Brulotti

La notte più terribile della mia vita

 

Max Hölz
 
Per distrarmi dai dolori, ricorsi al mezzo seguente: recitai versi dell'Herwegh, del Freiligraht, di Erich Mühsam e d'altri. Con ciò mi procurai un gran sollievo.
I sorveglianti erano però a questo proposito d'altra opinione. Quattro di essi entrarono nella mia cella e m'invitarono a uscire. Io non presentii niente di buono e mi rifiutai. Essi chiusero la porta e si allontanarono. Dopo un certo tempo, ritornarono e mi trascinarono colla violenza nel corridoio. Io ero vestito soltanto della leggera, corta camicia di lino e scalzo. Due mi torsero le braccia nelle articolazioni. Gli altri mi picchiarono continuamente, l'uno colpendomi alla testa col suo pesante mazzo di chiavi, l'altro battendomi colla daga sulla schiena e sul sedere. Di tanto in tanto mi montavano coi loro pesanti scarponi sui garretti, finché io stramazzai al suolo ed essi mi trascinarono giù nelle cantine. Io gridai ch'essi non mi dovevano trattare così disumanamente. Allora uno mi prese alla gola e me la strinse con le due mani così forte ch'io non potevo emettere più nessun suono e disse: «O parla, adesso, se ti riesce, cane!». La mia camicia era in brandelli, io sanguinavo forte.
I miei aguzzini continuarono a battermi come folli e mi spinsero fuori dall'edifizio principale nel cortile del lazzaretto. Dalle finestre delle celle dell'ala principale che davano sul cortile, udii dei carcerati insultare eccitati perché io venivo battuto. Ma i sorveglianti non si lasciarono intimidire. Dopo avermi trascinato per tutto il lungo cortile, aprirono la porta conducente nell'edifizio del lazzaretto, e uno dei funzionari mi dette di dietro un terribile calcio, cosicché io feci di volo, a testa in giù, i sei gradini di pietra arenaria. Giù c'era il sorvegliante di notte che mi «lavorò» subito la schiena e la testa con due pesanti scarponi di legno. Io ero così terrorizzato dal maltrattamento che non mi venne neanche una volta in mente di difendermi. Non sarebbe del resto servito a niente.
I sorveglianti aprirono una cella situata in cantina, che aveva delle doppie porte imbottite. Mi strapparono via di dosso il brandello di camicia e mi scaraventarono come un sacco di cenci in questo buco.
Ora io giacevo nudo e sanguinante in una cantina fredda, che com'io appresi più tardi veniva chiamata dai carcerati la «camera di tortura» e che ufficialmente ha due denominazioni che si contraddicono: «cella di forza» e «cella di tranquillizzamento». Essa era completamente vuota e ancora più stretta delle altre celle carcerarie. Non c'era niente in essa, neanche una coperta, nella quale io avrei potuto avvolgermi.
Dal pavimento, sul quale giacevo, mi entrava il freddo nelle ossa, i denti mi battevano nel gelo della febbre. Malgrado le mie membra così percosse, cercai di correre intorno per riscaldarmi. Ma il correre in questa minuscola cellula circolare — sempre in cerchio — mi rese stanco e mi turbò. Cercai di sedermi sul pavimento per riposarmi un poco, ma sentii di nuovo il freddo tagliente. Mi tirai su e mi mossi barcollando qua e là nella cella.
In questo buco regnava un fetore terribile. Non riuscivo a capire come mai l'aria fosse così spessa e puzzolente. Ben presto, però, ne trovai la ragione.
Io dovevo orinare e fare i miei bisogni, ma non c'era nessun recipiente: così che dovetti far tutto sul pavimento. A tutte le dozzine di carcerati, che erano stati prima di me in questa cella, era sicuramente successo lo stesso e l'odore terribile degli escrementi si era radicato nel pavimento.
Dopo tre ore tormentose, udii un lieve rumore. La chiusura della piccola spia nella porta si mosse e io scorsi al suo posto un occhio umano. Poteva essere soltanto il sorvegliante di notte, che voleva vedere se ero di nuovo in gamba. Io lo pregai di lasciarmi uscire da questa terribile cella o di darmi almeno una coperta, giacché soffrivo terribilmente dal freddo. «Appiccati, mascalzone, a Monaco tu hai cavato via gli occhi a sedici funzionari!» fu la risposta. Mai in vita mia ero stato a Monaco, mai avevo soltanto maltrattato un funzionario.
In che modo dovevano essere stati aizzati questi uomini! Adesso soltanto credetti di conoscere la ragione, perché i quattro sorveglianti mi avevano battuto così follemente.
Questa notte nella camera di tortura della prigione di Münster fu per me, spiritualmente e fisicamente, la tortura più orribile della mia vita.
In questa notte si ruppe qualcosa in me.
Se nei due anni e mezzo precedenti avessi anche mai dubitato della necessità della distruzione di quest'ordine sociale e della sua giustizia, ogni dubbio sarebbe qui scomparso.
Non i gravi maltrattamenti fisici da parte dei sorveglianti furono la cosa più terribile, bensì l'andare a tastoni intorno, nudo, disperato, nella cantina gelata. Questa tortura viene impiegata appunto perché nessun uomo, che non l'ha provata di persona, può immaginarsi che effetti essa ha sul corpo e sullo spirito.
Se dopo la sua liberazione un carcerato raccontasse che gli hanno tagliato la pelle e che gli ci hanno messo dentro del sale e del pepe, che gli hanno bruciato le suola dei piedi con delle tenaglie ardenti, che gli hanno rotto le articolazioni mediante un serrapollici, non ci sarebbe nessun uomo che non si potrebbe immaginare che queste sono delle torture spaventose. Ma chiudere uno nudo in una cantina fredda non sembrerà senz'altro, a chi non l'ha provato, come una cosa particolarmente disumana.
Soltanto i sorveglianti carcerari, i direttori e i medici conoscono il segreto di questo moderno martirio d'uomini. Essi sanno che di cento carcerati che vengono gettati in un tal buco, almeno novantacinque sono finiti per tutta la loro vita. «Finito» è nel linguaggio carcerario l'espressione per indicare che un carcerato è diventato pazzo in seguito a gravi maltrattamenti spirituali e fisici. Io non sapevo quante ore avevo già passate in questo stato, se era sempre notte o già mattina. Sentivo soltanto che ero alla fine delle mie forze; il sentimento di impotenza assoluta mi divorava il cervello. Nelle tempie sentivo un battito folle. Uscire da questa cella con la mente a posto, mi sembrava impossibile.
Improvvisamente le porte vennero aperte e un funzionario pose una scodella di cartapesta sul pavimento. Io mi rivolsi subito a lui e lo pregai di ricondurmi nella mia cella di prima. Il funzionario si allontanò senza alcuna risposta.
Gettai uno sguardo sulla scodella, conteneva il solito brodo di cicoria. Doveva dunque essere mattina presto, fra le sette e le otto. Quando presi la tazza dal pavimento per bere, notai che c'era stato sputato dentro. Sopra il liquido nuotavano dei brani spessi di muco giallo, come lo sputano malati di polmone o di gola. Non potei bere neanche un sorso, benché avrei preso volentieri qualcosa di caldo.
Alcune ore dopo venne un sorvegliante col medico della prigione. Sperai allora di essere liberato dalla situazione tormentosa. Descrissi al medico come i funzionari mi avevano maltrattato e gli mostrai le ferite. Egli non si dette neanche la pena di esaminarle, disse soltanto che ciò non lo riguardava, che ciò non era cosa sua. Lo pregai di curare affinché io venissi preso fuori dalla camera di tortura. Non mi rispose e lasciò la cella col sorvegliante.
Di nuovo trascorsero ore tormentose che mi sembrarono senza fine. Verso mezzogiorno mi fu portata, in una scodella di cartapesta, una pappa indefinibile, senza cucchiaio. Fui costretto a mangiar questa colla con la mano. Al funzionario che me la portò, dissi di annunciare al direttore che volevo denunciargli i maltrattamenti subiti. Sebbene quel giorno e nei giorni seguenti facessi ripetutamente domanda di esser condotto davanti al direttore, questi non si fece vedere.
Nel corso del giorno mi venne portato un paio di mutande. La notte seguente, i funzionari mi gettarono nella cella un materasso strappato, che era tutto insudiciato di escrementi e d'orina e che puzzava incredibilmente.
Il secondo giorno mi visitò un altro medico. Era il vero medico della prigione, il dr. Többen, contemporaneamente professore all'Università di Münster. Anche a lui mostrai le mie ferite e lo pregai di prendermi fuori dalla cella di forza. Egli non fece niente per procurarmi un alleviamento. Quando il quarto giorno passò e io non vidi nessuna possibilità di essere liberato dalla mia situazione, s'impadronì di me una disperazione illimitata. La mia forza di resistenza era esaurita.
Il pavimento, pregno come una spugna degli escrementi dei carcerati che ci erano stati prima di me, spandeva un'esalazione insopportabile. L'aria soffocante, rubante il respiro, pesava come un quintale sul mio cervello. Cercai di distrarmi recitando dei versi. Ma per la strana acustica della cella, le parole risuonavano sinistramente cupe e vuote; venivano rigettate dalle pareti come una eco molteplice dal suono orribile. Spavento mi prese della mia propria voce.
Ero convinto che i miei aguzzini mi volevano uccidere col freddo e ritenevo assolutamente impossibile di resistere ancora una notte nella cella di «tranquillizzamento», sì che mi sembrò più giusto di abbreviare la lenta esecuzione. Decisi perciò di aprirmi coi denti, la notte seguente, le arterie del polso e di metter fine col dissanguamento al tormento. Il professore Többen, che mi visitò anche il quarto giorno, deve ben aver notato ch'io mi trovavo agli estremi. Nelle ore serali del quarto giorno fui preso fuori dalla cella della cantina e riportato nella mia vecchia cella.
Come appresi più tardi, il professor Többen era riuscito soltanto dopo violente discussioni col direttore Scheidges, ad ottenere ch'io fossi tolto fuori della cella di forza.
 
[dall'autobiografia "Dalla croce bianca alla bandiera rossa", 
su Umanità. Rivista di letteratura e di cultura sociale, Zurigo, n. 1, febbraio 1930]