Brulotti

Torniamo all’economia reale?

 

C. G. D.
 
Si sente dire e si legge dappertutto che per combattere la «crisi finanziaria» bisogna — e basterebbe — «tornare all’economia reale». La realtà! Ecco qualcosa che suona in modo rassicurante. Cosa c’è di più tangibile, di più oggettivo della realtà?
Ora, tanto per partire dal dizionario, la parola realtà deriva da réellité (dal basso latino realitas), che nel XIV secolo significava «contratto reso libero». Nella nostra epoca, nell’epoca dei mass media, la realtà del mondo — e in particolar modo dell’economia, che è la sua legge naturale — è il contratto sociale, reso «reale» dall’assorbimento quotidiano della verità telediffusa del mondo. In altre parole: ogni qualvolta accendo la televisione o la radio, o mi connetto sul sito di un giornale, si presuppone che io dia conferma della mia accettazione del contratto sociale. Si vede che, lungi dall’offrire un sostegno materiale solido, tutto è finzione in questa realtà. Finzione, il contratto sociale; finzione, le «notizie» mediaticamente distillate; e finzione il racconto capitalista dei tempi eroici, quando non si pensava che a produrre per il bene di tutti.
Guardate all'Italia. Silvio Berlusconi, quand'era Presidente del Consiglio, voleva «tagliare le tasse per sostenere l'economia raeale». A sua volta Mario Monti, anch'egli ex-Presidente del Consiglio, non aveva dubbi nell’esprimere «l’esigenza, nella difficile situazione dell'Eurozona, di cercare rapporti solidi, basati sull’economia reale!». Mentre Enrico Letta, attuale Presidente del Consiglio, non nasconde il desiderio del proprio governo: «vorremmo che la Banca Europea per gli Investimenti fosse braccio dell'economia reale». 
Nemmeno Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, ha dubbi. Bisogna battersi. Contro cosa? «Contro la prepotenza della finanza, che ha preso il sopravvento sull’economia reale e ridotto la centralità delle imprese». Per farlo bisogna neutralizzare il veleno della burocrazia di Stato con l’antidoto della semplificazione, che garantirebbe maggiore equità e solidarietà sociale, che «devono continuare ad essere i nostri irrinunciabili pilastri». 
Siamo quindi invitati a comprendere che il capitalismo delle origini, fondamentalmente buono (per tutti!), si è o è stato pervertito, probabilmente dall’avidità di pochi banchieri e trader. Andava bene che negli anni 80 affermassero Greed is good, l’avidità è una buona cosa, ma la "crisi" è là a dimostrare che siamo stati distolti dalla produzione di oggetti di consumo e dalla finanza che oliava le catene di montaggio per cadere nella "follia" dei mercati.
In questo racconto vi sono numerose menzogne storiche e teoriche, inscatolate come bamboline russe, che tenterò di distinguere le une dalle altre.
Si pretende che il fondamento del capitalismo sia la produzione dei beni di consumo.
È doppiamente inesatto.
Innanzitutto, il fondamento del capitalismo, la sua molla se si vuole, non è la «produzione» ma lo sfruttamento del lavoro. Sono in molti a dimenticare di cosa sia fatto il capitalismo, a ritenere che la sua realtà non sia data dallo sfruttamento del lavoro ma consista nella differenza di beni, nella povertà, o nel fatto di essere scartati dall’economia.
In secondo luogo, la tendenza del capitalismo ad emanciparsi dal «reale» tangibile del processo di produzione (la catena di montaggio) è vecchia quanto lo sviluppo industriale. Fu già descritta da Marx a metà del diciannovesimo secolo:
«Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerful effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. [...]
In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo del lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. [...]
Lo sviluppo del capitale fisso [le macchine] mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knownledge, sia diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso siano passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso. Fino a quale grado le forze produttive e sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale».
Questa tendenza capitalista (emanciparsi dalla materia) può essere letta nella finanziarizzazione crescente, ma si traduce soprattutto nella finzione di un capitalismo puramente mercantile, senza fabbricazione né fabbriche (fabless nella neolingua). L’ideale è l'«azienda vuota» (hollow corporation), incentrata su compiti più distanti dalla produzione materiale (concezione, commercializzazione...) e che delega agli altri il subappalto, delocalizzato in funzione del minor costo di produzione. È già una maniera per il sistema di immaginarsi una second life virtuale, in una sorta di quarta dimensione in cui il lavoro produttivo non appare mai. Questa «rifondazione» presenta il vantaggio di ammettere su cosa si basa: niente, sul niente.
Infine lo stesso sistema capitalista si basa su una perfetta astrazione: il valore, di cui il denaro è il sostegno, sempre più immateriale esso stesso nell’epoca delle carte di credito. Senza astrazione del valore, niente capitalismo, nessuna presunta «economia reale».
La tendenza del sistema capitalista ad ignorare le frontiere data dalle sue origini. L’espansione geografica, detta oggi «globalizzazione», è già reperita da Marx come costitutiva del sistema. Col termine globalizzazione si può intendere anche l’inevitabile limite del processo. Una volta che il sistema ha raggiunto l’insieme del pianeta — già fatto! — quale possibilità gli resta? Cercare altri mondi abitati? Senza essere scartata, la prospettiva non è centrale. Sembra che la sua reazione, in senso chimico, sia piuttosto di distruggersi, o se si vuole di implodere. Forse è a questo che mira il sociologo no-global Immanuel Wallerstein quando dichiara:
«La situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino ad ora, e sta emergendo una lotta, non più tra i sostenitori e gli avversari del sistema, ma fra tutti gli autori, per determinare cosa lo sostituirà. Riservo l’uso della parola "crisi" a questo genere di periodo. Ebbene, siamo in crisi. Il capitalismo è arrivato al termine».
La questione che viene qui posta è quella dell’irrazionalità costitutiva del sistema.
Un Sarkozy tentava di far credere che «l’idea che i mercati abbiano sempre ragione era una idea folle» (discorso del 25 settembre 2008).
Si può qualificare «folle» questa idea ed essa in effetti ha prosperato, per esempio presso i dirigenti dell’Agenzia americana dei progetti di ricerca avanzata per la difesa (Darpa). Ispirandosi alle speculazioni sui prezzi del mercato petrolifero, gli ideatori prevedevano di offrire ai trader di investire denaro su un FutureMAP (Mercato a termine applicato alla previsione). I trader avrebbero integrato ai loro calcoli i rischi di attentati terroristici, di guerre civili, di colpi di Stato, etc. Il Pentagono avrebbe registrato e «analizzato» le tendenze di questo nuovo mercato. «I mercati a termine hanno dimostrato di poter prevedere cose come il risultato delle elezioni; spesso sono migliori degli esperti», affermavano gli ideatori. Ora, questo colmo della creduloneria imbecille nell’economia come luogo di produzione della verità è stato denunciato nel 2003 come immorale e ridicolo dall’opposizione democratica e dalla stampa, ed abbandonato. È quindi inesatto lasciar intendere che solo la cosiddetta «crisi finanziaria» sarebbe servita da segnale per mettere in guardia gli amministratori sul carattere delirante dell’idea secondo la quale i mercati hanno sempre ragione. Esistono molti modi di regolamentazione minore, di carattere politico e mediatico, che tuttavia, e logicamente, non mettono in discussione il funzionamento stesso del sistema.
Viceversa, l’irrazionalità costitutiva del sistema capitalista si evince dalla sua incapacità di tener conto di pezzi interi del reale: la finitudine dello spazio geografico disponibile, il carattere esauribile e degradabile delle risorse naturali (petrolio, acqua...), la fragilità degli ecosistemi, etc.
La «follia» del sistema non risiede nel fatto che solo il 2%  delle transazioni monetarie sono direttamente legate alla produzione, ma nel fatto che bisogna procedere ad una valutazione economica dell’attività degli insetti impollinatori (153 miliardi di euro, ossia il 9,5% del valore della produzione alimentare mondiale) per quantificare il costo complessivo dell’uso massiccio e sistematico degli insetticidi industriali...
Come si sarebbe potuto pensare all’importanza «economica» delle api nella produzione alimentare, dato che non le si paga ed ignorano lo sciopero?
Questo è sempre stato lo «spirito» del capitalismo.
Quanto al modo in cui il capitalismo contemporaneo cerca di emanciparsi dalla carne, dal corpo, mi limito qui a pochi richiami. Dichiarato «obsoleto» (fuori moda), il corpo umano sarà «accresciuto», strutturato, «migliorato», in maniera tale che presto si troveranno pochi cittadini refrattari agli esoscheletri (membra aggiunte) ed ai micro-computer griffati che si trovano oggi nei telefonini cellulari. La fabbricazione — purtroppo ben avanzata! — di un corpo meccanico a cui il vecchio corpo umano non servirà che da sostegno è uno dei modi con cui il capitalismo cerca di superare i limiti biologici e materiali dell’umano.
È anche la fine programmata della nostra specie.
Una bazzecola, in confronto al formidabile sviluppo dei settori di punta: nanotecnologie, biometria, robotica.
«La paura è la principale minaccia che pesa oggi sull’economia», faceva dire a Sarkozy uno dei suoi portapenna. Egli vuol dire che la vera crisi che teme è una crisi di fiducia nei «valori» dell’economia. Ed ha ragione. Viva la crisi!