Brulotti

Della demagogia oratoria

 

Camillo Berneri
 
Fénelon diceva che ad Atene tutto dipendeva dal popolo e che il popolo dipendeva dalla parola. E Hobbes definiva la democrazia l’aristocrazia degli oratori. L’uomo politico è anzitutto «oratore». L’oratore è l’artista della parola. L’uomo politico non è soltanto questo; egli è l’«attore» della parola. Plutarco ci narra che Carlo Gracco conduceva con sé nel foro un suonatore di flauto che doveva dargli il «tono» del discorso e moderarne l’impeto. Siamo ancora, con Carlo Gracco, all’arte oratoria quale la conobbe Atene che udì Demostene.
Ma l’oratore politico fa di più: agisce. Si fa attore drammatico. E allora è Bruto che per aizzare il popolo contro i Tarquini, gli presentava il cadavere della violata e suicida Lucrezia. Gambetta e Waldech Rousseau prendevano lezioni di recitazione dall’attore drammatico Coquenil, che era un politico dell’arte sua. Avendo interpretato Tartufo di Molière in un tono grossolanamente anticlericale, ad un critico che gliene muoveva rimprovero, Coquenil rispondeva: «Il pubblico ama questo! Ho imparato a dargli quel che domanda!». Non fa meraviglia che il grande commediante aspirasse egli stesso al seggio di deputato di Boulogne-sur-Mer, sua città natia. Sarebbe, forse, finito ministro!
Oratore è colui che domina il pubblico; oratore politico colui che si serve della propria arte per dominare il pubblico.
Adolf Hitler è pervenuto al governo assoluto della Germania perché è un grande oratore politico. Se non si considera questa sua qualità, il suo trionfo rimane un mistero assurdo. Eccolo alla tribuna. Indeciso è lo sguardo, lenta, sottile un po’ tremante la voce. Poi lo sguardo si fa sicuro, la voce ha note di basso ed inturgidisce gradatamente. Poi è la tempesta, appassionata ed appassionante. Una valanga di frasi corte, sonore, martellate, un turbine di sentenze apodittiche, d’immagini immediate, di parabole. Eccolo là, con espressioni da ispirato, rasentare la follia e il genio, istrionico e sublime, in una atmosfera di delirio: «Quando un popolo perde tutta la fede nel diritto della clava, è imminente il giorno in cui affonderà miseramente... Quando un popolo sollecita sinceramente la libertà, le armi gli spuntano da sole nelle mani!». Stile volgare; ma il barocco delle espressioni è fuso nel crogiolo della eloquenza parlata. Non è Mirabeau, è Camillo Desmoulins. «A forza di essere o di parere primitivo, egli raggiunge le più alte vette dell’arte oratoria... Bisogna udirlo». È un giudice imparziale, W. Miltenberg, che lo afferma.
Il mistero del successo popolare di Hitler è svelato. Egli è un grande oratore politico, come Lloyd George,  come Mussolini, come i duci della piazza di ogni tempo e di ogni paese.
Enrico Ferri è stato un idolo non solo nel mantovano, ma anche in tutta Italia. Nel suo feudo politico i fedeli elettori tenevano a capo del letto la sua immagine.
Angelica Balabanoff narra, in proposito, nelle sue interessanti memorie: «Recandomi, quale membro del Bureau dell’Internazionale Socialista ad una riunione di questa nel 1907, vidi salire nello stesso treno fra Stoccarda e Bruxelles, Bebel e Guglielmo Liebknecht. Durante questo viaggio Bebel mi rivolse fra l’altro la seguente domanda sul conto di Enrico Ferri, allora all’apice della fama oratoria e politica e che aveva fatto da pochi anni il suo ingresso nel mondo socialista: “Spiegatemi, compagna, come è possibile che un uomo come Ferri, superficiale, parolaio, pieno di sé, possa essere militante nel partito socialista italiano. Spiegatemelo. Egli non ha nessunissima idea del marxismo e non dà nessuna garanzia di sincerità. Per me è un uomo che andrà a finire nelle braccia della monarchia. Mi fa l’effetto di un ciarlatano; sapete, di quelli che si vedono e si sentono nelle fiere...”». Zibordi avrebbe dato a Bebel la spiegazione che egli scrisse su Critica Sociale (1908, p. 69): «Perché è prestante, perché ha eloquenza fascinatrice e resistente, ma soprattutto perché la sua psicologia somiglia sinceramente a quella del popolo: ottimista, semplicista, facilona, ricca più d’immagini che di idee, e di forme più che di cose».
Ci stupiamo, oggi, delle folle fasciste acclamanti «un Mussolini», come se quel «volgare demagogo» non fosse lo stesso uomo che mandava in delirio le folle socialiste. Come spiegare il trionfo di Mussolini sui «destri» del partito socialista, trionfo rapido e schiacciante, se non con i successi oratori dei congressi di Reggio Emilia e di Ancona? Ci stupiamo del feticismo per Mussolini come se nello sciopero parmense del 1908 Alceste De Ambris non fosse stato un idolo, una specie di santo protettore «di poverett». Al suo ritorno dalla Svizzera, nel 1913, oltre quarantamila persone erano ad attenderlo alla stazione di Parma e le donne gridavano: «Guerdol là ve, el noster Dio!» e talune, innalzando i loro bimbi sopra la folla dicevano loro: «Vedot, col l’è to peder». Che cosa fosse De Ambris nel parmense se ne può avere un’idea leggendo La terra promessa di Campolonghi, che mi pare uno dei migliori romanzi sociali che conti la letteratura italiana.
E Miglioli non ebbe culto nel cremonese? Ai piedi gli stendevano gli scialli, le adoratrici. 
Via, è forza riconoscerlo: il 90 per cento dell’entourage di Mussolini, del rassismo (1), delle gerarchie fasciste, è di origine sovversiva. Quegli uomini hanno mutato tessera, il colore della cravatta e tenore di vita e argomenti demagogici, ma sono, in fondo, quei medesimi che sulle piazze e nei teatri scatenavano deliri sovversivi con girandole e razzi e con trovate da mercanti da fiera. Ci sarebbe da fare un libro a raccogliere resoconti del genere di quello pubblicato da Il Proletario di New York il 2 giugno 1911. Eccolo qui: «Prende poi la parola Edmondo Rossoni il quale con voce sonora, che vibra sulle teste come la corda d’un arco teso, flagella tutta la immonda ciurma dell’affarismo coloniale, dei fraudolenti, degli sfruttatori, dei falsari, degli adulteratori, che hanno bisogno del mantello del patriottismo per nascondere la refurtiva. E Rossoni, dopo aver dichiarato che assume tutta la responsabilità del suo atto, fra un delirio di applausi, sputa a piena bocca sul tricolore del re e la corona di Barsotti». Il ‘19 e ‘20 ebbero i loro Rossoni: da Bombacci a Bucco, da Ambrosini a... molti altri. L’oratore da piazza è stato una delle piaghe del sovversivismo italiano.
 
(1) Da ras: appellativo con cui venivano definiti i vari gerarchi fascisti in provincia.
 
[Almanacco libertario pro vittime politiche del 1935, Lugano, 1934]