco cibernetico si è impadronito e coordina l’insieme delle tecnologie e dei meccanismi di controllo sociale che prima funzionavano in modo caotico e competitivo.
Ormai siamo a un passo da un sistema universale computerizzato di identificazione. Le polizie di mezzo mondo hanno già digitato sui propri computer i nomi degli individui considerati per un verso o per l’altro «socialmente pericolosi». È solo una questione di tempo perché colleghino le varie banche dati in una enorme banca di informazioni che registrerà ogni azione che facciamo, ogni nostro viaggio, incontro, processo, movimento bancario, ogni nostra attività, fino ad ogni nostro pensiero.
 
La libertà non è un assoluto
Ma la sorveglianza e la regolamentazione non saranno necessarie dove non ci sarà minaccia. La tecnologia sta già preparando il terreno a forme di controllo più persuasive dei semplici archivi-dati sugli individui. Man mano che le forme di controllo — come la computerizzazione totale, il condizionamento psicologico, le suggestioni subliminali, le intrusioni video ed elettroniche — diventeranno parte di un determinato ambiente, la loro esistenza verrà percepita come naturale, proprio come accade già per le autostrade o i centri commerciali.
La libertà non è un assoluto, evidentemente, la sua nozione seguirà la stessa trasformazione subita da tutto l’ambiente sociale. Un processo grazie al quale la tecnologia verrà concepita come portatrice di nuove «libertà», non distruttrice di libertà.
Le differenze e le barriere tra uomo e macchina stanno per essere abbattute. Gli sviluppi della ricerca sull’integrazione del cervello umano con i sistemi cibernetici renderanno obsoleto lo stesso essere umano, proprio come l’avvento dell’industria tecnologica ha reso obsoleta ogni forma di comunità. Fra poco non ci sarà più bisogno di sottoporre al controllo delle telecamere una folla inferocita, dato che il controllo potrà essere stabilito in anticipo. Sarà un mondo fatto dalla e per la tecnologia, un universo sintetico in cui l’asimmetria e la diversità verranno soppresse. L’irrazionalità della cultura, dell’amore e della morte verrà sconfitta. Il computer ci introdurrà in un sonno eterno e senza sogni.
Tuttavia, se la tecnologia sa essere efficiente nel creare, direttamente o meno, altre più potenti forme di dominio, non necessariamente è altrettanto capace di tenere a freno i propri sviluppi e le relative conseguenze, i conflitti, le devastazioni e le crisi che la sua applicazione genera. Secondo i suoi sostenitori, la tecnologia può essere controllata e messa in grado di sopperire ai bisogni umani attraverso «l’assestamento tecnologico».
Alvin Toffler (arricchitosi tenendo seminari ad agiati professionisti sulla programmazione tecnologica nell’amministrazione) sostiene che è necessario anticipare gli effetti secondari nocivi delle tecnologie e prevenirne lo sviluppo. Scrive: «Ad esempio, è possibile provare nuove tecnologie in aree limitate, fra gruppi ristretti, studiando il loro impatto secondario prima di realizzarne la diffusione». La stupidità scientista e l’autoritarismo tecnocratico di simili affermazioni sono palesi come la metodologia che ne traspare. Si tratta della stessa metodologia impiegata dai tecnocrati e dai loro «consulenti». La loro miopia ci rassicura che la tecnologia potrà autodistruggersi (e noi con essa) prima che costruiscano il loro Mondo Nuovo. La reificazione della tecnologia fatta da Toffler quando propone di usarla in un’area isolata, a discrezione di esperti e manager, mostra di non comprendere come la tecnologia si diffonda, come trasformi l’ambiente e, cosa più importante, come sia già intrappolata all’interno della sua stessa inerzia procedurale. In realtà le nuove tecnologie, che appaiono in tutto il mondo quasi simultaneamente, non possono venir isolate in modo da studiarne gli effetti. Sono gli effetti dell’intero sistema che devono essere presi in considerazione, non gli effetti da laboratorio di un componente isolato.
 
Le implicazioni sociali
La tecnologia non può essere isolata da se stessa e studiata attraverso le sue stesse tecniche. La sperimentazione da laboratorio compiuta in una data area sociale o geografica da parte della gerarchia tecno-manageriale è tecnologia e ha in sé le proprie implicazioni sociali. I risultati delle innovazioni avranno necessariamente significati diversi ed imprevedibili per i vari settori della megamacchina. Tramite la sua grandezza e la sua diffusione capillare, ha già rimosso ciò che una volta era locale, rendendo tutti dipendenti dagli apparati. Ma riducendo l’attività degli esseri umani alla pura «razionalità» delle sue procedure, essa crea la propria inerzia e le proprie «leggi di movimento».
La tecnologia, rimanendo intrappolata dai suoi stessi strumenti e incentrata sulla iper-razionalizzazione dei processi produttivi, non solo sposta un’attività al di là della possibilità degli individui di averne un controllo, ma alla fine sostituisce gli stessi scopi per cui era destinata. Ad esempio, come è avvenuto che in alcuni paesi la produzione del pane, effettuata localmente e su larga scala, abbia ceduto quasi del tutto alla meccanizzazione delle grandi imprese? Come è potuta cambiare la considerazione della gente verso la natura di questa fonte di vita, che così poco era cambiata nel corso dei secoli e che fra tutti i cibi aveva sempre rappresentato un simbolo? La meccanizzazione ha iniziato a penetrare ogni aspetto dell’esistenza fin dal 1900. Anche l’agricoltura e la produzione di alimenti sono cadute sotto il dominio della tecnologia. Siccome la tecnologia richiedeva spese e macchinari sofisticati, sono stati ideati nuovi metodi per promuovere il consumo e nuove forme di distribuzione che hanno eclissato le botteghe alimentari locali. La massificazione richiede l’uniformità, ma l’uniformità fa scadere la qualità. Come i sapori vennero alterati, come i vecchi istinti vennero cancellati, è facilmente dimostrabile e comprensibile. E, ancora una volta, ciò che conta non è un momento specifico nella trasformazione delle tecniche, o quali forme di tecnologia siano state impiegate, ma l’intero processo di massificazione attraverso il quale delle semplici attività organiche sono state strappate dalle comunità e dalle case per venire fagocitate dalla megamacchina. Ma la lavorazione del pane rappresenta solo una parte di un ampio ciclo che inizia con la semina del grano. La meccanizzazione invade ogni aspetto della vita organica e la sostituisce, alterando per sempre la struttura dell’agricoltura, del contadino, del cibo. Non solo il pane si deteriora per via della meccanizzazione, ma il contadino si allontana dalla terra.
Il processo tecnologico trasforma i prodotti e gli uomini.
 
Fuori controllo
La nozione manageriale di «accertamento tecnologico» è paragonabile al tentativo di fermare un’automobile che sta per andare fuori strada utilizzandone il manuale di manutenzione e di riparazione. L’efficienza della tecnologia è in realtà inefficace. Ogni settore tecnico persegue i propri scopi separato dalla totalità. Ogni struttura della macchina cerca di mantenere il proprio potere e influenza.
Persino i difensori della tecnologia ammettono che tende a muoversi fuori dal controllo umano. Alcuni fra loro attaccano la «tecnofobia» dei suoi critici e centrano il problema sugli esseri umani che non hanno ancora imparato a gestire le «libertà» che la tecnologia ci può donare. La tecnologia è uno strumento che rende capaci, non un meccanismo coercitivo — secondo i suoi apologeti — ed il vero problema è la capacità umana di «gestirla». L’assurdità di questa affermazione è evidente. La tecnologia ci ha dato la libertà di servirla, la scelta di agire all’interno dell’ambito tecnologico. Essa è coercitiva perché è un ambiente, un ambiente che per esistere deve sopprimere tutti gli altri.
Uno scrittore favorevole alla tecnologia riporta una metafora comune nella letteratura, quella della macchina che per la velocità perde il controllo: «Se noi sembriamo essere spinti nel futuro da un motore impazzito, può darsi che la principale ragione per cui ciò accade è che non siamo stati capaci di imparare come funziona, né di guidarlo nella direzione che vogliamo percorrere». Questa affermazione ne ricorda un’altra di Lenin, che nel corso dell’ultimo congresso del partito cui partecipò, nell’aprile 1922, disse che spesso aveva avuto la sensazione sgradevole di essere l’autista che s’era improvvisamente accorto che la sua automobile non si muoveva nella direzione da lui voluta. «Delle potenti forze — dichiarò — deviano lo Stato sovietico dalla sua strada originaria». Fra le forze più potenti, naturalmente, c’era l’ipnosi del processo politico autoritario.
Analogamente, le stesse «potenti forze» dell’autoritarismo e dell’ottimismo tecnologico sono all’opera oggi. Nella società tecnologica, la tecnologia resterà al comando. Il «fattore umano» non può venir programmato dai computer come misura protettiva contro il loro potere su di noi; può solo soccombere. «L’automobile» è fuori controllo. E noi?
Noi invece potremmo cominciare a demolire il mito che fa della tecnologia qualcosa di sacro e irrevocabile. Imparare a ricatturare le nostre abilità, diventare indipendenti dalla tecnologia, guardare il mondo coi nostri occhi e non con lo schermo del computer. Potremmo iniziare a rovesciare tutti i presupposti mai negati di questa civiltà, impedire la distruzione del territorio, opporci al trionfo del progresso, spegnere gli apparati di propaganda tecnologica e politica. Intendiamoci, stiamo proponendo qualcosa che in nessun caso potrà avvenire attraverso un programma politico e tecnologico.
 
[All’attacco della civiltà tecnologica, a cura degli Amici di Ned Ludd, Gratis, 1993]